Ida
Dominijanni, 8.1.2015
Un
branco di maschi è un branco di maschi. A qualunque latitudine e di
qualunque colore (anzi: “colore presunto”) essi siano. Con rara
onestà intellettuale e morale, l’ha ricordato ieri su Repubblica
Gabriele Romagnoli, a partire dalla sua propria esperienza di
studente universitario bolognese, nonché di “maschio sessualmente
arretrato”, che quarant’anni fa partecipava, o assisteva, ai riti
goliardici di carnevale che ogni anno contemplavano caccia, molestie
e palpeggiamento delle ragazze. E lo si potrebbe ricordare con
svariati altri esempi presi dal mondo occidentale, bianco e libero,
dove stupri di gruppo, molestie di varia natura, femminicidi di varia
efferatezza non smettono di accadere. Oppure con altri esempi tratti
dal circuito militare, occidentale e orientale, settentrionale e
meridionale, dato che sempre nelle guerre, e in qualunque guerra, le
donne continuano a essere la preda succulenta che gli eserciti di
maschi si contendono, o il marchio etnico che cercano di conquistare,
o la presunta altrui proprietà che cercano di rapinare.
Lo
si ricorda per sminuire i fatti di Colonia, Francoforte, Amburgo,
Düsseldorf e Stoccarda? No. I fatti della notte di capodanno non
vanno sminuiti: sono fatti brutti, e, se fossero come si sospetta
l’effetto di un’azione coordinata di bande di maschi
“nordafricani” – ma attenzione, basta interpellare delle amiche
che abitano in quelle città per sapere che la notte di capodanno
l’aria che tira è sempre la stessa –, sono fatti inquietanti.
Segnalano che la provocazione dei maschi islamici contro i maschi
occidentali tramite l’aggressione delle “loro” donne entra
ufficialmente, dichiaratamente, a far parte delle tattiche della
guerra civile globale in corso. E questa è certamente una pessima
notizia, che non va derubricata.
Ma
che non va nemmeno distorta, o piegata ad altri fini, l’altro fine
essendo il titillamento dell’ideologia dello “scontro di civiltà”
cui si presta egregiamente: che è precisamente quello che gli
islamisti radicali cercano di fomentare e dovrebbe essere
precisamente la trappola in cui evitare di cadere. Intendiamoci, c’è
pochissimo di nuovo sotto il sole. È dall’indomani dell’11
settembre americano che tutto l’occidente suona la grancassa
dell’oppressione femminile come marchio d’inferiorità della
cultura islamica, e della liberazione delle donne dal patriarcato
islamico come legittimazione per le guerre occidentali di
“democratizzazione” del Medio Oriente. Non per caso, questa
grancassa suona soprattutto nel fronte conservatore americano ed
europeo, che è tanto pronto a difendere la libertà femminile delle
donne contro l’aggressione degli “altri” maschi quanto è
pronto a tacitarla, all’occorrenza, in casa propria: che dire
dell’allarme per i fatti di Colonia di un commentatore come
Sallusti, che ai tempi del Berlusconi-gate non aveva mezzo dubbio
sulla libertà maschile di comprarsi il corpo femminile? Oppure che
dire delle certezze del Corriere della Sera, che dagli attentati di
Parigi porta avanti una strenua battaglia a difesa dello “stile di
vita” occidentale assimilando la libertà femminile alla libertà
di andare a teatro o a prendersi un aperitivo al bar? Difese
sospette, cui consegue sempre l’ingiunzione alla sinistra, o a ciò
che ne resta, a non sacrificare i diritti delle donne alla bandiera
del multiculturalismo.
Ma
qui non è questione di multiculturalismo, se per multiculturalismo
si intende il rovescio dello scontro di civiltà, ovvero
l’accettazione acritica di una cultura diversa dalla propria e la
giustificazione delle sue gerarchie e sopraffazioni interne, a
partire dalla gerarchia uomo/donna e dalla sopraffazione delle donne
da parte degli uomini. I branchi di maschi che assalgono donne non
sono giustificabili in nome di niente, né nella cultura islamica né
nella cultura occidentale, né fra gli immigrati di Colonia né nei
campus americani o nelle scuole “bianche” italiane. Assumere
davvero
lo stato dei rapporti fra i sessi e la libertà femminile come indici
dello stato di una civiltà – o meglio, della crisi di civiltà in
cui il mondo intero si trova – significa affrontare le
contraddizioni comune e trasversali alle civiltà che vengono
rappresentate come contrapposte e in lotta fra loro. Significa
combattere la brutalità del patriarcato islamico come i residui, o i
rigurgiti, patriarcali nelle democrazie occidentali. E viceversa:
significa anche e forse oggi soprattutto riconoscere i segni positivi
di libertà femminile non solo nelle democrazie occidentali, ma anche
nei paesi più patriarcali dei nostri. Solo pochi giorni fa Shirin
Neshat, un’artista che in materia di rapporti tra i sessi nel mondo
islamico non ha uguali e non teme confronti, in un’intervista sul
Manifesto interpretava l’efferatezza contro le donne nel
radicalismo islamico come il segno non tanto di una permanente
oppressione femminile, quanto di una inquietante arretratezza e
reattività della cultura politica di fronte a una libertà femminile
sempre più diffusa.
È
una sindrome che in occidente conosciamo bene: il patriarcato diventa
più aggressivo proprio quando scricchiola. Se cominciassimo a
leggere il disordine mondiale nei termini di una crisi planetaria del
patriarcato, e non nei termini autorassicuranti di un Eden
occidentale della libertà femminile in guerra contro l’inferno
patriarcale islamico, probabilmente cominceremmo finalmente a fare un
po’ d’ordine, a capodanno e tutti i giorni.
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