Loredana
Lipperini, 11.1.2015
Da
un post su quelli che sono ormai a tutti gli effetti “i fatti di
Colonia” chi legge si aspetta due cose. Solo due, probabilmente, e
questo è già un sintomo che inquieta. Ovvero. La condanna senza se
e senza ma di quello che è avvenuto, in nome del femminismo (quello
stesso femminismo sbeffeggiato quando prende la voce per denunciare
quanto avviene, con cadenza quasi quotidiana, dalle nostre parti).
Oppure la difesa senza se e senza ma del multiculturalismo (che va
difeso, lo dico subito, senza quei se e senza quei ma. Ma sapendo che
in ogni cultura, e in alcune in modo più evidente, si fatica a
considerare le donne persone. E sapendo anche che all’interno di
ogni cultura si devono fare infiniti distinguo. Come vedremo).
Troverete
altre parole. Perché la preoccupazione per il nuovo tassello di un
mosaico che ha un solo titolo, ormai (scontro di civiltà), non può
renderci immemori. E l’unico modo per fornire elementi di
riflessione è ricostruire cosa è avvenuto all’interno della
nostra cultura. La nostra, quella che si autodefinisce civilissima ma
che civile non può essere finché rifiuterà di fare i conti con la
propria storia.
Partiamo
alti. Partiamo da Gabriele D’Annunzio, che nel 1903 compone Maia.
Sottotitolo, Laus
Vitae.
Superomismo, miti nascenti, elogio della guerra. E celebrazione dello
stupro etnico:
“Le
vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul
marmo dei ginecei violati, sbatteremo i pargoli vostri come cuccioli.
Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno
germi nelle piaghe fumanti”.
Ah,
ma scomodi D’Annunzio. Troppo facile, si dirà. Era un poeta,
D’Annunzio. Non parlava sul serio. Forse no. Forse non qui, almeno,
perché i discorsi che incitarono all’interventismo e vagheggiavano
inondazioni di sangue erano serissimi.
Ma è
giusto. Facciamo parlare i soldati.
Quinto
Antonelli ha raccolto lettere, diari e memorie dei soldati al fronte
in Storia
intima della grande guerra
(Donzelli). Sono scritti indirizzati alla famiglia, nella maggior
parte dei casi. Un’altra narrazione, rispetto a quella ufficiale
(“Capirai a noi qua si divora la rabbia nel sentire che in Italia
fanno delle feste per la presa di gorizzia e suonare le campane si
dovrebbero vergognare”). In questa narrazione entra quello che non
viene detto: l’esaltazione della morte, l’ebbrezza
dell’uccisione. E dello stupro, anche.
In
una delle lettere viene raccontato un episodio. I soldati italiani
circondano una donna. Non parla la nostra lingua, o forse sì, non
sappiamo molto di lei. Sappiamo solo che la violentano e che, alla
fine, le infilano nella vagina uno di quei tubi di gelatina che si
usano per far saltare i reticolati austriaci. Fanno esplodere il
tubo. Coperti di sangue e brandelli di carne, ridono.
Il
soldato che racconta il fatto ha orrore di sé e dei suoi compagni.
Ma
si potrebbe andare indietro, in tempi che precedono D’Annunzio e la
sua frenesia. A quell’episodio dimenticato che venne chiamato la
ribellione dei Boxer, e che nel secolo nascente portò in Cina un
gran numero di forze internazionali (e colonialiste), fra cui un
contingente italiano. Le donne vennero stuprate e si suicidarono per
non sopravvivere al disonore.
Possiamo
ricordare le operazioni di pulizia coloniale italiane di fine
Ottocento e inizio Novecento, per esempio. Quelle che è così
faticoso ricordare. Quelle che sono classificate, come è giusto che
sia, crimini di guerra. E la violenza sulle donne è in primo piano.
Vediamolo. Per frammenti.
1891.
La commissione reale d’inchiesta che indaga sul comportamento
italiano in Eritrea dopo la conquista di Asmara scopre che le cinque
mogli del Kantimai Aman erano state sorteggiate, su disposizione del
generale Baldissera, per essere violentate dagli ufficiali italiani.
Nessuna condanna.
1915-16.
Nel suo diario, Ferdinando Martini, scrittore, parlamentare,
governatore civile dell’Eritrea dal 1897 al 1907, ministro delle
colonie, racconta di ufficiali italiani impegnati “a tirar su
bambine a minuzzoli di pane” per adescarle. Più avanti, il medico
ungherese Ladislav Sava che si trovava ad Addis Abeba al momento
dell’occupazione italiana, raccontò nel 1940 al settimanale
londinese New
Times & Ethiopia News
di aver personalmente assistito alla “deportazione di donne
etiopiche in case convertite con la forza dai militari italiani in
postriboli”. Nelle interviste raccolte nel 1994 tra i reduci
d’Africa uno degli intervistati dichiara: “la colonia era un
paradiso per gli uomini anziani che potevano avere rapporti con
bambine di dodici anni”.
1931.
Durante la conquista italiana di Cufra non solo vengono uccise
centinaia di civili libici. Le donne stuprate sono almeno cinquanta.
Ad alcune donne incinte viene squartato il ventre. Alle ragazze
vengono conficcate candele di sego nella vagina e nel retto.
1940.
Durante l’invasione italiana della Grecia vengono invano segnalati
stupri di massa.
Non
ne potete più, vero? Fa male. Malissimo. Ma non è faccenda che
appartenga al passato così lontano. Facciamo un salto in avanti.
Siamo
nel 1993. Somalia. Missione Ibis. Johar, a nord di Mogadiscio. E’
una sera di giugno Due blindati con una decina di parà della Folgore
si fermano al check point. I militari di guardia hanno circondato
Dahira Salad Osman, una ragazza somala di 24 anni. Si divertono.
"Andiamo a divertirci anche noi", dicono i parà. Dahira
viene palpata dai soldati. Poi viene legata a un blindato. Qualcuno
tira fuori una bomba illuminante. Qualcun altro spalma sulla bomba un
po’ di marmellata. “Per farla entrare meglio”. Avviene la
stessa cosa che straziò la sconosciuta ragazza durante la Grande
Guerra. Questa volta, almeno, la bomba non viene fatta esplodere.
Mi
fermo.
Cosa
voglio dire con questo elenco di orrori? Non che gli italiani siano
bestie. Non che i maschi lo siano. Voglio dire, invece, che l’abuso
dei corpi delle donne durante i conflitti è una prassi mai svanita.
Ma se quanto è avvenuto, sempre in tempi recenti, in Congo, Bosnia,
Sierra Leone, Rwanda e Kosovo, suscita un tiepido e infine svanito
orrore, molto silenzio avvolge ancora le violenze sessuali compiute
dai cosiddetti peacekeepers (si pensi ai soldati Onu in missione in
Congo, e non solo).
Il
problema che riguarda l’Italia, e proprio l’Italia, è sempre lo
stesso: della parte tenebrosa del nostro passato rifiutiamo di
parlare. Chiara Volpato, ordinaria di psicologia sociale presso la
Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, ne parla
in questo
articolo,
e ricorda come il mito auto-assolutorio di italiani brava-gente abbia
ormai costituito la nostra identità collettiva. Ricorda, Chiara
Volpato, che il silenzio sulle violenze di genere si debba alle
solite strategie: la negazione, l’eufemizzazione, la
disumanizzazione, la colpevolizzazione, la psicologizzazione, la
naturalizzazione, la distinzione.
Solo
riconoscendole riusciremo a capire che parlare di scontro di civiltà
non ha senso (e rientra in quelle stesse strategie, peraltro). C’è
una questione molto più ampia che riguarda le donne, e attraversa
tutte le culture.
Chi,
oggi, sollecita le femministe o le persone che si oppongono al
razzismo a “venire allo scoperto” lo fa per biechi motivi
elettorali. O personali, nel caso ci si senta meglio ad aggredire le
femministe (auguri).
Noi
non sappiamo cosa sia accaduto a Colonia. Non sappiamo se si sia
trattato delle aggressioni del branco o se, come si adombra, sia
stata “un’azione di guerra”.
Sappiamo
però due cose: che i femminismi non sono un giochino per bacheche di
miserandi comici o di egualmente miserandi politici, ma l’unica via
per far sì che la violenza di genere venga combattuta. Da qualunque
parte venga. E sappiamo che non tutti sono uguali. Non tutti “i
musulmani” stuprano. Non tutti gli italiani. Mio padre partecipò
alla guerra di Grecia, e non stuprò nessuno. Né lo fece il soldato
che nella Grande Guerra che assistette alla bestialità dei suoi
compagni. Questa è l’acqua, appunto. Questa è speranza. Teniamolo
a mente.
Nessun commento:
Posta un commento