Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

27 maggio 2017

ROSA GENONI, UNA STILISTA, UNA SOCIALISTA, UNA PACIFISTA, UN'ANTIFASCISTA, UNA FEMMINISTA

Si moltiplicano le iniziative per celebrare il centenario della prima guerra mondiale e spesso prevale la retorica dell'eroismo, una narrazione tutta maschile di quella che fu solo un'inutile strage.
In questa narrazione le donne scompaiono o, se appaiono, sono relegate nel ruolo di madri e spose di combattenti, crocerossine o… prostitute.

Ma ci furono donne che presero posizione contro la guerra e si impegnarono attivamente per contrastarla, consapevoli che "qualunque ne sarà il risultato, il conflitto lascerà l’umanità più povera, segnerà un passo indietro nel progresso della civiltà"

Abbiamo deciso perciò di dedicare un pomeriggio ad una di queste donne, ROSA GENONI (1867-1954), stilista, socialista, pacifista, antifascista, femminista e vi invitiamo a partecipare al convegno che si terrà giovedì 8 giugno dalle 16 alle 19 in sala Paladin a Palazzo Moroni a Padova.

Vi invitiamo dunque a partecipare

Donne in Nero
Centro Pandora


DIGNITA' E LIBERTA' PER TUTTO IL POPOLO PALESTINESE

Lo sciopero è finito, non sappiamo ancora bene cos'abbiano ottenuto dopo 40 giorni di sofferenza i detenuti palestinesi: la lotta per la dignità e la libertà continua, l'occupazione deve finire.

Giriamo questa bellissima lettera di Fatwa, moglie di Marwan Barghouti.




MIO MARITO STA MORENDO DI FAME IN UN CARCERE ISRAELIANO. SAREMO DI NUOVO INSIEME QUANDO LA PALESTINA SARÀ LIBERA.
Fadwa Barghouthi, 25 maggio 2017

Trentotto giorni fa, mio marito Marwan Barghouthi è entrato in sciopero della fame nella sua cella in un carcere israeliano, insieme a più di mille altri detenuti palestinesi. La ragione per cui stanno tutti rischiando la vita è semplice: vogliono essere trattati in modo umano e dignitoso. Dal momento che alcuni dei prigionieri sono a rischio di morte imminente, ci chiediamo tutti perché il mondo non stia facendo niente.
Io e Marwan siamo sposati da trentadue anni e, per tutto questo tempo, lui è stato più in carcere che al mio fianco. Da più di quarant'anni lotta contro l'occupazione israeliana della Palestina. Di questi, ventidue li ha passati da detenuto e sette in esilio dopo essere stato deportato da Israele. È stato ricercato per molti mesi ed è sopravvissuto a due tentativi di omicidio.  
Non c'era quando sono nati i nostri quattro figli, né quando si sono diplomati e laureati, né quando tre di loro si sono sposati o quando nostra figlia ha avuto i suoi due bellissimi bambini, rendendolo nonno. Ha dedicato la vita alla causa della libertà. In questi trentadue anni d'amore e lotta ci sono stati molti giorni difficili, troppi, ma nulla in confronto agli ultimi quaranta.
Le istanze per le quali mio marito e più di mille altri stanno digiunando sono diritti fondamentali. Chiedono la fine delle punizioni arbitrarie, come per esempio essere messi in isolamento, a volte per anni. Chiedono la fine della tortura e dei trattamenti inumani e migliori condizioni nei trasferimenti da un carcere all'altro. Chiedono la fine della detenzione amministrativa, una pratica che Israele utilizza per trattenere a tempo indefinito, senza accusa né processo, migliaia di palestinesi. La maggior parte di quelli che riescono ad avere un processo vengono giudicati da tribunali militari israeliani con una percentuale di condanna tra il 90 al 99.7%.  
Marwan è stato processato per terrorismo da un tribunale civile a Tel Aviv, processo definito dagli osservatori internazionali come “politico” e “scorretto”, con ulteriore discredito per il sistema giudiziario israeliano. Nessun Paese ha riconosciuto il verdetto e circa 130 Paesi, come anche i parlamenti internazionali e quello europeo, hanno fatto appelli per il suo rilascio. In netta contraddizione rispetto alle accuse di cui Israele tenta di macchiarlo, Marwan è stato proposto sette volte come Premio Nobel per la Pace, anche da Premi Nobel come l'Arcivescovo Desmond Tutu e Adolfo Pérez Esquivel.  
Si stima che, dal 1967, Israele abbia arrestato circa 800.000 palestinesi, il 40% della popolazione maschile dei Territori Occupati. Agli occhi del governo israeliano, delle forze armate e della magistratura, i palestinesi sono tutti colpevoli. Fanno ricadere su di noi la responsabilità della loro ininterrotta occupazione militare e coloniale. Vogliono che noi siamo colpevoli perché così loro possono fare la parte degli innocenti.
I detenuti in sciopero della fame chiedono che venga rispettato il diritto alle visite familiari. Israele trasferisce con la forza i detenuti al di fuori del territorio occupato, il che costituisce di per sé un crimine di guerra, e utilizza quest'atto illegale per giustificare l'imposizione di restrizioni al nostro diritto di visita. Ai parenti stretti è richiesto un permesso e questo ci impedisce di andare a trovare i nostri cari per anni, se non per sempre.
Alla famiglia allargata, compresi i nipoti, è impedito del tutto il diritto di visita. I detenuti vogliono che sia loro consentito l'uso del telefono per parlare con i familiari, per poterne semplicemente sentire la voce, visto che non possono avere con loro un contatto fisico. Sono dieci anni e mezzo che io stessa non posso avere un contatto fisico con Marwan, e sogno di riuscire ad abbracciarlo anche solo per un secondo, soprattutto in momenti come questo.  
Israele sostiene di rispettare gli standard internazionali relativamente al trattamento dei prigionieri politici. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, L'Alto Commissariato per i Diritti Umani, gruppi di esperti delle Nazioni Unite e diversi Stati in tutto il mondo sono in totale disaccordo. Per vedere come Israele dimostra il proprio “rispetto”, è sufficiente osservare la sua reazione a questo sciopero della fame.  
Da quando è iniziato lo sciopero, Israele ha reagito contro la protesta pacifica dei detenuti palestinesi in vari modi. Diversi detenuti, compreso Marwan, sono stati messi in isolamento e Israele ha fatto ricorso ad altri trattamenti inumani, come la privazione del sonno, le ripetute ispezioni delle celle, trasferimenti inumani ad altre carceri, diniego delle visite parentali e, per molti detenuti, diniego dei colloqui con gli avvocati. Anziché porvi fine, Israele ha intensificato le violazioni dei diritti dei detenuti e gli attacchi alla loro dignità.  
Ha deciso di rompere lo sciopero della fame con la forza. Alti funzionari israeliani hanno invocato l'esecuzione di mio marito, la morte di altri prigionieri e l'adozione, da parte di Israele, del “sistema Margaret Thatcher”, che ha portato, nel 1981, alla morte di dieci detenuti irlandesi in sciopero della fame. Israele ha anche approvato, nel 2015, una legge che permette l'alimentazione forzata, legge confermata dall'Alta Corte israeliana nonostante le Nazioni Unite, varie organizzazioni per i diritti umani e associazioni di medici in tutto il mondo abbiano dichiarato che l'alimentazione forzata è una forma di tortura.  
Vedendo i propri cari, che già sono detenuti, sotto un vero e proprio attacco da parte della potenza occupante, le famiglie dei detenuti in sciopero della fame difficilmente sono riuscite a mangiare o dormire in questi quaranta giorni. Ogni giorno ricevono notizie sul peggioramento della salute di decine di detenuti e temono per le loro vite, e si chiedono se, tra quei detenuti, ci sia anche il loro figlio, marito o fratello. In una tenda della solidarietà, una madre chiede: “Ma deve morire perché io possa abbracciarlo?”, un'altra: “Ma è la morte l'unica via per la libertà?”.
Anche in quel caso, non c'è garanzia, perché Israele non si fa problemi a trattenere per anni i cadaveri. Dopo cinquant'anni di occupazione di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza, e quasi settant'anni dopo l'espulsione di massa del nostro popolo, attuata da Israele e conosciuta come Nakba, io esorto il mondo a guardare dentro le prigioni israeliane per cercare di capire l'origine della nostra lotta: il desiderio di vivere una vita libera e dignitosa invece che in schiavitù e umiliazione. Chi vuole davvero impegnarsi per la pace deve sostenere la libertà dei nostri detenuti e quella del nostro popolo.  
Trentadue anni fa, appena prima di sposarci, Marwan mi disse che, finché saremmo stati sotto occupazione, avrebbe dedicato la vita alla lotta per la libertà. Ha mantenuto la sua promessa verso i palestinesi ed è per questo che loro credono in lui. Ma mi ha promesso anche che, non appena l'occupazione finirà, potremo godere di ciò che ogni persona cerca e merita: una vita normale.
Trentadue anni dopo, sto ancora aspettando quella vita normale, mentre Marwan giace in isolamento, digiunando per libertà e dignità. 

Fadwa Barghouthi è la moglie del leader palestinese detenuto e parlamentare Marwan Barghouti. Accusato di essere coinvolto in cinque omicidi durante la Seconda Intifada palestinese, sta attualmente scontando 5 ergastoli in un carcere israeliano.