Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

09 luglio 2010

Riflessioni su Srebrenica

11 luglio

Hasan Nuhanović 9 luglio 2010

In occasione della giornata europea del ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica, pubblichiamo la storia di Hasan Nuhanović, interprete delle Nazioni Unite sopravvissuto alle stragi del luglio 1995

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul settimanale bosniaco Dani il 18 giugno 2010


 

1.

Oggi ho identificato mio fratello grazie alle sue scarpe da ginnastica. Quest'autunno mi dissero di mia madre. La trovarono, o meglio quello che rimaneva di lei, in un ruscello nel villaggio di Jarovlje, a due chilometri da Vlasenica. I serbi che ci vivono hanno continuato a buttare per 14 anni l'immondizia su di lei. Non era sola. Ne ammazzarono altri 6 nello stesso posto. Gli avevano dato fuoco.

Dissi: spero li abbiano arsi da morti.

Quest'autunno andai anche in tribunale, a vedere Predrag Bastah Car.

A Vlasenica un serbo, a cui diedi 100 marchi tedeschi, mi disse che Car, dopo averli cosparsi di benzina, gli aveva dato fuoco. Non vi era gran che da vedere nell'aula dove lo stavano processando perché nel 1992 sgozzava le persone, era un rinsecchito rifiuto umano.

Probabilmente aveva aspettato tutta la vita di essere qualcuno. E l'occasione gli si presentò nel '92. Poi, fino alla caduta di Srebrenica, non vi erano più in circolazione musulmani da sgozzare. Dovette aspettare più di due anni quando finalmente carpì mia madre e alcuni altri. Un altro serbo, a cui allungai 300 marchi tedeschi, mi disse che il suo comandante lavora oggi qui, a Sarajevo.

Quest'anno mi sono preparato a seppellire mia madre vicino a mio padre. Lui lo identificarono 4 anni fa, a 11 anni dall'esecuzione. Dissero di aver trovato poco più della metà delle sue ossa. Il cranio frantumato sulla parte posteriore. Il dottore non era in grado di dirmi se glielo frantumarono dopo il decesso. Era nella fossa comune secondaria di Cancari 5, a Zvornicka Kamenica. Lì vi sono 13 fosse comuni con corpi che i cetnici, dalla fossa comune primaria vicino a Pilica, nella fattoria Branjevo, poco prima degli accordi di Dayton, ammassarono con i bulldozer, caricarono sui camion e portarono a una quarantina di chilometri di distanza per risseppellire. In tutto circa 1.500 corpi. Almeno così sostengono quelli del Tribunale. Ho letto la dichiarazione di uno dei boia: "Non riuscivo più a premere il grilletto, avevo l'indice informicolato da quanto avevo sparato. Andavo avanti ad ammazzarli per ore". Dichiarò inoltre che qualcuno aveva promesso loro 5 marchi per ogni musulmano ucciso quel giorno. Disse che costrinsero anche gli autisti a scendere e ammazzare almeno un paio di musulmani, in modo da assicurarsi il loro silenzio. Capito, poveri autisti!

Povero anche Erdemović, che dichiarò che dovette uccidere per non venire ucciso a sua volta. Tutti si trovarono costretti a farlo, dietro l'ordine esplicito di Mladić, unico colpevole. Appena lo cattureranno proclamerà, da vero eroe serbo: "Mi assumo io tutta la responsabilità per tutti i serbi e per tutto il popolo serbo. La colpa è solo mia, processate me, tutti gli altri lasciateli liberi." Solo allora noi musulmani, i serbi e tutti gli altri saremo contenti. Ci leveremo i pantaloni e ci abbracceremo. Non avremo bisogno di alcuna mediazione straniera.

L'anno scorso prepararono le lapidi in pietra, belle, bianche. Tutte uguali, perfettamente allineate. Vicino a mio padre due posti vuoti. Sono tre anni che aspetta che gli mettano vicino mia madre e suo figlio Muhamed.

Dissero di aver identificato mia madre. Mi preparai a seppellirla vicino a suo marito l'11 luglio 2010. Poi la telefonata... Dicono: "Il DNA combacia ma non siamo completamente sicuri." Dissero di andare a Tuzla. Così oggi sono andato.

2.

Nella primavera del '95 comprai a mio fratello delle scarpe da ginnastica nuove, Adidas, da uno che viveva all'estero. Le aveva portate da Belgrado ritornando a Srebrenica dalle vacanze. Non le aveva portate nemmeno due mesi quando successe. Gli avevo comprato anche un paio di jeans Levi's 501. Li aveva addosso. Ricordo esattamente quale maglia e quale camicia indossasse.

Il dottore mi ha mostrato oggi le foto dei vestiti. Non è rimasto molto – disse – ma abbiamo le scarpe da ginnastica. Mise la foto sul tavolo e vidi le scarpe, le Adidas di mio fratello, come se le avesse appena tolte. Non erano nemmeno slacciate.

Allora il dottore portò un sacco e rovesciò davanti a me sul cartone tutto quello che rimaneva degli effetti personali di mio fratello, le cose trovate sui suoi resti. Dopo 15 anni di attesa presi le sue scarpe da ginnastica in mano. Trovarono la cintura con la grande fibbia metallica e il resto dei jeans. Avevano anche entrambe le calze. Cercavo la ben nota etichetta Levi's, un indizio in più per aiutarci a confermare la sua identità. Presi in mano, i resti dei jeans. I bottoni metallici. Gli interni delle tasche. Le parti in cotone si erano sgretolate. Non c'erano più. Erano rimaste solo le parti sintetiche. Un'etichetta diversa, solo leggermente sporca, penzolava intera, aggrovigliata tra i fili e i resti. Cercando il contrassegno della Levi's lessi: Made in Portugal.

Tutto il giorno avevo davanti agli occhi quella scritta. Credo che l'avrò davanti per tutta la vita. Forse comincerò a odiare tutto quello che è Made in Portugal, come odio la birra Heineken che i soldati olandesi tracannavano nella base di Potočari, nemmeno un'ora dopo che avevano cacciato tutti i musulmani – dritti nelle mani dei cetnici. O forse comincerò ad amare tutto quello che reca la sigla Made in Portugal, visto che mi ricorderà per tutta la vita il mio fratello ucciso.

3.

Quella volta, a Potočari, si avvicinò a me un giovane soldato olandese, mi offrì una cassa di birra e le Marlboro. Scossi il capo. Lui alzò semplicemente le spalle e si allontanò.

Io invece, come tanti altri, ho continuato a pregare Dio per 15 anni di farmi la grazia di scoprire, una volta che la verità sarebbe venuta a galla, che non avevano sofferto molto, che non erano morti torturati.

Sono 15 anni che sono morti. Quell'anno nacquero dei bambini. Adesso hanno 15 anni; anzi alcuni festeggeranno proprio l'11 luglio il loro quindicesimo compleanno.

Non farò mai e in nessun modo niente che possa mettere a repentaglio il futuro di questi bambini. Non ci penso nemmeno, anzi confidiamo in Dio che questo non debba accadere mai più a nessuno. Solo ricordati, Amico, che non c'è amnistia. Per i boia non ci deve essere amnistia.

4.

Come accaduto già molte volte, anche ieri i giornalisti mi chiesero quale sarebbe il mio messaggio per le future generazioni. Io gli avevo raccontato come dopo Dayton passavo in macchina attraverso la Bosnia orientale cercando le tracce di persone scomparse, assassinate. Sapevo che vicino a Konjević Polje, Nova Kasaba, Glogova sulla strada per Srebrenica, ci sono le fosse comuni, che i prati ne sono pieni. Anche quando attraversavo questi luoghi nei giorni quando tutto fioriva, quando tutto sbocciava, io non ero in grado di vedere quella bellezza. Io vedevo solo le fosse che nascondevano quei prati. Sotto i fiori giacevano i nostri padri, fratelli, figli. Le loro ossa. Viaggiando attraverso i luoghi abitati dai serbi, li guardavo dalla finestra e pensavo: chi di loro è un assassino? Chi è un assassino?

Per anni non pensavo, non vedevo altro. Per anni interi. Poi, un giorno, sul prato che avevo sentito nascondere una fossa comune, vidi giocare una bambina. Avrà avuto 5, 6 anni. L'età di mia figlia. Sapevo che lì abitavano i serbi. Lei correva sul prato. Senti pervadermi un miscuglio di emozioni: tristezza, dolore, odio.

Poi un pensiero mi passò per la mente: quali colpe ha questa bambina? Lei non intuisce nemmeno cosa nasconde il prato, cosa si cela sotto i fiori. Provai pietà per quella povera bambina così somigliante a mia figlia. Potrebbero giocare insieme sul prato – pensai. Desiderai che quella bambina e mia figlia non debbano mai vivere quello che abbiamo vissuto noi. Mai. Loro meritano un futuro migliore. Questo dissi ai giornalisti di Belgrado.

Il dottor Kesetović mi confermò finalmente che per l'11 luglio saranno pronti i resti di mio fratello per la Dženaza, il funerale musulmano. Come se all'ultimo momento mio fratello avesse deciso di farsi seppellire assieme a mia madre, vicino a mio padre che li aspettava a Potočari. Così finalmente mio padre, assassinato a Pilica, esumato a Kamenica, mio fratello ucciso a Pilenica, esumato a Kamenica, e mia madre assassinata a Vlasenica, esumata dal ruscello sotto l'immondizia, riposeranno uno accanto all'altro a Potočari.

Iniziative Su Srebrenica

Il pilastro della vergogna

Azra Nuhefendić 8 luglio 2010

Un'iniziativa dal forte impatto simbolico. Con cui i promotori intendono denunciare il genocidio di Srebrenica e le responsabilità dell'Onu per quanto avvenuto. Il progetto "Pilastro della vergogna" intende ergere una scultura ricolma di scarpe in ricordo delle 8.372 vittime


In occasione del quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, è stato lanciato a Berlino il progetto "Pilastro della vergogna". Il progetto ha come obiettivo la costruzione di una scultura per ricordare le responsabilità di politici e militari occidentali in merito al genocidio di Srebrenica.

Si prevede la costruzione di due gigantesche lettere "U" e "N", riempite da 16.744 scarpe come simbolo delle 8.372 vittime del genocidio. La costruzione del "Pilastro della vergogna" impiegherà un anno e dovrebbe essere completata per l' 11 luglio 2011.




"La scultura è una metafora del colossale imbroglio compiuto dalle Nazioni Unite in Bosnia-Erzegovina, in particolare a Srebrenica, i cui misfatti non sono mai stati oggetto di discussione nel mondo", ha detto Philip Ruh (Philipp Ruch), direttore del "Centro per la Bellezza Politica" a Berlino, promotore del progetto "Pilastro della vergogna".

In una lettera mandata al segretario generale dell'ONU, Ban Ki-moon, Philipp Ruch, scrive: "Abbiamo deciso di sostenere le madri di Srebrenica accusandovi, ma non davanti a un giudice. Lo faremo tramite un'immagine che rappresenterà il fardello che dovete portarvi sulle spalle, e condanneremo ancora una volta il vostro abuso senza precedenti avvenuto in Bosnia Erzegovina a Srebrenica. Avete mischiato stupratori e assassini con le vittime e avete affermato che sono tutti colpevoli. Non continueremo ad assistere inermi ai vostri complotti", scrive senza mezzi termini Ruch.

Nella lettera, oltre ad accusare le Nazioni Unite di assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle famiglie delle vittime del genocidio, dichiara che ogni anno le Nazioni Unite ignorano le richieste scritte di Hasan Nuhanović, uno dei sopravvissuti del genocidio, di esporre una bandiera a mezz'asta davanti al quartier generale dell'ONU a New York in data 11 luglio.

Philipp Ruch spiega come sia nata l'idea della scarpa: "Ho pensato a cos'è che tutti possiedono in casa. Tutti hanno scarpe e stivali e inoltre la scarpa è l'oggetto che più sopravvive ai cadaveri. Ho deciso quindi di utilizzare le scarpe per simboleggiare le vittime, unite nel monumento alla vergogna".

Le scarpe saranno esposte all'Aia, a Berlino, e poi al Centro Memoriale di Potocari, luogo di sepoltura delle vittime del genocidio. A Potocari ogni 11 luglio vengono sepolti i cadaveri delle vittime rinvenuti nelle fosse comuni, e identificati nel corso dell'anno trascorso. l progetto "Pilastro della vergogna", è sostenuto anche dalla Società Internazionale per i Popoli Minacciati.

Le scarpe fin'ora raccolte sono esposte all'Aia, dove si sta svolgendo il processo contro Radovan Karadžić.

L'11 luglio, per il quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, le scarpe saranno esposte a Berlino davanti alla Porta di Brandeburgo, considerata la più grande attrazione turistica della città.

Il progetto "Pilastro della vergogna" prevede che a donare le proprie scarpe siano cittadini comuni e personaggi popolari, anche al di fuori del confine bosniaco. Mentre si fanno fotografare scalzi, sono invitati ad esprimere ciò che pensano della Bosnia Erzegovina o si augurano per il suo futuro.

Per non dimenticare Srebenica


11 luglio 1995 – 11 luglio 2010
Perché la memoria di Srebrenica sia fonte di vita
Di quanto è accaduto in tutta la cosiddetta “ex Jugoslavia” a partire dal 1992, non sono responsabili solo i soggetti coinvolti nel conflitto: tutta la comunità internazionale non può lavarsene le mani, infatti nel migliore dei casi ha distolto lo sguardo, fingendo di non vedere, e, quando è intervenuta, si è dimostrata debole, impotente e, in alcune situazioni corresponsabile e complice.
A Srebrenica si è toccato il fondo: i Caschi Blu dell’ONU si sono resi complici del genocidio.
Da allora la nostra fiducia nelle Nazioni Unite, già molto provata, si è gravemente incrinata.
Non c’è pace senza giustizia, non può cominciare una vita nuova se non si è fatta chiarezza sul passato, ciò significa concretamente individuare i responsabili e processarli, non solo chi ha pianificato e commesso materialmente il genocidio, ma anche chi – come l’ONU - è stato a guardare e ha lasciato fare.
Giustizia significa anche permettere ai familiari delle vittime, alle sopravvissute e ai sopravvissuti, di poter affrontare in condizioni dignitose la loro vita, così crudelmente devastata, in un contesto pacificato.
Siamo convinte però che, affinché tragedie come quella di Srebrenica non si verifichino più, nemmeno questo sia sufficiente: è necessario un cambiamento nella struttura dell’ONU, che tolga alle cosiddette grandi potenze le leve del comando, affinché essa possa svolgere un ruolo efficace di interposizione e protezione della popolazione civile.
Noi, responsabili forse allora di non aver gridato abbastanza forte per denunciare e chiedere giustizia, ci siamo fatte carico - e continuiamo a farlo -, di non far cadere il silenzio su Srebrenica e su tutti gli altri massacri che continuano a compiersi in tutto il mondo calpestando i diritti umani e il diritto internazionale; di reclamare che siano accertate le responsabilità, soprattutto delle Nazioni Unite e del nostro governo; di lavorare per dare credibilità alle istituzioni preposte al mantenimento della pace; di farci voce dei familiari delle vittime e delle sopravvissute e dei sopravvissuti nelle loro legittime rivendicazioni.
Perché questa data non sia la celebrazione di un rituale che lascia le cose come stanno, perché l’11 luglio non diventi l’alibi per mettersi a posto la coscienza dimenticando poi, in tutti gli altri giorni, le sofferenze e le ingiustizie che chi è rimasto in vita continua a subire.
A loro, familiari delle vittime, sopravvissute e sopravvissuti, diciamo:
“Perdonate se non sempre abbiamo alzato forte la nostra voce, vogliamo essere al vostro fianco e sostenere le vostre rivendicazioni. Grazie per la vostra tenacia nel proseguire l’impegno per la verità e la giustizia. Non arrendetevi, ma non consacrate la vostra vita al lutto. Vivete anche per chi non c’è più”

Donne in Nero di Padova

01 luglio 2010

Riassunto della discussione dell’incontro di Padova delle Din del 26- 27 Giugno

Spero che ci sia qualche commento o elaborazione . Coraggio

SULLA MILITARIZZAZIONE

Incontro di Padova, 26-27 giugno 2010


 

Al nostro incontro sulla militarizzazione erano presenti, oltre a una ventina di Donne in Nero di Padova, Bologna, Verona, Schio, Udine, Torino, Bergamo, Modena, anche donne di Vicenza del Gruppo Donne del Presidio Permanente No Dal Molin e di Femminile Plurale. Questo incontro è stato preceduto da uno scambio di riflessioni e documenti (che si possono vedere su www.gmail.com, nome utente din.documenti, password pace1234), frutto delle discussioni ed elaborazioni di diversi gruppi di DiN, che - anche se non hanno potuto partecipare – hanno contribuito. Perciò rileviamo ancora una volta come l'incontro abbia stimolato in tutte noi il confronto e l'elaborazione…

Le DiN di Padova hanno preparato un documento introduttivo, che hanno presentato proponendo un percorso di interrogativi su cui discutere (si può leggere sempre su www.gmail.com. Oppure sul loro blog: http://controlaguerra.blogspot.com/ ). Riassumo qui la discussione di quasi due giorni; non facile, e a volte ondivaga – il caldo e la complessità non aiutano – cercando di raggruppare per temi gli argomenti toccati.


 

VICENZA

Le donne di Vicenza ci raccontano gli ultimi passi della loro costante – anche se faticosa – opposizione alla base: non solo per la difesa del proprio territorio, ma anche e soprattutto in quanto base di guerra. La costruzione della base prosegue, malgrado siano stati trovati reperti archeologici i lavori proseguono altrove. Loro sono sempre attente e vigili, per cogliere ogni occasione di interventi; ogni sabato manifestano, raccolgono firme per la salvaguardia del parco in cui hanno piantato alberi (v. le ultime buone notizie!), cercano contatti diretti con la gente, anche se adesso è più difficile per il clima di indifferenza o rassegnazione: malgrado l'opposizione civile la base sta sorgendo e cresce, e diventerà una città militarizzata, in cui sono previste ben 15.000 – 17.000 persone! Non è stata fatta la valutazione di impatto ambientale, e si sa che la falda è in pericolo di inquinamento; per questo hanno organizzato la Festa dell'Acqua. Sottolineano come sia importante essere continuative nell'impegno, nella vigilanza di quanto accade, nella continua ricerca di contatto con la gente, nella "cura della smilitarizzazione delle menti", ma anche nella chiarezza della propria opposizione in quanto opposizione alle guerre che si fanno per difendere gli interessi (economici) USA nel mondo, nella consapevolezza dell'ipocrisia dei governi e dei ricatti cui sottostanno le istituzioni. Sottolineano anche la necessità di essere creative, anche nella ricerca di nuove forme di opposizione.


 

BALCANI

Sono arrivate le comunicazioni delle ZuC a proposito delle iniziative per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica. Ci saranno iniziative a Belgrado, il 7 luglio la performance "Una scarpa – una vita" cui ci è richiesto di partecipare con messaggi, e l'11 luglio la commemorazione a Potocari. Patricia ci informa che da Belgrado a Potocari è prevista una lunga marcia con iniziative lungo il percorso; non sappiamo chi potrà partecipare, e ci impegniamo a inviare per posta normale (oltre che per posta elettronica) i nostri messaggi, ringraziando le ZuC che metteranno a disposizione le scarpe che non portiamo di persona. [Vedi mail di Marianita, DOPO L'INCONTRO DI PADOVA ALCUNE RICHIESTE URGENTI]


 

INCONTRI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA

Abbiamo parlato brevemente dei due incontri a Bogotà (di agosto, convocato da Movimiento Social de Mujeres contra la Guerra y por la Paz e Marcha Mundial de las Mujeres, e di novembre, XV° Incontro Internazionale delle Donne in Nero, convocato dalla Ruta Pacifica de las mujeres). Patricia invierà l'adesione della nostra rete a entrambi, verificando chi può e vuole partecipare. Quanto ai contenuti della nostra partecipazione, pensiamo che l'incontro nazionale dell'autunno potrà definirli meglio.


 

MILITARIZZAZIONE-MILITARISMO

Oltre a quanto detto nei documenti, sia quelli preparatori di questo incontro sia quelli precedenti, sono stati evidenziati nella discussione argomenti specifici che ci paiono più problematici, o non sufficientemente approfonditi.


 

Cosa ci sembra utile e importante per intervenire come DiN contro la militarizzazione delle menti:


 

ISRAELE/PALESTINA

Abbiamo bisogno di caratterizzare come DiN il nostro impegno; sull'adesione alla campagna per il BSD va chiarito che non è contro i cittadini israeliani, ma contro l'economia di guerra israeliana, contro l'occupazione e gli insediamenti dei coloni; ci sono ancora ambiguità, ad esempio nelle risposte che Coop o Legambiente hanno dato, ma anche nella realtà di produttori palestinesi che sono costretti o indotti ad utilizzare canali israeliani per esportare i propri prodotti; per il boicottaggio accademico ci riferiamo alle collaborazioni, specie militari, tra le università, non ai singoli, e non dobbiamo dimenticare il sostegno al diritto di studio palestinese e alle loro università.

In particolare sull'adesione delle DiN alla campagna si sente il bisogno di sapere quali e quanti dei gruppi in Italia ci stanno lavorando, con quali modalità, con chi, e di scambiare materiali ed esperienze.

Va anche ricordato che non c'è solo il BDS: il recente viaggio in Palestina/Israele ha messo in evidenza le molte forme di resistenza nonviolenta che sono in atto da parte di palestinesi, internazionali e israeliane/i, la dura repressione che subiscono da parte del governo israeliano, e la forte richiesta di dar valore e voce a quanto stanno facendo.

Quindi è importante raccontare le esperienze e aiutare a capire quanto là sta avvenendo.

Abbiamo anche parlato della Freedom Flottilla e di altre azioni analoghe che sono in preparazione: all'ipotesi di partecipazione diretta delle DiN sono state poste perplessità riguardo alla possibilità di controllare e far funzionare, in azioni di massa, le tecniche di nonviolenza.


 

PARLIAMO DI NOI

La ricerca del senso di quanto facciamo continua ad essere un'esigenza radicata. Ci raccontiamo alcune esperienze locali di collaborazione positiva con altri gruppi e associazioni: a Torino il "Pride dei diritti", a Schio lo sciopero dei migranti del 1° marzo, a Udine la Rete dei Diritti, a Bologna sulla campagna BDS ed altri temi.

Ma parlando più specificamente di noi come DiN, si manifestano disagi – la scarsità di risultati e quindi mancanza di efficacia, la difficoltà ad elaborare il pensiero, travolte dalle attività ed emergenze continue, la percezione del contesto mutato in cui ci troviamo, la percezione della necessità di svecchiare pratiche e pensiero, di superare la dimensione di testimonianza delle uscite per offrire pratiche che siano durevoli e incisive, pur non sapendo quali. Siamo soggetto politico? Vogliamo diventarlo o ciascuna segue il destino della sua città?

Ci chiediamo anche quali gruppi ancora mantengano le pratiche "tradizionali" delle DiN (riunioni settimanali, uscite periodiche in nero e in silenzio…) e in generale quali siano le pratiche degli altri gruppi, quanto siano ancora vivi e presenti i principi che hanno animato pratiche e campagne del passato (v. documenti delle Donne in Nero di Belgrado e Israele, ma anche le nostre campagne "Io donna in Palestina", "Nafas"…). Manca una conoscenza reciproca che ci permetta di parlare di una Rete delle Din, sapendo che la lista elettronica ne rappresenta solo una parte, e ne deforma la visibilità e l'incidenza. Manca un coordinamento e scambio anche per le azioni che molti gruppi condividono – come BDS o militarismo, non sappiamo neppure con quali modalità. Siamo in grado di individuare come lavorare a un impegno condiviso, partecipato e coordinato?

Abbiamo bisogno di elaborare e approfondire il nostro pensiero e di trovare parole e azioni per esprimerlo. Prendere la parola contro la guerra è già un'azione politica, anche perché è una parola che nessuno più pronuncia, ma come farlo insieme? Come fare ad andare oltre la proclamazione di slogan che restano inadeguati e poco significativi se non sono accompagnati da un'azione politica? Ad esempio, Fuori la guerra dalla storia, rischia di essere uno slogan vuoto, mentre proprio oggi è più attuale che mai come utopia e percorso, capace di dare un significato, in cui ancora ci riconosciamo, al nostro essere Donne in Nero; proprio perché la guerra è ormai guerra totale nelle nostre vite, fatta contro e da civili, è sfacelo del tessuto sociale e anche polizia internazionale e "aiuti internazionali"; è guerra "santa" il cui nemico è demonizzato, disumanizzato, con cui non si può parlare né tantomeno trattare.

Ancora una volta quindi ribadiamo la necessità di sottolineare l'importanza della responsabilità personale, a tutti i livelli, ma soprattutto nostra, di opposizione e denuncia dei nostri governi: non in nostro nome! Ciò richiede da parte nostra innanzi tutto studio, riflessione, confronto ed elaborazione che permettano poi di assumere posizioni e individuare azioni in modo più consapevole e condiviso.


 

DIAMOCI DEI COMPITI

Facciamo quindi alcune richieste e proposte alla rete delle DiN, comprese, ovviamente, noi stesse:


 

- Abbiamo esigenze di conoscenza reciproca e scambio: diciamoci quali sono le nostre pratiche attuali come DiN, se e come siamo attive per la campagna BDS e contro il militarismo; inviamo alla lista il materiale che elaboriamo, raccontiamo le azioni per diffonderlo. Coordiniamo, per quanto possibile, le nostre attività.

- Come avrete visto dal loro documento, le DiN di Bologna hanno proposto una campagna nazionale contro la guerra in Afghanistan e per il ritiro delle truppe. Anche se di questo argomento molti gruppi si sono già da tempo fatti carico, riteniamo che sarebbe necessaria un'iniziativa della rete a partire dalla nostra condizione di donne e cittadine che mettono il discussione le scelte dei nostri governi, costruita insieme da tutte, soprattutto per definirne le modalità: denuncia? richiesta alle istituzioni? altro?

- Per l'incontro nazionale di ottobre [per cui avevamo proposto Orbetello o L'Aquila, sarebbe importante sapere se le DiN de L'Aquila hanno verificato la possibilità di tenere l'incontro da loro in tempi abbastanza brevi per poter fissare data e luogo], vorremmo impegnarci tutte a lavorare ancora sui temi della militarizzazione, invitando allo scambio e alla partecipazione ogni gruppo DiN; speriamo che queste note possano essere utili all'incontro che i gruppi DiN di Napoli, Roma, l'Aquila terranno a luglio, come speriamo di ricevere i loro contributi.

Buon lavoro a tutte noi!