Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

16 giugno 2011

Le Madri della Val di Susa

Caro Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napoletano e signora Clio,
gentili donne del Parlamento italiano e del Parlamento europeo,
Religiose e Missionarie, donne del Volontariato


Nell’autunno del 2005 al Presidio No Tav di Borgone, in Valle di Susa, nel pieno di una pacifica eppure determinata battaglia di democrazia e di civiltà, nata un decennio prima per impedire lo sperpero delle risorse pubbliche e la distruzione di quelle ambientali, ricevemmo una lettera che così cominciava:
“Noi, madri di Plaza de Majo, vicine e solidali alle madri di Valle di Susa…”
Vorremmo oggi poter riproporre quelle parole alte e forti, fatte di condivisione e piene di coraggio, ma la lettera di quelle Madri è stata bruciata, più di un anno fa in un incendio doloso sul quale ancora oggi attendiamo di conoscere risposte e colpevoli (i mandanti e le ragioni ci sono purtroppo assai ben chiari). Quella lettera è diventata cenere, insieme a moltissime altre preziose testimonianze e a un pezzo fondamentale della nostra storia, ma il suo significato e il suo valore restano per noi immutati, scritti nel cuore e perciò non suscettibili di oltraggi esterni.
E’ per questa ragione che oggi siamo noi, madri di Valle di Susa, a riprendere quelle parole, forti di quel coraggio e rivendicandone la stessa dignità.
Noi, madri di Valle di Susa, che da anni studiamo geologia, indaghiamo i segreti degli appalti, svisceriamo le leggi dell’economia, e approfondiamo temi apparentemente lontani dalla nostra vita, come i flussi di transito, l’inquinamento acustico, la radioattività della pechblenda, che da anni abbiamo imparato a trovare il tempo non solo per i figli, la scuola dei figli, i lavori di casa, quelli fuori casa, ma anche per la presenza nei Comitati e nei Presidi No Tav, che abbiamo marciato con il nostro futuro fra le braccia, in marce interminabili, sotto il sole di giugno e nel gelo di dicembre, che nell’attesa di uno sgombero, abbiamo vegliato attorno ad un fuoco, nelle antiche notti di Venaus e in quelle nuove di Chiomonte, preoccupate non già dei nostri nasi rotti, ma delle manganellate che sarebbero potute cadute sulle teste dei nostri figli, che abbiamo cucinato quintali di pasta e montagne di polenta per sfamare gli affamati di giustizia, e che non abbiamo saputo rifiutare una tazza di caffè bollente a chi, protetto da uno scudo e in assetto antisommossa, ci è sempre sembrato più una vittima inconsapevole, che un nemico da combattere, noi, che chiamiamo Madre la Terra e che ne esigiamo il rispetto dovuto alle madri, che facendo tesoro del passato non vogliamo ripetere gli errori di chi ha pensato di poter impunemente sacrificare la salute in nome del guadagno, l’onestà in nome del profitto, la bellezza in nome del denaro, e che difendendo la nostra Valle da un’opera insostenibile dal punto di vista ambientale, umano, sociale ed economico, stiamo in realtà difendendo l’intera nostra Patria e prop onendo un modello di sviluppo più degno per l’intera comunità umana,noi, Madri di Valle di Susa rigettiamo le accuse che quotidianamente ci vengono mosse: accuse di violenza e di mancanza di rispetto nei confronti dello Stato e delle sue Istituzioni, che –vogliamo ricordarlo- è una Repubblica democratica la cui base è rappresentata dalla quella Costituzione nata dalla Resistenza alla quale le nostre stesse madri presero parte attiva, combattendo la loro guerra fra le mura domestiche, dentro alle fabbriche e sulle montagne, come staffette e come partigiane,
e rivendichiamo il diritto di proseguire in modo pacifico e determinato la nostra lotta, convinte che la nostra tenace perseveranza possa essere un giorno premiata con il riconoscimento delle ragioni di un intero territorio che ha, come unica pretesa, l’ambizione di avere una vita a bassa velocità, ma ad alta qualità.

Barbara Debernardi – barbara.debernardi@istruzione.it
Via Mortera 26 – fraz.Bertassi – 10057 Sant’Ambrogio (To)
Maria Chirio – girich@alice.it
Vicolo Molino 3 – 10053 Bussoleno (To)

Smilitarizzazione e ritiro delle truppe dall'Afghanistan e Libia

Nella dimenticanza pressochè totale e nella messa in sordina degli interventi militari che lo stato italiano porta avanti in Afghanistan e Libia ( nonostante gli "incidenti"con feriti e morti, sofferti da noi e dalla popolazione civile di questi luoghi) vogliamo rilanciare il ns documento, già pubblicato su questo blog, e l'iniziativa che assieme ad altre associazioni del territorio abbiamo indirizzato al comune di padova per sollecitare una discussione pubblica sulla guerra. In questa strada cerchiamo di coinvolgere all'inizio i settori più interessati a questo tema (Delega alla pace e assessorato alla cooperazione)
Di seguito riportiamo la lettera inviata.

A Milvia Boselli, delegata del Sindaco per Pace e Diritti Umani
All’Assessore alla Cooperazione Alessandro Zan
Alla Presidente del Consiglio Comunale Daniela Ruffini


Noi cittadini/e padovani/e che facciamo parte di associazioni pacifiste vogliamo esprimere ai nostri rappresentanti in Consiglio Comunale la nostra forte preoccupazione per il coinvolgimento diretto dell’Italia in operazioni belliche.
Il nostro paese è in guerra: non si combatte sul nostro territorio, ma è in atto il meccanismo della guerra con tutto ciò che questo comporta: aumento delle spese militari e, invece, tagli drastici ai fondi per la cooperazione, militarizzazione del territorio e diffusione di una cultura di guerra.
Il nostro è un paese che – anche se lo nega - fa la guerra in spregio all’articolo 11 della Costituzione: attualmente in Afghanistan e in Libia.
In Afghanistan dopo 10 anni di guerra, dopo la morte di oltre 40.000 civili a causa, principalmente, dei bombardamenti aerei, tutti gli obiettivi inizialmente dichiarati sono falliti (lotta al terrorismo, portare democrazia e sicurezza, liberare le donne afghane).
In Libia i paesi con forti interessi in quest’area non hanno perso tempo in pressioni diplomatiche, passando direttamente all’opzione militare in nome della difesa dei civili, ma in realtà la guerra colpisce chi dichiara di voler proteggere e nessuna soluzione si profila. I profughi dalla Libia partono in condizioni disumane senza ricevere alcuna protezione e, nel caso arrivino, un’accoglienza dignitosa.

Consapevoli che la violenza genera solo violenza, chiediamo un dibattito pubblico del Consiglio Comunale con la cittadinanza sulla guerra.
Fiduciosi/e nella vostra sensibilità per l’argomento, chiediamo la vostra disponibilità a un incontro per verificare insieme la possibilità di arrivare a un dibattito pubblico.

In attesa di una vostra sollecita risposta, porgiamo cordiali saluti.


Donne in Nero, Associazione per la Pace, ACS, MIR, Perilmondo, Agronomi e forestali senza frontiere, Comunità palestinese del Veneto,Beati i costruttori di pace, Arci, Associazione Incontriamoci.

Padova, 14 Giugno 2011

Programma per il xv incontro internazionale di Bogotà

Español

XV Encuentro Internacional de Mujeres de Negro

En África, Asia, América y Oriente Medio aproximadamente hay 28 conflictos
armados y actualmente de este número se encuentran 19 conflictos con más de
veinte años de duración. En Colombia el conflicto armado ya lleva más de 40
años. En el marco de este escenario de guerra, las violencias contra las mujeres
se han exacerbado, puesto que han sido apropiados sus cuerpos, su capacidad
reproductiva y productiva, sus pensamientos y su sexualidad por parte de los
guerreros. No obstante, la violencia generalizada contra las mujeres no sólo se
presenta en tiempos de guerra y/o conflictos armados, sino se han expresado en
contextos de aparente paz, como lo demuestra Salvador, Guatemala o Serbia.
Hoy día las mujeres y las organizaciones de mujeres siguen siendo perseguidas,
amenazadas y viven un sinnúmero de violencias. Todo lo anterior, ha hecho que
organizaciones de mujeres de diferentes países expresen su no rotundo contra
las guerras, los militarismos y las violencias.
Este año, en Colombia y por primera vez en un país latinoamericano, cerca 80
MdN Internacionales provenientes de Israel, Palestina, Italia, España, Serbia,
India, Bélgica, Túnez, Nepal, Estados Unidos, Uruguay, entre otras, y 150 mujeres
representantes de la Ruta Pacífica y de otras organizaciones, nos daremos
cita para analizar los efectos de la guerra, los militarismos y el armamentismo
en las mujeres y en la población civil y visibilizar y concretar acciones de resistencia
de las mujeres contra la guerra.

Español

Objetivo

Visibilizar y denunciar ante la opinión pública nacional e internacional las diferentes
formas de violencias que contra las mujeres ha generado la guerra y la
militarización de la sociedad y formular agendas de trabajo, desde el movimiento
internacional de mujeres, para el logro de la paz y el respeto a los derechos de
las mujeres, a nivel mundial.
Metodología
Conferencias centrales - Talleres de discución - Plenarias - Lo anterior será
preparado y presentado por MdN.
Temas de discusión
i. La oposición a la militarización de la seguridad nacional e internacional
Análisis feminista del actual sistema de la política de seguridad militarizada;
cómo los conflictos armados en el Sur son impulsados por las industrias de
las armas y los intereses económicos del Norte.
ii. Perspectivas feministas de los conflictos y guerras actuales
Mirar los conflictos de hoy en día a través de una perspectiva feminista:
el nacionalismo, la intolerancia religiosa, la xenofobia, el terrorismo y las
milicias armadas, el sexismo, el tráfico transnacional de armas, drogas,
mujeres y gentes vulnerables.
Español
iii. Praxis transformativa de la mujer ante las dificultades
Alternativas feministas en el análisis de la seguridad humana y acción
práctica para posicionar y comprometer a las mujeres en desarrollar
nuestros mismos recursos y prácticas para la seguridad colectiva y
compartida
iv. La violencia y la opresión sexual
Las experiencias y la resistencia a la la violencia y la opresión contra
la mujer: la violación como un crimen de guerra y del área doméstica;
la esclavitud sexual y el tráfico de la mujer; la prostitución; el odio y la
violencia contra las lesbianas.
v. Llevar a los responsables de crímenes de guerra y de crímenes contra
la mujer ante la justicia
Discusión sobre los tribunales ad hoc, con especial atención de los casos
ante la Corte Penal Internacional .
vi. Los desafíos para las Mujeres de Negro: Cómo nos vemos y cómo
respondemos
Nuestro pasado, presente y futuro.
- Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War - Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War - Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War -
- Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War - Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War - Mujeres de Negro contra la Guerra - Women In Black against War -

English

XV Encounter of Women in Black against War

In Africa, Asia, America and the Middle East there are approximately 28 armed
conflicts; of these, about 19 have lasted for over 20 years. In Colombia the armed
conflict is more than 40 years old. Within this contextual framework of war,
violence against women has been exacerbated since their bodies, reproductive
and productive capacity, thoughts and sexuality have been appropriated by soldiers.
Nevertheless, such generalized violence against women is not only present
in times of war and/or armed conflict, but is also expressed in situations of
apparent peace, as the countries of El Salvador, Guatemala and Serbia demonstrate.
Today, women and organizations of women continue to be threatened and
persecuted, and they experience infinite forms of violence. All of this has made
women’s organizations from various countries express an emphatic no to war,
militarism and violence.
This year, in Colombia and for the first time in a Latin American country, around
80 international women from WiB, coming from Israel, Palestine, Italy, Spain,
Serbia, India, Belgium, Tunisia, Nepal, the United States, and Uruguay, among
others, and 150 Colombian women from Ruta Pacífica and other organizations
will gather together to analyze the effects of war, militarism and armament on
women and civil populations, and to make visible and define actions of resistance
by women against war.

English

Objective:

To make visible and condemn before national and international public opinion
the different forms of violence against women that war and the militarization
of society have created, and to formulate concrete plans from the international
movement of women, for the achievement of peace and of respect for the rights
of women worldwide.
Methodology
Main Conferences - Discution Workshops - Plenaries - All of these will be prepared
and presented by WiB.
Topic for discussion
i. Opposing the militarization of national and international security
Feminist analysis of current militarized security policies, including how
armed conflicts in the South are fuelled by arms industries and economic
interests of the North; learning from practical feminist actions to empower
and protect women.
ii. Feminist perspectives on current conflicts and wars
Looking at today’s conflicts through a feminist lens: nationalism, religious
intolerance, xenophobia, terrorism and armed militias, sexism, trans-border
trafficking in arms, drugs, women and vulnerable peoples.
English
iii. Transformative praxis of Women in Response to the Challenges
Feminist alternatives in human security analysis and practical action to
empower and engage women in building our own resources and practices
for shared, collective security.
iv. Violence and Sexual Oppression
Experience and resistance to violence and oppression against women,
including: rape as a war crime and in the domestic arena; sexual slavery
and trafficking in women; prostitution; hatred and violence against
lesbians.
v. Bringing the perpetrators of war crimes and crimes against women to
justice
Discussion of ad hoc tribunals and bringing cases to the International
Criminal Court.
vi. Challenges for Women in Black: How do we see ourselves and how do
we respond
Our past, our present and our future

Dalla Colombia : minacce e uccisione

COMUNICATO STAMPA

Respingiamo le minacce del gruppo paramilitare “Los rastrojos”
contro organizzazioni femministe, di donne, miste, difensori dei diritti umani



Bogotá, 8 giugno 2011
Lo scorso 4 giugno abbiamo ricevuto per posta un volantino firmato da “Los Ratrojos–Comandos urbanos”, con il quale minacciano 12 donne, 4 uomini e 22 organizzazioni; tutti difensori dei diritti umani, incluso il movimento pacifista, femminista e antimilitarista Ruta Pacífica de las Mujeres e l'organizzazione femminista Casa de la Mujer[1]. Il volantino informa che “non si assumono la responsabilità di quel che può accadere ai leader di queste organizzazioni, ai loro direttivi e ai loro collaboratori” e in particolare che “non permetteranno che rechino danno alla politica del nostro presidente, la legge delle vittime sarà il nostro asse centrale di difesa e tutto quello che la ostacolerà sarà dichiarato obiettivo militare...”, evidenziando come questi gruppi armati siano attivi in tutto il paese.

E' da notare come operi in modo contraddittorio questo gruppo criminale e come nel contenuto della minaccia il volantino ribadisca la sua difesa della legge delle vittime mentre attacca noi che stiamo lavorando per inserire una normativa garantista dei diritti nella stessa legge.


La Ruta Pacífica de las Mujeres e la Casa de la Mujer respingono queste minacce ed esigono indagini e sanzioni per i loro autori. Rivendichiamo la vita, la dignità e la partecipazione sociale e politica delle donne come diritti fondamentali che devono essere protetti e garantiti dallo Stato colombiano, e l'attuazione dei diritti alla Verità, alla Giustizia e al Risarcimento di fronte alle violenze storiche di cui sono state vittime le donne in Colombia.


Rivolgiamo un appello alle organizzazioni che difendono i diritti umani, ai partiti politici, alla comunità internazionale e ai media regionali, nazionali e internazionali affinché la pressione sociale e politica contribuisca a evidenziare, ripudiare e sanzionare questi fatti.


[1] Organizzazioni sociali minacciate: CREAR, ARCO IRIS, COMITÉ DEPARTAMENTAL DE DERECHOS HUMANOS, FUNDACION SOCIAL, SISMA MUJER, RED DE EMPODERAMIENTO, COLECTIVO DE ABOGADOS JOSE ALVEAR RESTREPO, FUNDEPAZ, CASA DE LA MUJER, RUTA PACIFICA, FUNDHEFEM, CODHES, FUNDEMUD, MOVICE, PNUD, ACNUR, ESCUELA DE LOS PASTOS, UNIPA, FUNDACION NUEVO AMANECER.
> Difensori dei diritti umani minacciati: JESUS MARIO CORRALES, FERNANDO MONTOYA, KUIS FERNANDO GIL GARCIA, VIVIANA ORTIZ, ANGELICA BELLO, IRMA TULIA, OLGA CASTILLO, RUBY CASTAÑO, MARIA EUGENIA CRUZ, PIEDAD CORDOBA, PILAR RUEDA, LORENA GUERRA, NINI JOHANA GONZALES, LUISA FERNANDA BELLO, IVAN CEPEDA, ANA JIMENA BAUTISTA



Video Ana Fabricia...días antes de su asesinato
Fri, 10 Jun 2011 10:23:40 -050: Comunicaciones Ruta Pacífica comunicaciones@rutapacifica.org.co>


Chi era Ana Fabricia?
Anche se tra lacrime e dolore, vogliamo condividere con voi un video che vi permetterà di conoscere il talento della nostra sorella, compagnra, amica.
Non sappiamo chi ha fatto questo video, ma lo ringraziamo.

Ana Fabricia_1.mov


http://www.youtube.com/watch?v=aNQ16rpOhAk

Intervento di Ana Fabricia Córdoba Cabrera, prima di essere assassinata a Medellín... tutta una vita di lotta per la Verità, la Giustizia e il Risarcimento integrale affinché NON si ripeta...

Notizie dalla Colombia

COMUNICATO STAMPA
 N. 1 - 2011

Strategie di guerra si accentuano in questo periodo preelettorale
Gravi violazioni ai Diritti Umani si stanno registrando in Chocó e Cauca

Noi Donne continuiamo ad essere le più colpite dalle azioni degli attori armati.
Ratifichiamo la necessità di Accordi Umanitari nelle regioni

Bogotá, 25 maggio 2011.  La Ruta Pacífica de las Mujeres lancia un appello urgente alle istituzioni dello Stato, alle organizzazioni dei Diritti Umani e alla comunità internazionale di fronte alle gravi violazioni al Diritto Internazionale Umanitario che si stanno verificando nei dipartimenti di Chocó e Cauca, dove la popolazione civile è stata presa in ostaggio e gli scontri tra attori armati eludono la responsabilità di distinguere tra civili e combattenti.
Per questo movimento di donne è urgente proteggere la popolazione che vive in questi dipartimenti, specialmente le donne e le bambine, poiché l’aumento della presenza e di azioni degli attori armati le espone ad alti rischi. Questa circostanza favorisce un clima di pericolo in periodo preelettorale, generando ancor più timore per l’attività pubblica delle donne e rafforza la loro esclusione storica dagli scenari politici e sociali.
In Chocó negli ultimi 15 giorni sono state sequestrate e successivamente liberate 220 persone; costante è la preoccupazione per la possibilità che continuino queste strategie di guerra che mettono a rischio le popolazioni afro e indigena che vivono in questa zona del paese.
Nel dipartimento del Cauca, l’attività degli attori armati si è accentuata in tre direzioni: la prima nel porre la popolazione civile in mezzo al fuoco incrociato, come si sta evidenziando negli scontri tra l’Esercito e le Farc, questo nel nord del dipartimento; la seconda nelle minacce di cui sono state oggetto 13 donne leader della regione attraverso volantini firmati dai gruppi emergenti dell’autodefensa [paramilitari] che operano nella regione, e infine è evidente il degrado delle pratiche di guerra e d’imposizione del terrore, esercitate dai gruppi paramilitari nel paese, e in particolare rispetto alle donne e al controllo sui loro corpi; di conseguenza l’aumento della presenza e delle azioni di questi gruppi nella regione pone in grave situazione di rischio eccezionale le donne e le bambine, che sono state vittime sistematiche della violenza sessuale esercitata da questi attori.
Le donne del Cauca e del Chocó ribadiscono che continuano ad essere coinvolte forzatamente nelle diverse manifestazioni del conflitto armato, senza che ci sia un’adeguata risposta statale - che non sia militarizzata - che permetta di proteggere i loro diritti.
E’ importante segnalare che la dinamica del conflitto armato in Colombia e il modo in cui si acuisce con particolare forza in alcune regioni, favorisce la continua escalation delle molteplici violenze contro le donne, in molti casi non denunciate per le carenze della struttura giudiziaria e delle garanzie di protezione per le loro vite.
Tutto ciò rafforza ulteriormente la posizione della Ruta Pacífica de las Mujeres sulla imperiosa necessità di un’uscita negoziata dal conflitto armato che permetta di gettare le basi per una pace duratura in Colombia.
     
Noi donne non generiamo figli e figlie per la guerra


Comunicazioni Ruta Pacífica de las Mujeres Tel: 2 229145 /46 Cel: 313 3337959 - 3005553307
Shima Pardo Comunicazioni Ruta Pacífica de las Mujeres Tel: 2 229145 /46 Cel: 313 3337959 - 3005553307
Página Web: www.rutapacifica.org.co – Email: rutapacifica@rutapacifica.org.co

Sull'arresto di Mladic

Mladic alL’aja
Jasmina Tesanovic - 2 giugno 2011
http://jasminatesanovic.wordpress.com/ - http://twitter.com/jasminatwitter

Ora che il generale serbobosniaco Ratko Mladic è ben custoditoo nel carcere del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, alcuni interrogativi si pongono con ancor maggior urgenza. Dov’è stato nascosto Mladic tutti questi anni? Chi l’ha aiutato a sfuggire la giustizia? Perché i suoi protettori restano nel silenzio e impuniti? Ci sará un’indagine e una punizione anche per loro? In Serbia, all’Aja, all’inferno?
Nel 2008 Radovan Karadzic, l’alleato più noto di Mladic e anch’egli criminale di guerra molto ricercato, fu arrestato a Belgrado dove si faceva passare per un medico guru New Age. Karadzic aveva vissuto nascosto per anni, come un personaggio semi-pubblico, un medico ciarlatano. Spesso compariva in conferenze e scriveva artícoli di medicina alternativa.
Ho intervistato alcune persone che hanno lavorato o trascorso del tempo con Karadzic. Non ho mai creduto a quei devoti che accendono candele per curare il cancro. Certo, questa gente credulona non poteva immaginare che Dragan 'David' Dabic, quest’impostore dalla voce rauca, con i guanti, barba e lunghi capelli bianchi, fosse in realtà Karadzic, che, dopo tutto, era un politico arrogante sempre ben rasato e vestito con un completo scuro. Però ad un dato momento, uno dei miei informatori della clinica prese il suo cellulare e mi mostrò la foto di un anziano dal volto invecchiato e consumato. Lo riconosce? mi chiese. In quel momento non capii, però una settimana fa, quando Mladic fu arrestato con il suo nuovo look da campagnolo emaciato e solitario, ho creduto di riconoscere quel volto. Ho anche avuto una notizia sorprendente: Mladic stava cercando una cura per il cancro linfatico. E’ una strana aggiunta alla leggenda Mladic, dato che, per anni, la maggioranza della gente in Serbia ha intravisto Mladic in un luogo o in un altro: Mladic era un guerriero dei monti che si nascondeva ben armato nelle grotte; Mladic se ne andava cammuffato da contadina vendendo uova al mercato in centro a Belgrado; stava lavorando per una miseria come operaio edile; era nascosto in un convento ortodosso reduce da un’emorragia cerebrale; era morto e sepolto in varie tombe.
Continua anche ad essere un mistero tragico la morte di due giovani soldati serbi: probabilmente avevano visto Mladic e dovettero essere eliminati. Davvero questa storia ha molti lati sospetti, e i genitori dei due morti aspettano ancora una spiegazione plausibile e onesta.
Nei giorni tra il 26 maggio, quando Mladic fu arrestato, e l’1 giugno quando fu estradato all’Aja, il ritmo di queste storie si è accelerato. La posizione ufficiale è che Mladic stava semplicemente fuggendo, cambiando continuamente luogo e incontrando nuovi gruppi di compagni che lo avrebbero aiutato con denaro e rifugi. Insomma, era semplicemente più pronto delle autorità, e questo chiaramente non è colpa di nessuno!
La stampa serba dominante si è distinta per il suo interesse patologico per il cuore spezzato e l’anima di Mladic, che è certamente una delle persone più crudeli nella storia contemporanea. Non solo liquidò metodicamente 8000 uomini e bambini musulmani in 3 giorni, ma inoltre si mostrò particolarmente disumano in questo crimine. Tormentò i prigionieri indifesi, ingannò le loro famiglie affinché collaborassero nel programma della loro morte e mentì metodicamente ai funzionari dell’ONU che erano lì per proteggere l’enclave musulmana. La famosa fotografia di Mladic che offre ai bambini cioccolatini prima di ammazzare i loro padri è diventata la sua icona durevole.
C’è anche il fatto ripugnante che Mladic è stato un guerriero aureolato di santità. Foto del generale e dei suoi soldati benedetti dai sacerdoti della Chiesa Ortodossa Serba furono diffuse ampiamente dalla televisione nazionale serba negli anni ‘90.
Nel mio libro, Processo agli Scorpioni, racconto il processo ad un gruppo paramilitare di Serbia, che partecipò al massacro di Srebrenica. I 6 infami banditi paramilitari furono arrestati a causa di un video fatto da loro stessi sull’esecuzione di civili catturati. Questo video clandestino circolava come incentivo per gli assassini e la loro ideologia durante la guerra. Scoperto nel 2005 servì come prova per condannare gli Scorpioni.
Ora che Mladic è vecchio, malato e in carcere, le campane della misericordia e della tolleranza suonano come se Srebrenica non fosse mai accaduta. L’eroe popolare, semidio militante è ri-etichettato come martire e oggetto di compassione.
Mladic ha espresso un rincrescimento prima di andare all’Aja: non sarebbe tornato più vivo in Serbia per visitare la tomba di sua figlia. Questa figlia si suicidò nel 1994 con l’arma preferita di suo padre. In quel momento, Mladic e i suoi accusarono la stampa di opposizione della disperazione di sua figlia. Ricordo giornalisti minacciati a causa dei loro testi dove descrivevano la crudeltà del generale Mladic. Non pensò mai, né allora né ora, che una moltitudine di gente innocente, inclusa sua figlia, era morta a causa delle sue attività diaboliche.
L’avvocato di Mladic ha già annunciato che egli non si dichiarerá colpevole. Suo figlio, che l’ha visitato nel cercere di Belgrado con sua moglie, ha annunciato che suo padre è un patriota che ha compiuto diligentemente il suo dovere.
Mladic, in carcere, ha chiesto fragole e un medico. Non un medico qualsiasi, ma la presidenta del Parlamento serbo, che è membro del partito di Milosevic e presiede il Parlamento grazie alla strana diplomazia di potere del governo pro-europeo di Tadic. Essa ha visitato accuratamente il prigionero. Mladic è stato trattato con la massima compassione e umanità, e questo, ovviamente, ha fatto infuriare i familiari delle vittime che non hanno nessuna fiducia. Ha anche chiesto di visitare la tomba di sua figlia - o, se non fosse possibile, che si esumasse il feretro e si portasse il cadavere nella sua cella in carcere. Questa strana richiesta è una dichiarazione sangue e suolo, tipica di Karadzic e Mladic - ma perché non portare a Mladic tutti i feretri che ha inchiodato con le sue armi?
Fuori del carcere e nella piazza principale di Belgrado, migliaia di ssostenitori di Mladic hanno manifestato violentamente, facendo affari vendendo suoi libri commemorativi e magliette. Più di un centinaio di agitatori sono stati arrestati, malgrado l’umile richiesta del prigioniero di tranquillità e non creare problemi. La polizia serba pare decisa a pulire le vie e il cammino verso l’Europa Unita.
Gli sforzi per prendere e punire i criminali di guerra serbi hanno sempre un alto costo proprio per la Serbia. Nel 2003 Zoran Djindjic consegnò Milosevic al tribunale dell’Aja: un atto audace che significava la fine del dominio criminale in Serbia, ma costò anche la vita a Djindjic, che fu assassinato da un gruppo di nazionalisti radicali che si dichiararono patrioti per aver ucciso un traditore. Quanto sono cambiate le cose da allora in Serbia? Sono cambiate molto, e mai come ultimamente, però ogni fragola ha avuto un alto prezzo.

02 giugno 2011

Per una conoscenza della realtà delle donne colombiane ( dalla rivista DEP)

© DEP ISSN 1824 - 4483
Ruta Pacifica: le donne colombiane
contro la violenza.
Intervista a Alejandra Miller Restepo*
a cura di
Andrew Garcés Willis
In Colombia da oltre quarant’anni anni è in atto un conflitto armato di cui quasi
nessuno parla, un conflitto che vede, da una parte, l’esercito governativo e i gruppi
paramilitari, dall’altra, le formazioni guerrigliere, FARC e ELN. Di questa
situazione di violenza diffusa che pare essere l’unico modo per affrontare qualsiasi
problema, economico, territoriale, politico, sociale è sempre più vittima la
popolazione civile e in particolare quella femminile a tal punto, afferma Natalia
Suarez1, che la persecuzione delle donne risulta costitutiva del conflitto e
contribuisce a definirne il carattere2.
Oltre ad aver prodotto circa 4 milioni di profughi interni, di cui il 70% è
costituito da donne, bambini, anziani, costretti a spostarsi dalle zone devastate dalle
fumigaciones, ossia dalle irrorazioni effettuate con gli aerei di sostanze tossiche che
dovrebbero distruggere i campi di coca, ma in realtà rendono incoltivabile l’intero
territorio, il conflitto ha messo in atto una repressione cruenta delle organizzazioni
civili, ma anche dei singoli accusati di spalleggiare questa o quell’altra parte, e ha
creato un livello di indigenza assoluta della stragrande maggioranza della
popolazione che è priva di servizi pubblici per la salute, l’istruzione, ecc. I diritti
umani sono sistematicamente violati e la violenza sessuale contro le donne, il cui
corpo è considerato come “obiettivo militare” e “bottino di guerra”, è pratica
generalizzata3. Nell’ultimo anno gli stupri – secondo un comunicato ufficiale del
* Si ringrazia Andrew Willis Garcés e Cyril Mychalejko per averci autorizzato
alla traduzione e alla pubblicazione.
1 N. Suarez, Le travail de résistance des femmes persécutées dans la situations de guerre: le cas de la
Colombie, in Persécutions des femmes. Savoirs, mobilitations et protections, Éditions du Croquant,
Broissieux 2007, p. 273.
2 Su questo si veda anche A. Callamard, Enquêter sur les violations des droits des femmes dans les
conflits armés, Amnesty International/Association Droits e démocratie, Montréal 2001.
3 Si veda a questo proposito l’ultimo documento di Oxfam International (una confederazione di 13
organizzazioni non governative che lavorano con 3.000 partners in più di 100 paesi con le comunità
locali per uno sviluppo sostenibile, anche in condizioni di emergenza, e per promuovere campagne di
sensibilizzazione in tutto il mondo), La violencia sexual en Colombia. Un arma de guerra, in
http://www.oxfam.org/es/policy/violencia-sexual-colombia.
Andrew Garcés Willis DEP n.12 / 2010
270
26 novembre 2009 della senatrice Gloria Inés Ramirez Rios – sono stati 13.910,
mentre il numero delle donne che hanno subito maltrattamenti da parte dei
famigliari ammonta a 48.707. Le morti negli ultimi cinque anni sono state 70.000,
di cui 28.000 tra desaparecidos e persone uccise dalla polizia di stato o dalle bande
paramilitari. Si tenga presente inoltre che esiste un traffico di esseri umani che
coinvolge per l’80% bambini e adolescenti.
Proprio perché il conflitto interno alla Colombia coinvolge più attori e la posta
in gioco è il monopolio del potere e il controllo delle risorse economiche, il nemico
può essere chiunque e ovunque4, gli esecutori della violenza sono pertanto diversi,
ma anche le forme di resistenza sviluppate dalle donne sono diverse. Accusate non
di atti di violenza, ma di causare con i loro comportamenti l’arresto, la detenzione,
la morte o il discredito (ad esempio dello Stato denunciando la sparizioni dei loro
figli) di membri dell’una o dell’altra parte in guerra, dando così sostegno a una
forza piuttosto che all’altra, le donne sono diventate via via oggetto di persecuzione
in tutti i luoghi in cui operano, da quello di lavoro alla casa. Le forme di
persecuzione tese – scrive Suarez – a punire, a impedire le denunce, a dissuadere
da qualsiasi rapporto con le forze nemiche, a tracciare una precisa linea di
demarcazione tra di esse, a ribadire che per le loro azioni le donne non possono
contare sull’impunità, vanno dalla minaccia di morte, alla molestia sessuale, alla
violenza fisica, all’obbligo ad abbandonare la loro terra; sono annunciate, così da
terrorizzare la vittima, attraverso lettere anonime, pitture di morte sui muri della
sua casa (a volte è l’intera comunità radunata nella piazza che viene minacciata di
dover abbandonare le proprie abitazioni o di morte se non obbedisce alle leggi
imposte dalla forza che occupa quella zona, a volte sono le associazioni delle
donne che lottano per ritrovare i loro figli scomparsi) e sono messe in atto da
anonimi o conosciuti rappresentanti delle forze in conflitto, con le quali le donne
possono essere in una qualche relazione, militante, professionale o amicale,
singolarmente o in gruppo, su iniziativa propria o per conto dell’organizzazione cui
appartengono. Questo significa che la violenza sulle donne diventa una prova di
forza tra le parti in lotta, così che esse diventano il bersaglio delle violenze
destinate al nemico.
In questo contesto opporre resistenza risulta difficile, eppure ci sono casi di
opposizione individuale, in cui spesso è a rischio la propria vita, e di opposizione
sostenuta da membri della collettività di appartenenza che hanno così imparato ad
associarsi e a mobilitarsi per una causa comune non solo per la difesa della singola
persona. In questo modo sono nate diverse realtà che praticano forme di resistenza
nonviolenta, rifiutando di allinearsi con qualsiasi “actor armado”, denunciando
ogni violazione dei diritti umani e pagando per questo un prezzo elevato in termini
di repressione. Sono decine di comunità di contadini che stanno costruendo
un’alternativa pacifista alla guerra e un’economia solidale alternativa alla ricerca
individuale del profitto; sono associazioni indigene che riescono a riscattare le terre
dei loro avi; sono reti di giovani che cercano di offrire ai loro coetanei
un’alternativa alla scelta di unirsi a organizzazioni criminali o ai gruppi armati;
sono associazioni di attivisti pacifisti.
4 Si veda D. Pécaut, Guerra contra la sociedad, Espasa Hoy, Bogota 2001.
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In altri casi, quando ad essere prese di mira sono le associazioni delle donne –
come l’ASFADE perseguitata dallo Stato con messaggi di morte, tramite
sorveglianza dei posti di lavoro e delle abitazioni delle aderenti, con minacce
anonime oltre alle violenze fisiche – le donne sono riuscite a sviluppare una
resistenza aperta ricorrendo alla polizia, alle organizzazioni per la difesa dei diritti
umani, ai tribunali locali e internazionali. Le marce per le vie principali della
capitale, i sit-in nei luoghi uffici pubblici, gli stands delle associazioni in occasione
della giornata della pace, la partecipazione a conferenze internazionali sui diritti
umani hanno inoltre lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e
internazionale e di far sì che i singoli casi siano presi in considerazione, ad esempio
dalle autorità ecclesiastiche o denunciati dai giornali e dai partiti politici
diventando così una questione generale di violazione dei diritti umani.
Il 25 novembre scorso, in occasione della giornata internazionale contro la
violenza alle donne, più di 80.000 donne hanno sfilato per le vie delle città
indossando camicette bianche o nere e chiedendo che si apra nel paese un processo
di pace.
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Ruta Pacifica de las Mujeres è una delle organizzazioni di resistenza più
strutturate e attive. Le associazioni di donne che essa riunisce danno sostegno e
voce alle compagne che subiscono violenze e soprusi, rivendicando verità e
giustizia, chiedendo che la società e la giustizia non accettino la violenza come
pratica normale, inevitabile, ma cessi finalmente l’impunità, nella convinzione che
non c’è futuro possibile, non ci sarà pace senza memoria dei crimini commessi.
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Andrew Garcés Willis5 in questa intervista con la coordinatrice regionale di
Ruta Pacifica ci offre un quadro delle attività, degli obiettivi e delle pratiche di
questa organizzazione, dei risultati ottenuti in anni di impegno e delle mete per cui
continua a lottare. L’intervista è comparsa in lingua inglese sul sito
http://upsidedownworld.org (Covering activism and politics in Latin America).
La traduzione italiana è di Marianita De Ambrogio, Donna in nero di Padova. Per
una trattazione specifica del tema della violenza alle donne in Colombia, si veda il
saggio di Stefania Gallini in questo stesso numero della rivista, sezione ricerche.
Alejandra Miller Restrepo, Cauca, coordinatrice regionale della Ruta Pacifica
de las Mujeres, parla di questo movimento di donne colombiane contro la violenza
che esiste da 13 anni. Il gruppo è conosciuto per le sue azioni dirette rivoluzionarie
che uniscono donne contadine, nere, indigene e donne delle città in mobilitazioni di
massa o rutas che si svolgono spesso in località controllate da gruppi armati che
prendono le donne come loro bersaglio.
Ho parlato con Miller Restrepo a dicembre del 2008, un mese dopo la
mobilitazione più recente, nel momento in cui lo scandalo colombiano delle “false
azioni positive” dell’esercito, che uccide civili e vuol far credere che si tratta di
guerriglieri, continua a tenere banco sulla stampa assieme ad una speculazione
molto diffusa su futuri cambiamenti favoriti dalla nuova amministrazione Obama. I
suoi commenti su come la Ruta abbia aperto uno spazio per le donne nella società
colombiana hanno accresciuto la mia preoccupazione: troppi militanti negli USA e
in Colombia sottovalutano quel che sanno intuitivamente sullo spazio di
cambiamento che viene dal basso, a partire dal lavoro sostenuto da movimenti
come la Ruta che possono profittare di momenti come questo per spingere il
governo verso sinistra, solo costruendo per anni l’organizzazione dalla base.
La Ruta ha proseguito questo lavoro sostenuto con manifestazioni nazionali l’1
febbraio 2009 in città di tutto il paese, per sostenere la presenza di donne militanti
in Colombiani per la pace che negoziano la liberazione degli ostaggi detenuti dalla
FARC e reclamano una fine negoziata del conflitto armato, a cui il governo si
oppone, rifiutando anche di riconoscere l’esistenza di gruppi armati legittimati.
Quando e come è stata coinvolta nella Ruta?
Ho sentito parlare della “Ruta” quando sono arrivata a Popayan per andare
all’Università di Cauca nel 1999, e da quel momento mi sono impegnata. Dal 2002
sono coordinatrice regionale.
Come descriverebbe la Ruta?
Siamo un movimento di donne contro la guerra, fondato nel 1996. Siamo
femministe, pacifiste ed antimilitariste. Abbiamo due obiettivi fondamentali: 1.
Rendere visibili gli effetti della guerra sul corpo delle donne. Sul nostro corpo
perché i corpi delle donne sono luoghi di conflitto nella guerra, e da sempre è un
5 Andrew Garcés Willis risiede a Washington DC; attualmente è impegnato in attività di
accompagnamento dei movimenti dei diritti umani in Colombia; tiene il blog:
http://todossomosgeckos.wordpress.com/
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tipo di violenza grave. E noi dobbiamo denunciare la violenza della guerra. 2.
Insistere su una soluzione negoziata della guerra. La militarizzazione dei territori
crea più guerra e più sofferenza, l’unico modo di porre fine a tutto ciò è la
negoziazione politica.
Come è stato formato il gruppo e come è strutturato a livello nazionale?
Siamo presenti in 9 regioni come movimento nazionale, Putumayo, Cauca,
Valle del Cauca, Chocó, Risaralda, Antioquia, Bolívar, Bogotá, Santander. Oggi ci
sono 350 organizzazioni di base, come organizzazioni di quartiere, gruppi che si
occupano di lavoro produttivo per le donne, tutte aderenti alla nostra piattaforma.
La Ruta è stata fondata nel 1996. Nel corso di un incontro nazionale di
organizzazioni di donne, sono venuti dei religiosi e ci hanno parlato della
condizione femminile in Mutatá, dove erano arrivati i paramilitari e avevano
occupato la città e violentato il 90% delle donne e delle ragazze. Avevano messo in
atto il reclutamento forzato e ridotto le donne a serve, essenzialmente schiave
sessuali. Quando le attiviste presenti lo seppero, decisero una mobilitazione
nazionale – un viaggio, una ruta – in quel luogo per dire a quegli uomini di
rispettare i corpi delle donne e far sapere alle donne che non erano sole. Molte
organizzazioni nazionali sottoscrissero la proposta. Più di 2.000 donne vi si
recarono. Scegliemmo il 25 novembre come Giornata internazionale contro la
violenza sulle donne per quell’occasione e per tutte le successive
mobilitazioni/rutas. Diciamo a tutti gli attori armati – paramilitari, esercito,
guerriglia – di rispettare i diritti delle donne. Abbiamo organizzato due rutas in
Barrancabermerja in collaborazione con la Organización Feminina Popular (OFP),
più mobilitazioni in Choco, Putumayo, Nariño, Cauca e Bogotà. L’anno scorso, ad
esempio, siamo andate a Nariño alla frontiera con l’Ecuador per esprimere
solidarietà alle donne lì rifugiate. Le Rutas sono fondamentali per il nostro lavoro.
Nel 2002, ad esempio, 2.000 donne hanno viaggiato nel paese, da Puerto Asis a
Putumayo, mentre era completamente militarizzato dai paramilitari e dall’esercito.
Abbiamo attraversato montagne, un terreno inospitale. Ciò ha avuto un impatto
simbolico molto importante: i paramilitari avevano proibito ogni movimento dopo
le 18. Noi abbiamo detto: “Ebbene dovrete sparare su 100 bus o fermarci tutte”,
abbiamo continuato a passare per dichiarare apertamente che le donne sanno
vivere. Ruta e OFP fanno parte della rete internazionale delle Donne in nero. Il
nero significa che siamo in lutto a causa della guerra.
Avete inviato delegazioni negli USA. Siete in contatto con qualche gruppo femminista?
Sì, abbiamo incontrato CODEPINK.
L’educazione politica è chiaramente una parte importante del vostro lavoro – noi ci incontriamo
qui nella vostra sede, i muri sono coperti di disegni e di manifesti creati da partecipanti ai laboratori.
Può descrivere il lavoro educativo e anche gli altri programmi?
Sì, noi organizziamo dei seminari di educazione politica. Proprio ora abbiamo
una scuola di educazione politica sui femminismi, il pacifismo, la soluzione dei
conflitti. Attualmente 40 donne frequentano la scuola qui a Cauca, si incontrano
ogni 15 giorni per 3 o 4 mesi. Anche l’intervento politico e i patrocini sono una
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parte importante del nostro lavoro. Voglio dire, cioè, che interveniamo nei processi
politici locali/regionali, interloquendo con autorità governative, per trattare su
quanto preoccupa le donne nel conflitto armato. Facciamo anche ricerca e
pubblichiamo report. La violenza sessuale è un tema importante per noi, di cui
praticamente nessuno parla. Non ci accontentiamo semplicemente di raccogliere
denunce, facciamo ricerche, produciamo rapporti e altri documenti sulla realtà della
violenza sessuale a partire da racconti e statistiche. Per esempio, abbiamo
pubblicato un libro sull’effetto negativo delle fumigazioni aeree sulle donne a
Putumayo – sulla loro pelle, sulla salute dei loro figli. Le nostre inchieste si
focalizzano anche sull’uso delle donne e del loro corpo come strategia di guerra da
parte degli attori armati: servono innanzitutto a provare che siamo interlocutrici
valide perché siamo rigorose nella nostra documentazione. Mostrano anche che il
corpo delle donne è un territorio conteso nel conflitto.
La Ruta è una coalizione di organizzazioni, molte delle quali sono formate da uomini e donne.
Può descrivere il ruolo degli uomini in relazione con la Ruta, nella coalizione e nei movimenti dei
diritti umani, in generale?
È dura con gli uomini perché essi pensano che la violenza sia un tema e non un
problema in sé, e che sia subordinato ad altri problemi. La relazione con loro non è
una lotta, ma essi spesso negano e sottovalutano la violenza contro le donne. È
difficile inserirla nel programma nazionale. Per esempio, nell’Organizzazione degli
Stati Americani c’è una commissione che segue il processo di smobilitazione
paramilitare. Noi abbiamo pubblicato un libro sugli effetti di questo processo sulle
donne, come vengono danneggiate, e forse nel rapporto ufficiale sono state
introdotte delle frasi su questo tema. Alcuni uomini dicono che noi li escludiamo.
No, si tratta semplicemente del nostro spazio. E d’altra parte pochissimi uomini
hanno espresso interesse a partecipare e a sostenerci. Detto ciò, la politica di
empowerment che pratichiamo ha incoraggiato delle donne a convincere i mariti ad
assumersi più responsabilità nella cura dei figli e nel lavoro domestico per
permettere loro di essere presenti più facilmente.
Guardando come utilizzate l’arte visiva nelle vostre manifestazioni, e il linguaggio e le foto delle
vostre pubblicazioni, come donne che si dipingono il corpo, vedo un grande uso simbolico del corpo
come una metafora e un linguaggio politico molto esplicito. E’ esatto?
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Si tratta di un linguaggio politicamente simbolico: riflettiamo su come sono
costruiti i simboli di guerra, su come sono inseriti nella società e su come eliminarli
e sostituirli con simboli di vita. Il corpo, ad esempio, è fondamentale perché noi
siamo femministe. I nostri corpi sono i primi territori di autonomia, e sono
espropriati, esiliati, picchiati, violentati… è stato cruciale esprimere la resistenza,
come dopo il Massacro di Bojaga del 2004, una municipalità del Choco. Il solo
accesso per recarvisi è il fiume Atrato e in quel momento i paramilitari lo
controllavano. Durante uno scontro con la FARC, nel centro della città, molti sono
fuggiti nella chiesa dove 119 persone sono state uccise da una bomba lanciata
all’interno. Nessuno poteva entrare nella città a causa dei paramilitari che
controllavano il fiume. Allora 10-15 donne del comitato della Ruta a Quibdo, là
vicino, vestite con abiti colorati, hanno preso i loro tamburi e sono scese per il
fiume su un piccolo battello, cantando alabados, canti afro-colombiani tradizionali.
I paramilitari non sapevano che fare, le hanno lasciate passare: sono state le prime
persone che hanno raggiunto i sopravvissuti.
Negli Stati Uniti, un’organizzazione nazionale che ha anche sezioni locali, “INCITE! Le donne di
colore contro la violenza”, ha richiamato l’attenzione sull’impatto particolare della violenza sulle
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donne di colore e sulle comunità di colore negli USA. La vostra organizzazione distingue come la
violenza colpisce diversamente le donne?
Assolutamente, infatti c’è partecipazione di indigene, donne afro, contadine.
Nel Choco, per esempio, abbiamo soprattutto donne afro, e qui a Cauca, soprattutto
indigene. La violenza colpisce in particolare le donne giovani in un modo diverso.
E’ una violenza sessuale molto più aggressiva. Sono le vittime preferite del
reclutamento forzato, i loro corpi sono usati come armi di guerra, trattate come
prede. La polizia, per esempio, infiltra giovani donne nella guerriglia, cosa che si
conclude sempre con il loro assassinio. Qui, a Jambalo, dodici donne tra i 12 e i 17
anni hanno ricevuto minacce di morte dalla FARC perché sarebbero legate
sentimentalmente a dei poliziotti. La Commissione statale per la famiglia a
Putumayo ha spesso segnalato che donne incinte legate a membri delle forze
armate erano sottoalimentate. Abbiamo organizzato delle manifestazioni contro
checkpoint e campi dell’esercito, che pianta – anche nei parchi per bambini –
grandi tende dove attirano spesso delle ragazze. Anche donne contadine che vivono
in regioni di narcotraffico sono gravemente colpite dalla carcerazione. Più del 90%
dei prigionieri arrestati per traffico presunto di droga a Putumayo sono donne.
Sono condannate a 9 anni per aver trasportato un sacchetto di cocaina, la stessa
condanna viene inflitta a paramilitari per aver partecipato a massacri, mentre
enormi camion pieni di roba viaggiavano liberamente.
Donne della Ruta sono state prese di mira dalla violenza politica?
Quest’anno, la nostra coordinatrice nazionale, Marina Gallego, è stata
minacciata dopo una mobilitazione nazionale a cui abbiamo partecipato con
MOVICE, il 6 marzo contro i gruppi armati, reclamando la fine della violenza. Una
dirigente del gruppo della Ruta di Medellin è stata assassinata in ottobre. Un’altra
nostra dirigente in un gruppo LGBT, le Pola Rosa, è stata minacciata e costretta a
trasferirsi in dicembre.
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L’organizzazione è unica tra i movimenti sociali colombiani, perché si è dichiarata pacifista.
Come gioca questa posizione nelle vostre relazioni con altri gruppi?
Una cosa è prendere le distanze dai gruppi armati e un’altra è qualificarsi
totalmente pacifiste. Alcune persone dicono: “OK, usare le armi è uno strumento,
non è il mio, ed è davvero un problema tra i guerriglieri e il governo”, ma io credo
che molte persone non sono d’accordo con la legittimazione di alcuni gruppi
armati. Come pacifiste, pensiamo che ogni guerra è ingiusta. Arrivare a questa
decisione è stata per l’organizzazione una lotta. È un dibattito ovunque. Ma noi non
condividiamo la lotta armata, non la legittimeremo in nessuna forma. Noi diciamo
che tutti i gruppi armati dovrebbero andarsene. E al nostro interno è un processo
continuo. Come è un processo per ogni organizzazione, per ogni donna, imparare a
riflettere sul femminismo: si potrebbe dire che molte organizzazioni non hanno
terminato la loro lotta interna con il femminismo. Lo stesso è con il pacifismo. Ed è
per questo che teniamo dei seminari di educazione politica.

Le donne in nero di Siviglia sull'incontro internazionale di Bogotà

SUGGERIMENTI PER XV ENCUENTRO
MdN Sevilla Maggio 2011

Care amiche, sorelle colombiane
il programma per il XV encuentro internazionale inviatoci invita a esprimere alcuni suggerimenti in relazione all’attualità e grazie per offrirci questa possibilità. Questa proposta di temi risponde a inquietudini e necessità di chiarimento e scambio. Abbiamo preferito per il momento dare suggerimenti per i 2 primi punti o forse valgono per altri. Ve li comunichiamo come collaborazione e con la speranza che facilitino una pioggia di idee per evidenziare più necessità o migliorare quelle espresse qui. Sono suggerimenti che potrebbero essere trattati in workshop o altri spazi. Li comunichiamo a voi che ospitate e siete le protagoniste dell’Encuentro affinché decidiate sulla loro opportunità, su come includerle, modificarle, arricchirle nell’agenda ed anche vedere chi può coordinare ciascuno di questi temi qualora li riteniate interessanti.

SUGGERIMENTI.

PER IL PUNTO1. L’opposizione alla militarizzazione della sicurezza nazionale e internazionale
Analisi femminista dell’attuale sistema di poli­tica di sicurezza militarizzata, includendo come i conflitti armati nel Sud siano favoriti dalle industrie belliche e dagli interessi economici del Nord; apprendere da azioni femministe pratiche per dare empowerment alla donna e proteggerla.
Alcuni suggerimenti per trattare il tema: La sicurezza non è assenza di guerra: ripudiamo l’ingiustizia e la distruzione della vita. La militarizzazione ha uno sbocco: la guerra. Ma la guerra come conflitto bellico non è l’unica guerra. E’ intrecciata con altre: le guerre economiche, sociali, ambientali, informative, culturali, scientífiche. Sono continue, militarizzano le nostre vite generando trasversalmente violenze verso di noi.
1. **La militarizzazione della “sicurezza” è onnipresente con lati oscuri, segreti, invisibili , s’impadronisce del nostro essere e della vita collettiva giorno dopo giorno. La militarizzazione quintessenza del patriarcato genera necessità di sicurezza, la militarizzazione della sicurezza si appropria delle nostre vite, normalizza le paure, la sfiducia, l’odio. Nuclearizza e avvelena le nostre necessità, relazioni e atteggiamenti vitali e creative, ci prende nelle sue strutture e valori, soffoca la risoluzione dei conflitti, genera muri e frontiere e violenze…. Opera in particolare verso noi donne? Quando e dove la mettiamo in discussione? Quando e dove ce ne dimentichiamo? Che sicurezza sogniamo? La sicurezza è una parola nostra? Quando ci sentiamo minacciate, come vogliamo rispondere?
2. ** Espropiare, escludere, distruggere, creare relazioni di dipendenza e dominio e la femminilizzazione della povertà: i meccanismi economici ancorati alla logica della violenza patriarcale. Militarizzazione dell’economia e dello sfruttamento di risorse agrarie e minerarie. Como disfarci dell’economia della morte? Impariamo da azioni civili di donne per la cura della vita e per la sovranità autogestite senza discriminazioni sessiste, razziste e classiste... Il movimento di donne contadine della madre terra in India pasando per l’Africa; l’ecofemminismo e il femminismo antimilitarista…; la creazione di inter-relazioni attive di resistenza e di denuncia.
3. ** Il volto segreto del potere patriarcale armato e la militarizzazione sociale delle nostre vite: le spese militari. Aldilà della produzione e del commercio di armi: il costo ecologico, sociale, umanitario; relazioni di dipendenza, debiti, corruzione; controllo e formazione occidentale di eserciti, paramilitari e corpi repressivi del “sud”; militarizzazione di scienza e tecnologia. Imparare da azioni di femministe antimilitariste: disobbedienza civile contro spese militari; resistenza e denuncia delle basi militari… demistificazione dell’economia militare rispetto al lavoro ecc.
4. ** “La sicurezza internazionale sotto il dominio del potere patriarcale prepotente: il controllo di regimi politici e militari; annullamento della sovranità di società civili in nome della sicurezza; la doppia moralità patriarcale occidentale, il suo peso nelle Istituzioni Internazionali; i negoziati segreti; la manipolazione dei servizi di inteligence; la dittatura delle lobby di interessi strategici economicoi e politici. Apprendere a smascherare e denunciare i poteri e a dar voce alle donne e alle popolazioni civili... Politica femminista della prevenzione.
5. **Le persone scacciate da ogni tipo di guerre: l’immigrazione, le/i rifugiate/i. Il neo colonialismo e le sue guerre generano spostamenti e sradicamentis. La politica dell’immigrazione del nord / Occidente rafforza la militarizzazione della sicurezza, la mafia, i killer, la militarizzazione delle frontiere e la politica con i paesi limítrofi, la paura per l’altro e l’altra, il supersfruttamento, l’esclusione, il nazionalismo con la politica integrazionista. Due dimenticanze: le donne che rimangono e quelle che se ne vanno sono le vittime principali; la maggioranza degli/le sfollati/e si trova fuori dall’Occidente. Imparare dalle azioni delle donne: Cultura della convivenza contro la discriminazione e la divisione. Disobbedienza civile a favore dei/delle sans papier. Reti di denunce della politica di sicurezza, criminalizzazione, espulsione ed esclusione verso gli immigrati... Reti di sostegno alle donne migranti, le grandi vittime dell’esclusione e supersfruttamento e a loro volta interlocutrici di altre realtà sconosciute.
6. **L’informazione militarizzata e la sicurezza civile intossicata. Il quarto potere: i media. Il modo militarista di trattare i conflitti e il sostegno ideologico nel giustificare gli interventi bellici, le rappresaglie; i conflitti mecí sotto silenzio, la censura, l’atteggiamento vittimista verso le donne… programmazione di film. Come apprendere a difendersi dalla disinformazione? Tipi di azioni di difesa e disobbedienza civile verso i medioa? Come essere le messaggere delle voci silenziate?.. Esperienze di controinformazione; radio di donne; nuove esperienze ecc.
7. ** La scuola della sicurezza nazionale e la militarizzazione dell’educazione. Insegnare a ignorare, escludere, competere, obbedire… La creazione di “memoria collettiva” e di mentalità nazionale. L’educazione spazio di intervento per reclutare future e futuri militari, poliziotti… Quale educazione per la pace? Pratica di soluzione di conflitti e coeducazione? Come acquistare fiducia nelle relazioni creative?
II) Prospettive femministe per i conflitti e le guerre attuali
Guardare i conflitti in una prospettiva femminista:
Il nazionalismo, l’intolleranza religiosa, la xenofobia, il terrorismo e le milizie armate, il sessismo, il traffico internazionale di armi, droghe, donne e persone vulnerabili.

Suggerimenti

1.** Processi patriarcali militaristi dominanti similari agli atteggiamenti sessisti, a favore di interessi geostrategici, economici passano per la denigrazione, la stigmatizzazione, l’inferiorizzazione, la creazione del diverso e l’ignoranza e la paura per il diverso presentato come minaccia e insicurezza per dominare, controllare, riservarsi il diritto di giudicare, colpevolizzare, punire, di ingerenza e appropriazione della sovranità delle sociedtà civili. Esempi: l’islamofobia, la lotta antiterrorista e la politica verso l’immigrazione una nuova guerra fredda che prepara l’interventismo, l’occupazione, l’esclusione di massa.
2.** Occidente un concetto da definire nelle relazioni di potere patriarcale nello scenario internazionale. Provoca fascinazione, odio e sfiducia. Quali sono le sue caratteristiche, la sua idiosincrasia come potere patriarcale? I suoi patti, le sue alleanze, i suoi tradimenti, i suoi segreti, le sue manipolazioni, le sue infiltrazioni, i suoi interessi, la sua forza destabilizzante? In cosa si differenzia la sua politica internazionale da un regime dittatoriale? Come decodificare e difendersi dal suo impatto a partire dalla prospettiva di resistenza femminista della nonviolenza?
3.** Le resistenze civili contro le dittature del mondo mediterraneo e dell’Africa hanno creato una breccia nel muro della visione dualista patriarcale dominante tra società civili inamovibili e società civili della modernità. Come uscire da questo dualismo? L’etnocentrismo occidentale si è autoproclamato padrone di valori definiti universali (laicità, libertà, diritti umani, progresso, tolleranza, diritti della donna, difesa della popolazione civile, pace, giustizia, universalismo), detta le sue regioni e in nome di questi valori fà interventi e ingerenze militariste chiamati Interventi umanitari e si serve di ONG transnazionali. Che conseguenze e che impatto hanno nella fiducia e nella tenerezza nella solidarietà tra donne? Come superare lo spirito di ingerenza e rispettare la pluralità e la sovranità nella lotta per l’emancipazione? Cosa intendiamo per l’universalità di valori, quali sono i nostri valori? Come ricreare una memoria collettiva da una prospettiva femminista per un presente di confluenze nella pluralità?
4** La megalomania patriarcale rafforza il suo potere di violenza e deistruzione di massa: la nuclearizzazione, il cambiamento climatico e le nuove armi (le guerre di “plasma”[?], guerre climatologiche e ingegneria geologica, installazioni tipo HAARP). Superare l’impotenza decodificando, indagando e denunciando i segreti della patologia “antropocentrismo”, le sue ricerche e saggi come crimini contro l’umanità, la vita stessa.
5. La femminilizzazione del militarismo e dei poteri e la strumentalizzazione dei diritti delle donne nei conflitti una nuova sfida che impone riflessioni.