Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

19 aprile 2010

Alcune note sull'incontro delle donne in nero a Orbetello

Ci siamo trovate a Orbetello in tante e da tante città dopo tanto tempo.E' stato un incontro positivo per il clima di disponibilità di tutte a confrontarsi e starsi a sentire, a trovare azioni che uniscano i vari gruppi.Ci siamo lasciate con l'impegno a rivederci a ottobre.Presto ci sarà una relazione su quanto ci siamo dette. Penso che incontri come questo siano una boccata d'aria nella situazione politica generale.Ciao barberina

15 aprile 2010

Dalla Palestina e dal mondo

Le notizie che giungono dalla Palestina non sono incoraggianti:il divieto alle manifestazioni non violente dei villaggi di Bili'n e Nali'n contro la costruzione del muro e l'esproprio della terra, la minaccia di espulsione di cittadini della Cisgiordania senza permessi legali, la costruzione di nuovi insediamenti , in particolare a Gerusalemme . Ci sentiamo impotenti, ci sembra che niente possa cambiare. Su cosa dobbiamo investire? Mi piacerebbe poterne parlare.
E poi la situazione dell'Afghanistan, dove il caos regna sovrano e la violenza governa , dove oggi viene sancito che l'aiuto umanitario
espropiato alla società civile ,diventa di fatto competenza del potere militare che così, tra portare la democrazia e aiuto umanitario, si è assicurato il pieno controllo e la piena giustificazione di ogni intervento presente e futuro.C'è di che essere preoccupate per il futuro delle nostre ed altrui vite. barberina

14 aprile 2010

Rapporto sulla prostituzione in Palestina

È stato realizzato nel 2008, il primo rapporto sul fenomeno della prostituzione nella società palestinese grazie all’impegno dell’associazione Sawa, che dal 1998 combatte ogni forma di violenza domestica e sessuale sulle donne palestinesi. Ma è stato pubblicato e presentato alla stampa solo nel dicembre del 2009, oltre un anno dopo, grazie anche al sostegno di Unifem, che ha lanciato il documento in occasione della campagna globale contro la violenza sulle donne.
“Uno studio di 26 pagine, una pubblicazione molto sofferta - mi spiega il vicedirettore di Sawa, Jalal Khader - e non solo per il silenzio che avvolge questo tema nella società palestinese ma anche per l’estrema difficoltà nel rintracciare fonti attendibili, documentazione e semplici dati statistici. All’inizio è stato faticoso anche soltanto trovare persone che fossero disposte a farsi intervistare. A metà delle interviste programmate, le nostre ricercatrici sul campo sono state tutte minacciate e hanno subito molte intimidazioni. Avevamo in mente un progetto più ampio ma abbiamo dovuto lasciare il documento cosi come era”.
Un documento che mette in luce un mercato non strutturato né ben organizzato, piuttosto un racket lasciato nelle mani dell’iniziativa privata di abili sfruttatori, alcune volte di maitresse palestinesi, quasi sempre ex prostitute. Il numero delle prostitute è in aumento e interessa sprattutto le aree urbanizzate, con una alta concentrazione di case private soprattutto a Ramallah e Gerusalemme (sia Est, colonie israeliane incluse, che ovest, ma anche nella citta’ vecchia). I ricercatori hanno adottato la metodologia dell’intervista face to face e il gruppo di intervistati ha incluso non soltanto le vittime del racket ma anche tutti gli altri attori coinvolti: tassisti, ufficiali di polizia, proprietari di alberghi, trafficanti. E’ il caso di W., maitresse di 41 anni, a capo di una delle sei più grandi industrie del sesso in Palestina. Originaria di Hebron, vive a Beit Hanina e possiede una carta di identità di Gerusalemme, dove tra Est e Ovest gestisce 4 bordelli. Fornisce escort soprattutto per i clienti di Gerusalemme e Tel Aviv. A Gerusalemme est gestisce un piccolo hotel dove la maggior parte delle prostitute vengono dalla West Bank. Secondo le fonti raccolte da Sawa, grazie alla connivenza con la polizia israeliana e alla facilità di ottenere documenti di identità falsi, W. riesce a trafficare prostitute palestinesi in tutto Israele.
Questo invece il racconto di un tassista di Ramallah: “Diverse volte ho preso su delle giovani studentesse, portandole sempre nello stesso posto. Cosi mi sono incuriosito e ho chiesto al custode del garage e sono venuto a sapere che si tratta di una casa privata gestita da Umm Z. e molte ragazze che ci lavorano sono studentesse. Conosco anche alcune ragazze dei campi profughi di Ramallah che per vivere lavorano nelle hot line telefoniche”.
I fattori principali che spingono le donne a prostituirsi sono soprattutto povertà e disoccupazione, ma in alcuni casi la prostituzione rappresenta anche un modo per sfuggire alla violenza domestica. Secondo le ricerche prima di diventare prostitute “molte donne hanno subito percosse fisiche da parte dei padri, spesso costrette a sposarsi per poi finire in alcuni casi nuovamente vittime dei loro mariti”. Anche quando fuggono, spesso solo adolescenti e cadono nella rete degli sfruttatori, finiscono per essere vittime della violenza dei loro protettori, che le malmenano se rifiutano di andare con i clienti o se tentano di tirarsi fuori dal giro e in qualche caso, come la storia di W. le minacciano di informare la famiglia e far circolare foto imbarazzanti.
S. per esempio viene da Nablus (nord della West Bank), è stata violentata dallo zio; quando è fuggita da casa, è rimasta vittima del traffico della prostituzione tra West Bank e Israele. Le hanno procurato un documento di identità falso che le ha permesso di passare i checkpoint e andare a Tel Aviv. Ha comiciato a drogarsi ed è rimasta incinta. Per sfuggire al suo protettore, lo ha accoltellato ed è finita in carcere (israeliana) dove ha avuto suo figlio. Quando è stata rilasciata, è tornata in West Bank. Anche J, di Anata ha iniziato a prostituirsi per indigenza. Suo marito è in prigione e una donna incontrata al mercato le aveva promesso di aiutarla, in realtà instradandola alla prostituzione. Quando J. è rimasta incita, la maitresse l’ha mandata via.
Il rientro nella comunità o nella propria famiglia è quasi impossibile. Se le donne infatti riescono a sottrarsi al traffico e al mercato che le rende schiave, incontrano ancora maggiori difficoltà: pochi centri di protezione, poche case famiglie, pochi servizi assistenziali per sostenerele in una fase in cui il rischio è la totale esclusione sociale dalle comunità di appartenenza.
In alcuni casi le prostitute vivono in Israele, si tratta per lo più di donne immigate dall’Europa dell’Est (principalmente Russia e Ucraina) destinate al mercato della Cisgiordania, vengono prelevate la sera da Gerusalemme Ovest e portate a Ramallah e ricondotte la mattina seguente a Gerusalemme (un fenomeno noto col nome di “prostituzione mobile”). Secondi le ricerche condotte da Sawa, ci sarebbero inoltre alcune aziende di pulizia in Israele che in realtà agiscono da copertura: il cliente contatta la compagnia per un servizio di pulizia a domicilio e previo accordo, riceve sesso a pagamento, accordandosi però direttamente con il gestore della finta azienda di pulizie.
Le rotte del mercato della prostituzione si snodano tra West Bank e Gerusalemme e da lì in Israele, tra West Bank e Gaza e internamennte alla West Bank. “Traffico della prostituzione significa confine - spiega Jalal Khader - il movimento e le limitazioni imposte dall’occupazione israeliana giocano un ruolo centrale nel racket della prostituzione. Checkpoint, chiusure, by-pass road, la presenza del muro, tutti elementi che frammentano il territorio e costituiscono di fatto dei veri e propri ‘confini’ al di là dei quali è difficile qualsiasi indagine e qualsiasi persecuzione di chi viola le leggi. I checkpoint sono di fatto dei confini, cosi come lo è quello tra la West Bank, Gerusalemme e Gaza. Il regime dell’occupazione favorisce l’illegalità”. Jalal Khader si riferisce anche alla suddivisione della West Bank in aree A, B e C. “Prendiamo in West Bank l’esempio dell’area C, sotto totale controllo delle autorità Israeliane. La giustizia palestinese in questo caso non può intervenire e ovviamente Israele non ha nessun interesse a farlo”.
La mancanza di confini internazionalmente riconosciuti tra Israele e territori Palestinesi occupati cosi come l’assenza di controllo da parte della potenza occupante all’interno dei confini arbitrariemente definiti, sono fattori che favoriscono il traffico della prostituzione forzata. “L’occupazione israeliana nega in alcuni casi alle donne anche solo la possibilità di essere giuridicamente protette e tutelate (vedi il caso dell’area C), dal momento che impone limitazioni al pieno funzionamento del sistema giuridico palestinese” prosegue il vice direttore di Sawa.
Pur non pretendendo di essere esaustiva, questa pubblicazione rappresenta in ogni caso un passo in avanti notevole anche soltanto perchè rompe il muro del silenzio sul tema della prostituzione. Quando chiedo a Jalal Khader che tipo di copertura mediatica c’è stata da parte dei media palestinesi mi spiega che “le due maggiori testate della carta stampata, Al-Quds e Al Ayyam, non hanno dato nessuna copertura mediatica al nostro rapporto né alla tematica, forse per il timore che un argomento cosi delicato e sensibile avrebbe scoraggiato le inserzioni pubblicitarie. Mentre l’agenzia Wafa ci ha dedicato due intere pagine e anche diversi media internazionali, come la CNN”.
Rompere il silenzio significa anche richiedere un intervento esplicito dell’Autorità Palestinese. “Abbiamo mandato delle copie del report a cinque ministeri dell’Autorità Nazionale Palestinese, ovviamente ad alcuni membri del Consiglio Legislativo e ai rappresentanti delle autorità di Polizia. Queste ultime ci hanno risposto con una lettera formale, cercano di minimizzare il fenomeno della prostituzione, dichiarando che si tratta di casi marginali nella società palestinese. Ma per noi il primo passo per la risoluzione si basa proprio sul riconoscimento dell’esistenza del problema. Siamo più fiduciosi invece nel parlamento palestinese, abbiamo inviato una copia a 5 donne che sono nel PLC, anche se al momento tutte le attività legislative sono paralizzate dalla crisi politica interna”. Soprattutto Sawa chiede di approvare in tempi brevi una legge che consideri le prostitute non “criminali” ma vittime, una legge che le tuteli e le protegga.

12 aprile 2010

Firmiamo l'appello di Emergency

IO STO CON EMERGENCY

Sabato 10 aprile militari afgani e della coalizione internazionale hanno attaccato il Centro chirurgico di Emergency a Lashkar-gah e portato via membri dello staff nazionale e internazionale. Tra questi ci sono tre cittadini italiani: Matteo Dell'Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani.

Emergency è indipendente e neutrale. Dal 1999 a oggi EMERGENCY ha curato gratuitamente oltre 2.500.000 cittadini afgani e costruito tre ospedali, un centro di maternità e una rete di 28 posti di primo soccorso.

Firma l'appello: http://www.emergency.it/appello/form.php?ln=It


06 aprile 2010

La guerra non ci da pace




La guerra non ci dà pace

la sicurezza armata non ci rassicura



Viviamo in un mondo e in una società sempre più militarizzati, dove il ricorso all'uso della forza per risolvere conflitti ad ogni livello, per riportare "l'ordine", è ritenuto giusto e normale.


L'ossessione della sicurezza, nazionale e internazionale, ha creato e crea continuamente un nemico da temere: il diverso, lo straniero, chi è "altro da noi".

Si organizzano e finanziano spedizioni militari all'estero: i soldati diventano "costruttori di pace", ma ci viene nascosto il costo crescente in vite umane, devastazione delle coscienze e distruzione di risorse di queste "missioni di pace".

Si costruiscono nuove basi militari (come a Vicenza) distruggendo l'ambiente e mettendo a rischio chi ci vive; si investe nella ricerca per la sperimentazione di nuovi strumenti di morte, nella produzione e nel commercio di ogni tipo di armi.

Si militarizzano le nostre frontiere e le coste: i mari diventano cimiteri di centinaia di vite umane senza nome che fuggono da povertà e guerre di cui spesso siamo responsabili.

Si militarizzano le nostre città e le nostre vite: si installano ovunque telecamere che ci controllano, si ricorre all'esercito per rassicurarci, aumenta l'acquisto di armi per difenderci.

Si militarizzano le nostre menti: si diffonde - attraverso parate militari, interventi dell'esercito nelle scuole, l'uso sempre più diffuso di una retorica e un linguaggio nazionalisti e militaristi - una cultura di guerra che ritiene normale, anzi giusto se non "eroico", il ricorso alla armi.



Pensiamo davvero che essere armati significa esser più sicuri?

Siamo proprio convinti che sia meglio spendere risorse ingenti

per armamenti, esercito, spedizioni militari, sistemi di controllo,

piuttosto che per la salute, l'istruzione,

l'educazione alla convivenza e al rispetto reciproco?



Noi siamo stanche di guerra, di morte, di violenza,

di diritti umani calpestati.


Pensiamo che l'uso della violenza e la cultura delle armi siano le più assurde, le più stupide, le più crudeli attività che l'uomo abbia messo in campo nel corso della storia.

Non vogliamo essere complici del militarismo, ovunque si manifesti e in particolare nel nostro paese.


Per questo usciamo in piazza

in NERO, usando il SILENZIO, in modo NONVIOLENTO,

per manifestare la nostra opposizione alla guerra, ad ogni tipo di violenza,

e per esprimere il nostro sostegno a chi si oppone disertando

(come fanno numerosi soldati israeliani e statunitensi),

a chi lotta contro la militarizzazione del territorio

(come molte/i cittadine/i di Vicenza contro la costruzione di una nuova base militare USA),

a chiunque cerchi alternative nonviolente alla guerra,

alla militarizzazione del territorio e delle nostre vite.



Donne in Nero

Padova, 7 aprile 2010