Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

30 maggio 2011

Voci di donne dalla Bosnia

Voci di donne, oltre Mladić
Voci pacate, stanche e quasi spezzate. Sono le voci che provengono dalle associazioni delle donne bosniache che in questi anni hanno continuato a lottare per la verità e la giustizia per i crimini degli anni '90. I commenti alla notizia dell'arresto di Ratko Mladić. Nicole Corritore 27 maggio 2011
 
La notizia dell'arresto del “boia di Srebrenica” ha provocato diverse reazioni tra le donne bosniache vittime, dirette o indirette, dei crimini per i quali Mladić è accusato.
I commenti provengono soprattutto da quelle donne che, dopo aver subito violenza, aver perso mariti, figli e fratelli a Srebrenica o in altre parti della Bosnia Erzegovina, hanno deciso con la fine della guerra di unirsi. Formando associazioni in diversi luoghi del Paese, hanno cercato di superare insieme gli indicibili traumi a cui erano sopravvissute. Non solo. Hanno anche deciso di sostenere tutte le donne che erano state direttamente vittime o testimoni oculari di violenze, perché testimoniassero nei processi aperti dal Tribunale Internazionale dell’Aja.
Come hanno accolto queste donne l’arresto di uno dei più importanti sospettati di crimini della ex-Jugoslavia, colui che nell’elenco delle incriminazioni conta anche il massacro di 8.000 persone a Srebrenica nel luglio del 1995, il più efferato crimine di guerra compiuto in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale?
Donne per le Donne
Mnenuna Zvizdić, da tutti chiamata Nuna, dell’associazione Žene Ženama (Donne per le Donne) con sede a Sarajevo, quasi fatica a parlare al telefono: “Che dire? E’ sicuramente un momento molto importante. E’ un passo avanti significativo per tutti i Paesi della nostra regione. Penso che questo arresto ci aiuterà a riavvicinarci finalmente, a ricreare i legami che c’erano una volta fra tutte e tutti noi”.
La notizia le ha provocato emozioni contrastanti: “E’ certo un momento di felicità, sebbene quello che è successo oggi ci abbia riportato improvvisamente indietro al tempo di guerra, quello che vorremmo dimenticare per sempre”. Nuna non nasconde che 16 anni di lotta, e di attesa, sono stati difficili: “Si rimane senza parole, forse perché l’attesa in tutti questi anni è stata estenuante. Direi uno stress sottile ma continuo”.
Dimenticare non si riesce, dice Nuna, se non viene riconosciuta giustizia alle vittime. Dice “vittime” quasi distanziando le lettere della parola mentre le pronuncia: “Ricordiamoci che sono molte le persone scomparse e non ritrovate, della cui morte i responsabili devono rispondere. Ci sono tante vittime civili sopravvissute, molte donne ma anche uomini e bambini, i cui carnefici non sono stati ancora né arrestati né processati”.
Le donne di Bratunac
Stanojka Tesić detta Sana, del Forum Žene Bratunac (Forum delle Donne di Bratunac), sottolinea che questo arresto non rappresenta una fine: “La notizia dell’arresto è un segnale che c’è maggiore volontà ad andare nella giusta direzione. Ma noi ci auguriamo che questo non distolga dall’impegno a cercare, trovare e processare le numerose persone sospettate di crimini”. Sana, come Nuna, chiude con lo stesso assunto: "Il punto più importate di tutta la questione è che finalmente venga data giustizia a tutte e tutti.”
E’ dello stesso parere Rada Žarković, fondatrice della cooperativa di donne Zajedno-Insieme a Bratunac, nei pressi di Srebrenica. Un progetto di riconciliazione al femminile che ha dato vita ad una solida realtà economica agricola. Anche Rada ha pagato duramente sulla sua pelle la violenza di una guerra che è stata anche guerra contro le donne: “Sì, vero che l'arresto è importante e tutte e tutti abbiamo bisogno di chiudere finalmente la porta del dolore e delle divisioni per ricominciare da zero. Ma provo anche tanta tristezza e una grande stanchezza”. Tira un sospiro e spiega perché: “Purtroppo molti dei grandi carnefici sono morti prima di arrivare alla condanna. Noi semplici cittadini abbiamo bisogno che il processo si faccia e si arrivi a un verdetto, affinché essi non muoiano come 'semplici' sospettati. Altrimenti agli occhi di una parte dell'opinione pubblica rimarranno degli eroi e mai si arriverà al definitivo rifiuto delle loro idee.” Un'opinione che viene confermata, ad esempio, nel caso della morte di Slobodan Milosević nel carcere di Scheveningen all'Aja: una parte non indifferente della popolazione serbo-bosniaca e serba l'aveva ricordato come un eroe. D'altro canto, la recente condanna da parte del TPI del generale croato Ante Gotovina, ha sollevato in Croazia molte polemiche e malumori. A dimostrazione che un cambio culturale dell'opinione pubblica rispetto ai crimini commessi dalla “propria parte” può avvenire solo con un costante, duro e lungo lavoro.
Nemmeno l'arresto di Ratko Mladić, infatti, ha fermato queste donne nella loro quotidianità. Al telefono l'assistente di Irfanka Pašagić, neuropsichiatra e originaria di Srebrenica, direttrice dell'organizzazione Tuzlanska amica con sede a Tuzla, risponde gentile: “Irfanka si scusa,  ma abbiamo in corso una riunione di lavoro. Possiamo sentirci nei prossimi giorni?”.
Chissà se nei prossimi giorni, quando i riflettori mediatici si saranno spenti su Ratko Mladić e sui massacri di cui è accusato, qualcuno si ricorderà di dare voce a queste donne e del loro bisogno di giustizia e pace?
 

Il contributo della rete italiana all'incontro internazionale di Bogotà nell'agosto 2011

DALLA RETE DELLE DIN ITALIANE: MILITARIZZAZIONE E PRATICHE DELLE DIN

La situazione italiana

Malgrado l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”), l’Italia è un paese in guerra che combatte fuori dai propri confini, come in Kossovo, in Afghanistan e ora in Libia addirittura partecipando ai bombardamenti. L’Italia fa parte della NATO, e va ricordata la gravità della trasformazione degli scopi dell’alleanza fatta col trattato del 1999, che ha spostato la strategia da difensiva a offensiva, l’ha allargata a tutto il mondo ed estesa agli interessi (economici, energetici ecc..), con diritto di difenderli se minacciati. Questa appartenenza vincola e impone, insieme all’adeguamento di eserciti e armamenti, l’espropriazione dei territori destinati a basi e comandi militari, l’uso militare di porti, aeroporti e ferrovie, e anche una politica estera di uso della forza per i propri interessi, esercitando così una forma di dominio del mondo e una continua minaccia per la pace.
L’Italia è un paese in crisi economica e politica: insieme a una distribuzione sempre più disuguale della ricchezza, assistiamo all’attacco alle istituzioni democratiche e ad una fortissima spinta all’accentramento del potere nelle mani del governo, insofferente di ogni controllo democratico. “Il potere è in mano a persone di sesso e/o di mente maschile sovente impreparate e attente soprattutto a interessi propri o di cricca troppo spesso sporchi e dannosi. Elementi evidenti di questa situazione sono il totale disinteresse dei governi verso la società e l’ambiente – e il conseguente degrado dell’una e dell’altro; la riduzione dei diritti di molte/i per favorire i privilegi di pochi; la criminalizzazione dei diversi (dai migranti, ai rom, a chiunque dissenta) e l’impunità dei potenti, la precarizzazione di chi lavora e la marginalizzazione sempre più spinta delle fasce deboli.

La militarizzazione

Vi sono fatti molto espliciti, come l’aumento delle spese militari, che è contemporaneo ai tagli degli investimenti per salute, istruzione, assistenza, previdenza, ambiente, cultura; il nostro paese è oggi all’ottavo posto al mondo per le spese militari ed è impegnato in 27 missioni all’estero. In Italia vi sono 110 basi militari USA/NATO, anche con testate nucleari, e se ne costruiscono di nuove, come a Vicenza. La presenza militare contamina l’ambiente nei luoghi di guerra, ma anche nelle basi militari, nei poligoni di tiro, nel cielo e nel mare. L’Italia è coinvolta nella produzione, vendita e traffico di armi (.l'Italia è fra i primi 5 posti al mondo per l'esportazione di armi) anche verso paesi in conflitto del sud del mondo, facilitato da accordi bilaterali di cooperazione in ambito militare e della sicurezza, come quelli con Israele e con la Libia.
Vi è anche una militarizzazione interna: si militarizzano le coste e le frontiere; la paura e l’ostilità per la pressione migratoria rendono disumana e feroce la repressione dei migranti. e il Mediterraneo diventa area di conflitti e sempre di più una tomba per coloro che fuggono da povertà e guerre – di cui spesso siamo responsabili.
Questo modello militare repressivo è adottato anche per la “sicurezza” interna: ad esempio l’esercito viene usato in funzione di ordine pubblico nei mercati cittadini; le sterminate discariche della zona di Napoli sono sorvegliate da militari, interdette ai cittadini come zone militari, coperte da segreto militare; dopo il terremoto che due anni fa ha distrutto la città dell'Aquila la cittadinanza è stata cacciata dalle proprie case e chiusa in tendopoli controllate militarmente; il dissenso viene represso e trattato come problema di ordine pubblico. Insieme alle telecamere installate nelle nostre città, la deplorevole situazione di monopolio e censura dei mezzi di comunicazione di massa ci ricorda ogni giorno che siamo cittadine a diritti limitati.
Per militarizzazione non intendiamo solo la presenza di militari, armi, basi; pensiamo anche alla militarizzazione delle menti. “La parola sicurezza viene ripetuta ossessivamente nei giornali, radio, televisioni, nei discorsi ufficiali; gli uomini e ancor più le donne, dovrebbero guardarsi dagli altri, gli immigrati, i musulmani, i rom e sentire solo un incontrollato sentimento di paura, gestibile col tenere lontano il diverso da sé, in particolare con l’uso della forza, meglio se armata. La legittimazione dell’uso della forza è anche per difendere le donne dal barbaro invasore, mentre è in forte aumento la violenza domestica contro le donne e le bambine/i. insieme a un progressivo sgretolamento dei principi fondativi di uno stato che costituzionalmente si definisce laico, vediamo un ruolo sempre più invasivo della chiesa cattolica in ambito scolastico e assistenziale, con una pesante influenza sulle scelte in merito alla bioetica e leggi che tendono a imporre il controllo sul corpo delle donne e a ridurne i diritti acquisiti e l’autodeterminazione.
Si diffonde - attraverso parate militari, interventi dell’esercito nelle scuole, l’uso sempre più diffuso di una retorica e un linguaggio nazionalisti e militaristi - una cultura di guerra che ritiene normale, anzi giusto se non eroico, il ricorso alle armi. Si avalla così un processo di normalizzazione della guerra. Chi, come noi, vive in Occidente fuori dai luoghi di conflitto armato, non vede le sofferenze altrui, il martirio di intere popolazioni ed ha una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre.

Le nostre pratiche

In questa fase del nostro percorso politico ci siamo accorte di non poterci dedicare esclusivamente ai temi e alle pratiche finora percorse ma di doverci occupare del nostro paese insieme alle donne di altre associazioni e collettivi, insomma abbiamo assunto la consapevolezza che il nostro è diventato simile ai “luoghi difficili” ai quali abbiamo rivolto la nostra attenzione in tutti questi anni. Malgrado le difficoltà della situazione economica e politica attuale, malgrado la crisi dei movimenti pacifisti, pur consapevoli dei limiti della nostra rete, continuiamo con le nostre pratiche radicando le nostre azioni a partire dalla realtà in cui viviamo; la nostra pratica politica si basa sul partire da sé e sulla rilettura delle nostre esperienze confrontate insieme alle donne del gruppo e della rete, anche attraverso riflessioni suscitate da letture condivise: cerchiamo di sviluppare un libero pensiero che si origina dal desiderio di ogni donna di darsi parola per uscire dall'insignificanza nella quale è stata obbligata.
Oltre alle uscite periodiche con volantini organizziamo interventi nelle scuole o rivolti alla cittadinanza, per denunciare, fare informazione, prospettare visioni alternative, in special modo attraverso testimonianze dirette. Cerchiamo di riprendere spazi di parola, che sempre di più si stanno restringendo, e dare voce soprattutto a donne che cercano la pace. Cerchiamo di fare rete e costruire percorsi condivisi con altre organizzazioni o gruppi, in particolare di donne ma anche misti, con cui condividiamo obiettivi parziali o generali: si creano in questo modo relazioni e scambi importanti e duraturi, come il rapporto con le donne di Vicenza che da anni si impegnano contro la costruzione della nuova base militare, o quello con le donne e gli uomini che a Napoli e nei dintorni lottano per impedire la devastazione del proprio territorio (e della propria salute) imposta, manu militari, da una dissennata e illegale gestione dei rifiuti di mezza Italia o il movimento che a Novara sta lottando per contrastare la produzione dei cacciabombardieri F35.
I temi di cui ci occupiamo: protestiamo contro l’aumento delle spese militari, l’industria bellica, le missioni militari camuffate da interventi umanitari e/o missioni di pace, il continuo ricorso a soluzioni militari di fronte a situazioni conflittuali (vedi ora la Libia), la militarizzazione del territorio, le politiche securitarie, i respingimenti dei migranti che cercano di raggiungere il nostro paese e la riduzione del problema dei migranti a un problema di ordine pubblico. Denunciamo anche la violenza contro le donne, e riflettiamo sul linguaggio, denunciando la pericolosità del linguaggio maschilista e sessista. Cerchiamo relazioni di convivenza e accoglienza, partecipazione, solidarietà. Cerchiamo di essere responsabili e di prenderci cura di questo nostro mondo, con la difesa dell’ambiente e dei beni comuni, con il rifiuto del nucleare (civile e militare) e diciamo NO ALLA GUERRA e NO AL LIBERISMO.

2 Giugno in piazza Garibaldi alle 10,30

SMILITARIZZIAMO IL 2 GIUGNO

Siamo stanche di guerre, di armi, di parate militari


Il 2 giugno è la nostra festa, la festa delle donne e degli uomini che si riconoscono nella Costituzione, che sancisce i diritti di tutte e di tutti, il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute…, e il ripudio della guerra.

Cosa c’entrano le forze armate con l'evento storico del 2 giugno 1946?
Protagonista del 2 giugno è stato il popolo sovrano e il voto, azione democratica disarmata.
Nella festa del 2 giugno l'esercito è fuori luogo, occupa un posto che non è suo.
Le parate militari non ci rappresentano, ci danno tristezza, non ci rallegrano. Non festeggiano la vita e le istituzioni civili del popolo, non dimostrano amicizia verso gli altri popoli.


Per questo il 2 giugno noi vogliamo ribadire il nostro NO:
alla GUERRA, alle SPESE MILITARI, alla CULTURA della GUERRA,
alla MILITARIZZAZIONE del territorio e delle nostre vite.


NOI SOGNIAMO

un paese diverso, accogliente, fondato sul rispetto, l’ascolto e il riconoscimento reciproco tra uomini e donne, tra native/i e migranti, tra “noi” e “gli altri”;
un paese in cui i/le giovani possano avere un futuro e le persone anziane una vita dignitosa e serena;
un paese in cui i beni comuni - aria, acqua, terra, energia, il patrimonio storico, artistico e culturale, l'ambiente naturale, il paesaggio
- restino fuori dalla logica di mercato;
un paese che sappia affrontare i conflitti, interni e internazionali, senza ricorrere all’uso della forza;
un paese che investa non nelle armi e nella guerra, ma nella cultura, la scuola, la salute, l’occupazione.

Il 2 giugno che vogliamo è una giornata in cui fare festa
perché questo sogno si può realizzare


Donne in Nero
Padova, 2 giugno 2011

http://controlaguerra.blogspot.com/

28 maggio 2011

Notizie dall'America latina

II FESTIVAL DELLA MEMORIA - IO SONO VOCE DELLA MEMORIA E CORPO DELLA LIBERTA’
http://www.radiofeminista.net/index.php/es/noticias-todas/acciones-movilizaciones-logros-desafios/328-chimaltenango-guatemala-.html



Il II Festival della Memoria, “resistenza delle donne di fronte alla violenza sessuale durante il conflitto armato”, ha riunito più di 150 donne guatemalteche, accompagnate da attiviste internazionali di Serbia, Perú, Ecuador e Colombia che lottano per la giustizia per la violenza sessuale subita alle donne nei conflitti e nelle guerre nei loro paesi. Tra il 24 e il 27 febbraio si sono trovate insieme nella Escuela Pedro Molina, convertita dall’esercito 30 anni fa in Distaccamento Militare e tornata al popolo 8 anni fa, grazie agli accordi di pace.
“30 anni fa si stabilì lí la Zona Militare 302. Per oltre 20 anni l’esercito prese possesso di queste installazioni, causando molti terribili danni alle vite di bambine/i, donne, uomini di Chimaltenango. Oggi recuperiamo gli spazi che appartengono alle donne e quindi a tutto il popolo di Chimaltenango. Quel che ci è stato strappato, ci è stato restituito: hanno restituito le installazioni, ma la dignità non l’abbiamo mai perduta. Per questo ora proclamiamo, da questa tribuna, da questo II Festival, che noi donne abbiamo bisogno di chiudere una volta per tutte le nostre ferite. Che le nostre storie siano sanate, che centinaia, decine, migliaia di donne come noi si decidano a parlare, a non tacere mai più e mai si ripeta la violenza sessuale contro di noi. Non nelle guerre, non nei conflitti o nelle società apparentemente pacifiche”. Così ha detto Yolanda Aguilar all’apertura dell’evento. “Le donne dei diversi popoli indigeni del Guatemala si sono date appuntamento, tra i ritratti di volti di donne che hanno rotto il silenzio sulle violenze che hanno subito in guerra. Suonano le marimbas con la loro musica ancestrale che rende omaggio alle nonne che prima di loro seminarono il seme della resistenza delle donne contro la violenza. Il Festival tratta il tema della violenza sessuale sofferta da migliaia di donne durante il conflitto armato e delle loro lotte per “contribuire a costruire una società che non accetti, legittimi o giustifichi mai la violenza sessuale contro le donne”.
Rosalina Tuyuc della Comisión Nacional de Viudas de Guatemala (CONAVIGUA) ha detto, in omaggio a quante le hanno precedute anonimamente nella lotta contra la violenza alle donne: “Sono loro la ragione d’essere per cui molte di noi hanno iniziato questo cammino affinché la dignità delle donne non resti appannata, ma sia qualcosa che spinge ciascuna di noi a proseguire in questo cammino di lotta per la verità, la giustizia, non solo nei processi penali, ma affinché lo stato riconosca la sua responsabilità e risarcisca i danni. Il nostro plauso alle donne che si sono decise a rompere il silenzio, per la memoria di tutte le donne torturate, scomparse, massacrate, violentate, per la memoria della lotta di tutte noi.
L’agenda dell’evento includeva attività in strada, nei luoghi istituzionali e nelle scuole di Chimaltenango, affinché attraverso l’arte, la scrittura, il cinema e la musica si raccontasse alla comunità  l’importanza di rompere il silenzio, recuperare la memoria e non dimenticare affinché non ci sia mai più violenza sessuale contro le donne in nessun luogo. Il festival è stato un appello all’impegno per la giustizia sociale, ha rivendicato l’emancipazione delle donne con lo slogan “Io sono voce della memoria e corpo della libertà”, un passo avanti nel processo di costruzione della giustizia per le donne,  per risarcirle e riconoscere la loro dignità. Tra i temi trattati c’erano: recuperare la memoria dalle voci della memoria, recuperare il nostro potere collettivo per sradicare la violenza sessuale, Donne e Guerra (Lepa Mladjenovic, Donne in Nero di Serbia; Jessenia Casani, DEMUS Perú; Génica Mazzoldi, Humanas Colombia; Karina Sarmiento di Asylum Access Ecuador).
Il  I Festival per la Memoria si era svolto con successo nel 2008 in Huehuetenango, con uno slogan che affermava la resistenza delle donne: “Sono sopravvissuta, sono viva, sono quí”.

VOCI DELLA MEMORIA
Liduvina Méndez di Actoras de Cambios ha parlato della composizione del gruppo che ha dato impulso al lavoro dell’organizzazione. “Siamo un collettivo femminista di 8 donne che dal 2004 lavorano con donne vittime di violenza.


Ci sono 4 donne Mam, una francese, una spagnola, 4 meticce, una Qékchi e le promotrici, perché ci sono equipe locali che tengono i contatti diretti con le donne monolingue. Esse hanno una formazione e sono sempre più indipendenti e autonome nel lavoro... Per Liduvina l’area di formazione/guarigione è la parte più importante di Actoras.”Lavoriamo direttamente con 78 donne, però se contiamo le altre con cui lavorano le promotrici, il numero si moltiplica benché non sia il nostro lavoro diretto. Le donne che vivevano nelle Comunità in Resistenza (CPR) scese dalle montagne dopo gli Accordi di Pace, ora vogliono lavorare su questo. Il numero cresce secondo le necessità delle donne nelle comunità. Rompere il silenzio non è facile, però quando si sentono appoggiate e sostenute, lo fanno più facimente. Ora la loro espressione non è solo di dolore, ma parlano della loro vita, presentano teatro, danza e in altri modi, non più con un nodo in gola, ma esprimendosi più liberamente. Ridare significato alla storia non solo attraverso le parole, ma con tutto il corpo, dove fa male... le parti addormentate del corpo sono nostri poteri addormentati. Convertirci in Actorad de cambios è lavorare, non solo a partire dalla sofferenza, ma con tutte le espressioni.”
“Cris” è una spagnola che attualmente vive in Messico. “Siamo venute da un collettivo di autodifesa in Messico. Io sono sopravvissuta del caso di ATENCO in Messico; sono impressionata a vedere come le donne prendono il microfono”. Cris porta avanti una denuncia dal 2007 nello Stato Spagnolo, in Messico e presso la Corte Interamericana e non crede in questa giustizia, ma sostiene che è uno strumento da utilizzare per usarlo come un precedente affinché non accada più. “Il caso Atenco si verificò in maggio 2006: ci fu repressione verso azioni contro un mega progetto su un aeroporto, noi sostenemmo l’appello della popolazione. Eravamo 300 persone, ma arrivarono 3.500 militari. Noi donne fummo violentate. Però non tacemmo, mi deportarono in Spagna per 5 anni ma sono tornata prima. Punirono due poliziotti per atti di libidine, ma furono assolti, tuttavia delle donne rimasero in prigione 2 anni, 2 furono assassinate, 40 violentate, 22 fecero denuncia e 11 alla Corte Interamericana. Vogliamo che si riconosca la violenza sessuale come tortura pianificata dall’alto. Crediamo nell’autodifesa femminista perché crediamo di doveci formare per resistere e alllontanare gli aggressori, condividere conoscenze e contribuire tutte in quanto abbiamo molte tecniche. Vediamo che rompere il silenzio è importante. A me costò dire la parola “stupro”, ma vedo qui le donne nominarlo così chiaramente che mi impressiona.”
Karina Sarmiento dell’organizzazione Assylum Access in Ecuador si sente emozionata a stare al Festival e colpita dal tema “ricordare per sanare ed essere responsabili di quanto accadde”. Il problema è che si deve dimenticare, ma non si può dimenticare. La violenza sessuale si vive in contesti di guerra e di pace, non si può dimenticare.
Il Teatro dell’Oppresso, la terapia del riso, la musica e l’arte in generale sono strategie per la guarigione. Così crede Sandy Hernández dell’Argentina, che lavorò in Argentina e Perú in ospedali e comunità. Attualmente lavora con donne di Chimaltenango in 8 villaggi e CPR in San Juan Zacatepequez. “E’ divertimento, ma è denuncia e da ciò nascono questi processi attraverso giochi per dare soluzione simbolica a eeperienze di vita.”

Sandy Hernández e il gruppo di donne artiste indigene

Ha lavorato con le partecipanti per creare scene come quelle del teatro per l’apertura del Festival, “Rompendo il silenzio”, una scena che hanno deciso di allestire per denunciare i crimini. “L’arte è una forma di esprimere le nostre realtà e cercare soluzioni simboliche, cambiare la storia”. Con l’aiuto di una delle traduttrici al Mam, Josefa Lorenzo, Clara María Gerónimo García ha detto che, dopo che la violentarono nel 1980, restò molto malata e dovette chiedere un prestito per curarsi e ancora non sta bene. “Quando arrivarono i militari, venivano ad ammazzare mio marito; afferrai un bastone per picchiarli, ma lo ammazzarono ugualmente e poi mi violentarono...Ora quando sto con altre mi sento felice e meglio, ho superato e so che non fu colpa mía, ma degli stupratori. Ora ballo durante le attività, prima no.”
Le giovani Maya, Karina Matzir di Radio La Voz di San Pedro en Chimaltenango e Rosa Tecún Macario di Radio comunitaria Stereo San Francisco, hanno seguito il Festiva trasmettendolo con le loro radio. “Le radio comunitarie indigene del Consejo Nacional de Radios Indígenas del Guatemala attualmente cercano di far approvare l’iniziativa di legge 4087 che vuol rendere legali le radio comunitarie”. Karina produce notiziari, benché sia maestra e Rosa Micaela è contadina, ma fa anche radio. Entrambe fanno controlli tecnici oltre a dirigire i loro programi. “Attraverso le radio comunichiamo tra noi e ci informiamo”.

Nei loro programmi trattano il tema perchè molte donne dei loro municipi furono violentate, assassinate e scomparvero. “Esse devono sentirsi importanti perché la loro autostima è stata colpita, ma quando le loro voci sono trasmesse alla radio la loro autostima cresce” dice Karina. Rosa Micaela dice che queste donne che hanno rotto il silenzio devono sentire che qualcuno sta lavorando per la loro dignità. “Ci raccontarono cosa accadde durante la guerra, però tempo fa ed ora torniamo ad ascoltarlo direttamente”.  Sostengono che il messaggio dà coraggio, che le donne che rompono il silenzio devono sapere che non sono sole.

YOLANDA AGUILAR : “SIAMO TUTTE PROTAGONISTE DEL CAMBIAMENTO"
”Ciascuna di quelle che sono qui, siamo in carne ed ossa e con viva voce, la voce della memoria e del corpo della libertà di migliaia di donne di questo paese, di questo continente e molte altre zone. Tutte e ciascuna di noi ricordiamo e facciamo memoria di quanto vissuto; tutte e ciascuna incarniamo storie di libertà per quel che abbiamo raggiunto nelle nostre vite. Oggi, durante il II Festival Regional de la Memoria, quelle che riteniamo Actoras de cambios, cioè, tutte quelle che siamo qui, parteciperemo durante questi 3 giorni al recupero della memoria, a sanare e recuperare il nostro potere collettivo per sradicare la violenza sessuale dalle nostre vite, dalle nostre comunità, dalle nostre società. Da tempo non basta che diciamo quanto è successo. Abbiamo fatto indagini e continuiamo a farle, cercando strade alternative per ottenere giustizia per tutto ciò che è accaduto.
Recentemente è iniziato il nuovo anno Maya. Nel nostro calendario continua il 2011, ma molte di quelle che stanno qui sanno che è cominciato un anno di cambiamenti fondamentali nel pianeta, un anno di solidarietà, rispetto e amore per noi stesse, per noi e per gli esseri universali che ci circondano.. Oggi è Ish, rappresenta la vitalità, un giorno propizio per ringraziare per tutto ciò che le donne hanno realizzato, un giorno per meditare, per cambiare ogni aspetto negativo delle nostre vite, per cambiare il modo in cui abbiamo vissuto, per riformulare nuove forme di intendere la vita, per risolvere i problemi e sviluppare la forza interiore che abbiamo tutte.
Quando abbiamo cominciato qualche anno fa con Amandine Actoras de Cambio, non pensavamo che questo giorno sarebbe arrivato, ed è arrivato, come molti altri giorni che devono arrivare per le donne. Perciò siamo qui.
L’attività si realizzerà nella scuola Pedro Molina. 30 anni fa si installò lì  la Zona Militare 302. Per oltre 20 anni, l’esercito si impossessó di queste installazioni, causando molti terribili donne alle vite di bambine/i, donne, uomini di Chimaltenango. Non dimentichiamo quel che hanno fatto. E’ da 8 anni che la scuola è tornata ad essere scuola... Oggi abbiamo recuperato gli spazi che appartengono alle donne e di consiguenza, a tutto il popolo di Chimaltenango. Quel che ci è stato strappato ci è stato restituito. Ci hanno restituito le installazioni, ma non abbiamo perduto mai la dignità. Perciò è adesso che proclamiamo, da questa tribuna, da questo II Festival, che noi donne abbiamo bisogno di sanare una volta per tutte le nostre ferite, che si curino le nostre storie, che centinaia, decine, migliaia di donne come noi si incoraggino a parlare, a non tacere mai più e che non si ripeta mai la violenza sessuale contro di noi, Né nelle guerre, né nei conflitti o società apparentemente pacifiche.
Il patriarcato è il sistema più perverso che esista da quando eeiste l’umanità. E questa è la nostra grande sfida, eliminare la violenza sesuale una volta e per sempre. Uniamoci in una sola voce e un solo corpo affinché sia così. Benvenute e benvenuti a questo II Festival per la Memoria per sradicare la violenza sessuale e per costituirci in Actoras de cambios per sempre.

"NON SONO COLPEVOLE". ROSALINA TUYUC
Coordinatrice Nazionale delle Vedove del Guatemala
“Intrecciare le speranze affinchè tutte possiamo andare avanti…. Quando parliamo delle donne, dobbiamo ricordare la Madre Terra; la sua energía è la nostra miglior alleata durante il conflitto armato. Salutiamo la memoria delle grandi nonne e delle belle ragazze, le donne incinte offese dalla crudeltà dei militari… Queste grandi donne anonime, levatrici, guaritrici e leader che con il loro lavoro hanno nutrito le loro famiglie e le comunità. Possiamo conoscere i loro nomi solo dalla relazione della Comisión de esclarecimiento–histórico, REMI, e da quelle della chiesa cattolica, o dai murales alla memoria. Sono loro la ragion d’essere per cui molte di noi abbiamo iniziato quest cammino affinché la dignità delle donne non resti appannata,… è qualcosa che ci spinge tutte a poter essere in questo cammino della lotta per la verità, la giustizia, non solo nel processo penale, ma che lo stato riconosca le sue responsabilità e risarcisca il danno. Plauso alle donne che si sono decise a rompere il silenzio, per la memoria di tutte le donne torturate, scomparse, massacrate, violentate,… per la memoria di la lotta di tutte noi, grazie. Voglio dire che quando c’è una, ci sono 20, 100 o 1000 donne nel cammino della libertà, tutto è possibile. Grazie a questo lavoro di rompere il silenzio dalla famiglia, dI farsi carico di un futuro per le donne, molte hanno deciso di parlare e dire: “Io non sono colpevole”, che la violenza sessuale non è responsabilità né vergogna delle donne. Forse in qualche momento gli aggressori hanno pensato che le donne avrebbero taciuto e che così non ci sarebbe stata procreazione di maya, zutujiles, mames e tutte le donne dei diversi idiomi. Tutte sappiamo che la violenza sessuale ha voluto iniziare questo processo per poter lasciare il segno su loro e dire così che non si sarebbero mai alzate. Pero non sono stati invano la vita e il sangue di queste grandi donne, i cui nomi conosciamo dai murales e da pochi libri. Io penso che dal dolore può nascere l’allegria. Si, abbiamo pianto, sofferto: c’è stato oscurità, paura, terrore e a volte un dire: ¨Non voglio vivere, mangiare, sognare¨. Molte abbiamo pensato che non si sarebbe riuscite a parlare. Invece no. Grazie a tutti gli uomini e le donne di mais che ci hanno preceduto perché grazie a questa forza noi donne ci siamo alzate. Quante, attraverso questi pianti, possiamo dire che il nostro cammino è molto lungo e che oguna ha dato il suo grano di mais e altre seguiranno. Perché molti di questi cambiamenti, affinché non accadano mai queste cose, non dipendono solo da noi. Se dipendesse da noi, già avremmo realizzato il cambiamento. Dipende da queste trasformazioni politiche, economiche e culturali. Dipende dal potere militare perché tutti i governi sostengono la militarizzazione. Ma noi donne siamo messaggere di pace, lotta, giustizia e continuiamo a sperare che per lo meno la solidarietà tra donne non deve mancare. Salutiamo le grandi donne e antenate che senza sapere spagnolo, fanno la storia e continueremo a fare storia noi; storia per la vita, la libertà e la buona armonizzazione dei nostri popoli”.

LA MEMORIA E’ NEI NOSTRI CORPI, STA LI’ IL POTERE DELLE DONNE
Il 26 febbraio è stato dedicato a “Recuperare la Memoria per Sanare e Trasformare” con un primo panel intitolato “Recuperare la memoria dalle voci delle donne” nella Escuela Pedro Molina in Chimaltenango. Un’opera teatrale, rituali maya di guarigione, marimbas, canti e allegria hanno preceduto il panel a cui parteciparono Amandine Fulchiron e Angélica López di Actoras de Cambio e Lepa Mladjenovic di Serbia.
Angélica ha detto che la trama della memoria non nominata apre la voce di migliaia di donne qui, apre il cuore, la testa e lo stomaco. Hanno turbato il nostro corpo e la sessualità. “Non abbiamo mai parlato del corpo di ciascuna: come si ama un fratello, così pure si deve amare il proprio corpo”. Ha chiarito che quando le donne dicono di essere un’ombra, stanno dicendo che c’è stata una morte sociale perché siamo uscite dal mandato  patriarcale. Perciò recuperare il nostro corpo e la memoria è recuperare la vita.
Amandine Fulchiron ha detto che quando non menzioniamo quel che ci accade, le nostre esperienze spariscono dalla memoria collettiva. “Molti dossier sui Diritti Umani ignorano la violenza”. Da 25 anni le donne maya soprevvissute dicevano che sembravano di “susto”. Qual è il codice del susto? L’integralità della vita attaccata dalla violenza sessuale: “Dopo la violenza, io non ero io, ero l’ombra di me stessa”…. Non è fare una lista del dolore, ma delle conseguenze che ha. Segna un prima e un poi e limita la possibilità di avere sostegno e reti solidali perché ci accusano di essere “puttane”…. Per sanare e ricostruire un luogo nel cosmo, è importante  nominare quel che ci è accaduto. “Non parlare della violenza sessuale non fà sì che se ne vada; bisogna parlare per poter sanare e chiudere il cerchio affinché non si ripeta“. E’ la nostra storia, però pesa un segreto enorme che non ci permette di guarire e vivere. Come educare le bambine se non conoscono la storia? Per cambiare la storia bisogna conoscerla e sapere perché le cose sono andate come sono andate. La rendiamo politica, non è destino, la togliamo dalla colpa e le diamo un altro senso”. Recuperare e sanare questa memoria è un processo profondo e vitale che crea la forza collettiva trasformatrice per costruire la libertà.
Lepa Mladjenovic ha detto che il Festival è unico al mondo e Actoras de Cambios anche,… non aveva mai visto qualcosa del genere. “Vengo dalla ex Jugoslavia, un paese di 22 milioni di abitanti e 20 lingue, formato da 7 repubbliche, entró in guerra nel 1991 e finì nel 1999. Il paese si divise in 7 stati, 130.000 persone morirono, milioni di profughi e 20.000 stupri nella guerra. Nel 1992 dalla Bosnia arrivarono informazioni delle prime violenze contro le donne. Questo ci spinse a lavorare in un’ottica femminista. Una conseguenza è che ora la legislazione internazionale riconosce la violenza sessuale come un crimine.

Nel 1993 si formó il Tribunale Internazionale per i Crimini in Jugoslavia, con anche l’incarico di giudicare e punire i crimini di violenza sessuale. Per la prima volta si giudicò per la Jugoslavia e il Ruanda. Per la prima volta la violenza in guerra fu giudicata e gli uomini che la commisern furono puniti. Certo, ci furono 20.000 donne violentate e solo 20 uomini condannati. E’ importante che esista questo Tribunale, perché si certifica e rende visibile che ci furono questi crimini, però, d’altra parte, questi uomini sono tornati dopo la pena e stanno negli stessi luoghi dove vivono le donne che si sentono vulnerabili e insicure. Le donne di Bosnia non sono soddisfatte di questo Tribunale perché è insufficiente. Esse hanno dovuto andarsene dai luoghi dove furono violentate. Perciò bisogna continuare a discutere: cos’è la giustizia?”. Riferendosi al suo interesse per le donne del Guatemala, ha detto: “Abbiamo storie simili nei nostri corpo, ieri l’abbiamo visto nel teatro; è importante che si sappia che le donne di Bosnia  furono violentate da soldati di Serbia da dove vengo io, che io sono una donna che viene dalla Serbia. Faccio parte delle Donne in Nero e lotto contro il mio governo per le sue responsabilità e diciamo alle donne che ci dispiace molto che si siano fatti questi crimini in nostro nome”. Ha aggiunto che le donne di Bosnia devono sapere che c’è gente del paese aggressore che sono con loro. Ha ostenuto anche la creazione di tribunali del popolo per accusare chi non è mai stato perseguito penalmente.

LA DANZA DELLA VITA CONTINUA
La Alameda, Chimaltenango, 26 febbraio 2011. Riassunto del primo giorno del II festival regionale IO SONO VOCE DELLA MEMORIA E CORPO DELLA LIBERTA’.
Bisogna raccontare quel che è accaduto. Questa non è la storia di un giorno, in un giorno si può solo sintetizzare la terribile esperienza vissuta da donne di diverse culture e in diverse regioni del paese, che nel mezzo della guerra, furono prese con la forza, quasi sempre dai soldati, per abusare dei loro corpi. Però sono sopravvissute. Sono qui. Sono vive. Partecipano a un festival per la memoria, nel quale parlano, ascoltano, ballano. Ed ora quasi non piangono. Il giorno 1 del festival inizia con una cerimonia spirituale maya, guidata dalla Ajqij maya kiche Angélica Lopez insieme ad altre compagne presenti al festival... Questa cerimonia si è rivolta al corpo, fatta con il corpo, sentita nel corpo, vissuta dal corpo. In molte delle nostre culture il nostro corpo continua ad esserci estraneo. Persistono i tabú, le paure e queste emozioni perverse che ci ingannano, ci bloccano. Con questa cerimonia allora, si convocano le mani, le gambe, i piedi, la testa, il cuore, la vagina, la gola, lo stomaco, la lingua, la voce… Con candele, incensi, suoni, fronde e petali di fiori, abbiamo cominciato a suonare, cantare, ballare, muovere il corpo e tirar fuori i dolori corporali, mentali e spirituali. Anche il fuoco ha ballato, cantato e parlato insieme a noi. Anche le donne sopravvissute, presenti al festival, hanno iniziato a far suonare il corpo, attraverso la parola, cosa tanto importante per tante di noi, “rompere il silenzio”. Questi processi personali erano finalizzati a sanare le ferite. Certo, hanno trasceso la parola. Esse, organizzate in gruppi regionali, hanno anche vissuto un processo di elaborazione che trascende il puro condividere la storia con la parola, per rielaborare questa storia e convertirla in un’espressione artística. Il gruppo qeqchi ha deciso che le anziane ballassero una musica di arpa e violino, con cui si recupera la presenza delle antenate e si rende loro omaggio. Il gruppo de Huehuetenango ha elaborato una danza-teatro, nella quale ricrea la storia prima, durante e dopo de la guerra. E il gruppo qakchiqel, utilizzando le risorse del teatro-immagine e della terapia del riso, ha creato in una piece teatrale, un giorno nella vita di Margarita, una delle sopravvissute, precisamente il giorno in cui lei e la su famiglia furono vittime della violenza della guerra, lei in particolare fu presa, come molte altre donne, come bottino di guerra. Questa capacità di trasformare le loro storie personali e collettive in creazioni artistiche, ci mostra come loro siano riuscite a trascendere il dolore. Ed è questo che le Actoras de Cambios, organizzatrici di questo festival, ricercano con il loro lavoro di accompagnamento di questi gruppi.
Il primo giorno del festival è terminato con un ballo. E, come ha detto Eluvia, una partecipante a questo festival, con il loro lavoro, la loro presenza e le loro creazioni queste donne ci stanno dicendo che “il ballo della vita continua”.
“L’unico modo per cui la nostra proposta non sia folclorizzata è costruirla a partire da un senso politico... dalla cosmovisione maya. Solo così è possibile la rivendicazione della cultura originale attraverso l’arte”

CHIEDERE TRE VOLTE SVEGLIA LA MEMORIA
La seconda parte del 26 febbraio ha riguardato strategie e azioni per “Sanare e recuperare il nostro potere collettivo per sradicare la violenza sessuale”. Hanno partecipato al panel attiviste e attrici da Colombia,  India e Guatemala.
Luz Estela Espina Murillo di Vamos Mujer in Colombia, per “passare dall’indegnità all’indignazione”, presentó una canzone di Petrona Martínez della Costa Atlantica,  attivista colombiana che creó “La vida vale la pena”. Sulla tonalità caratteristica della negritudine caribegna, con tamburi afro e ritmo colombiano, la plenaria del Festival ha mosso il corpo all’unisono. Vamos mujeres è un’organizzazione che lavora con donne colpite dal conflitto armato e nelle famiglie del loro paese. Ha citato un lavoro recente della Casa de Mujer che contiene dati secondo cui tra il 2001 e il 2009 in 407 municipi, migliaia di donne furono vittime di violenza sessuale nel conflitto armato, cioé una media di 54.410 donne all’anno, 149 al giorno e 6 ogni ora. “Facciamo parte della Ruta Pacífica de Mujeres dal 1996 che ha origine dalle violenze delle donne indigene in una zona di Urrabá. E’ una strategia di andare a ascoltare direttamente le donne colpite nelle loro comunità”. Ogni 25 novembre la Ruta va in massa nelle comunità in cui le donne sono intrappolate in mezzo al conflitto armato, per accompagnarle, rendere visibili le loro lotte e rivindicare le loro richieste. Esse non parlano di sanare, ma di ricostruire l’identità come decisione autonoma individuale, che si fa però collettivamente. Ruta Pacífica ritiene che la vita libera da violenza non riguarda solo le donne, ma uomini e donne. “Che tipo di società è quella che è indifferente al danno e alla sofferenza subita da tutte e tutti? Cosa ci rivela della società e della cultura, ammettere e accettare la distruzione del corpo delle donne?”
Miriam Cardona della Red de Mujeres por la Justicia Económica y Social, lavora su  potere, razzismo e violenza sessuale. “Una donna, coinvolta in uno di questi processi, ci diceva che non sentiva nulla, ma il suo corpo si induriva. Chiedere tre volte sveglia la memoria perché l’oblio è pieno di memoria. Il trauma, come ogni dolore rimasto nella dimenticanza (che è incoscienza), disintegra il vincolo del benessere. Il corpo parla di quel che la mente, abituata a controllare, decreta di non sentire e fa che la memoria resti registrata nel corpo, ma la mente dica di non sentire nulla. L’impatto del trauma fa si che mettiamo a tacere i segnali del corpo, ma il corpo continua a parlare. Decretiamo l’oblio, che è il silenzio del corpo. Stiamo dimenticando la nostra vita e storia. Quando raccontiamo le storie che ci sono accadute, senza badare a quel che dice il corpo, rimaniamo nel silenzio, nell’oblio. L’obiettivo è non sentire e separarci dall’agire. Perciò a volte facciamo azioni politiche molto combattive per rompere il silencio, ma non quello inciso nei nostri corpi... La frattura tra il sentire e l’agire è vivere nella non conscienza sulla propria storia. Poiché il trauma si esprime fisicamente nel corpo, se non lo esprimo, continua a riprodursi nel corpo. Ogni volta che ci sia un grido, un suono, un fatto o una relazione che risvegli la memoria corporea del trauma, rivivremo emozioni intense come accadessero ora. Ci obblighiamo a vincolarci allo stesso padrone da cui vogliamo liberarci. E lo ripetiamo in diverse forme: mi relaziono con rabbia, mantengo relazioni violente, racconto i miei traumi solo quando bevo… L’impatto dell’oblio è grande quanto la storia dimenticata, il suo impatto è sulla sopravvivenza e mi trasforma in sopravvissuta… Siamo tutte coinvolte nella costruzione della memoria storica e tutte abbiamo una storia da sanare… Sentire è rompere il silenzio del mio corpo e tendere dei fili tra il corpo e l’azione. La garanzia che la violenza non si ripeta sta nel sanarla”.
Nell’ultimo dibattito al II Festival della Memoria, Lepa dalla Serbia ha detto che bisogna definire cos’è la “giustizia femminista”. “La cosa principale è assicurare che le comunità onorino le donne e trasformino la loro colpa e vergogna, trasferendole sugli aggressori”. Per l’attivista serba, i tribunali della coscienza svolgono un ruolo perché chiamano in causa i responsabili che non sono mai stati preseguiti per altre vie.
Una compagna guatemalteca che non si è presentata ha detto di essere stata triste e sentirsi malata fino a quando non Angelica e Amandone l’hanno sostenuta ed ora si sente sicura. “Qualsiasi cosa mi accada nella comunità, so che loro mi sosterranno”. Génica Mazoli della Corporación Humanas in Colombia ha sottolineato la giusta relazione tra giustizia e verità. Non sempre la giustizia arriva alla verità. Quella dei colpevoli non è la verità delle vittime. Non c’è la voce delle donne.
Angélica López chiede: Come fare per lavorare nella destrutturazione del potere sul corpo?
Lepa: Il tema della guarigione è nuovo nel movimento in Europa: l’ottica femminista della giustizia comincia con la guarigione. Bisogna raccogliere la vostra esperienza. Giustizia femminista è partire dalle donne mentre quella della tradizione parte dagli aggressori.

VOCI DEL FESTIVAL: NELLA DIVERSITA’ DELLE AZIONI STA LA FORZA
Durante il conflitto armato in Guatemala tra il 1960 e il 1996, periodo della durata del conflitto armato interno in Guatemala, si stima che più di 5000 donne furono violentate, l’80% delle quali erano indigene, originarie principalmente da Quiché, Huehuetenango e Las Verapaces, i dipartimenti dove si registró il maggior numero di massacri e operazioni di terra bruciata. La relazione della Comisión para el Esclarecimiento Histórico, “Memoria del Silencio”, sottolinea che, nonostante alcuni casi verificatisi nella guerriglia, l’89% fu opera dell’Esercito, con il sostegno dello Stato, il principale ente responsabile di questi crimini.
Le voci delle donne che subirono queste violazioni dei diritti umani non fu ascoltata quando avvennero. Solo recentemente, dopo 25 anni, esse sono entrate con forza nell’agenda pubblica con le loro voci, rompendo il silenzio e passando da vittime a soprevvissute a actoras de cambio.
Liduvina Méndez di Actoras de Cambios: “Esse (quelle che hanno rotto il silenzio sulle violenze sessuali durante la guerra) si sono formate e sono sempre più indipendenti e autonome nel lavoro perché si sono appropriate delle risorse del processo… Le parti dormienti del corpo, sono nostri poteri dormienti; convertirci in actoras de cambios è lavorare a partire non solo dalla sofferenza, ma da tutte le espressioni di vita”. Lidubina Méndez aggiunge: “La nostra proposta metodologica lega il femminismo alla cosmovisione Maya. Discutiamo come sanare e costruire il nostro potere collettivo per una società che non accetti né giustifichi la violenza sessuale e tutto ciò che essa implica nella vita delle donne. Siamo convinte che tutte le persone nasciamo con la possibilità di vivere una vita piena, ma quando ci tovca vivere in condizioni avverse come ci è toccato nel patriarcato, abbiamo anche tutte le condizioni per sanare e recuperare l’equilibrio e l’armonia. Ci hanno fatto credere che siamo indifese e che non possiamo. Col contatto con il nostro interno possiamo scoprire tutte queste possibilità con cui nasciamo. La paura e il terrore inibiscono e per questo bisogna rompere con immaginari, modi di vivere, credenze che non ci permettono di svegliarci per vivere pienamente. La segregazione subita dallae donne e dalle sopravvissute alla violenza sessuale limita le possibilità. Rompere il silenzio in solitudine è più diffícile che insieme. E’ stato importante che ciascuna credesse in se stessa e nelle sue capacità per andare avanti ed essere responsabile di se stessa, del suo processo di guarigione. Tutte abbiamo la forza, dobbiamo solo risvegliarla. E’ complesso, ma possiamo risvegliare questa capacità. Il costo della libertà è meraviglioso. Il costo di rompere le catene è prezioso. Lo star male non è una condizione delle donne, la libertà è la nostra condizione. Riconoscere il malessere e abbandonarlo. Rompere il silenzio non è solo parlare di quanto accaduto, è capirlo e ri-significarlo. Curare il nostro corpo. Respirare è prendere coscienza piena dell’impulso vitale che c’è in tutto il nostro corpo. Ballare, danzare, muoverci con scioltezza. Il femminismo, per recuperare le ali per volare”.

Per ulteriori informazioni vedi www.radiofeminista.net

05 maggio 2011

Riflessioni intorno al convegno di Venezia "vita in comunità traumatizzate"

Continuare a pensare
di Patrizia Brunori

Quando sono stata invitata da Andrea Scartabellati a partecipare ad una riflessione interdisciplinare e a più voci per la rivista DEP, a partire dalla esperienza in Bosnia –Erzegovina, narrata nel testo scritto con altre colleghe,1 ho provato un profondo interesse e ho pensato che si stava realizzando uno degli obiettivi più significativi. I pensieri e le riflessioni che avevamo avviato sui traumi psichici nei contesti di guerra, sulla loro possibilità di elaborazione quando il contesto sociale è lacerato, frammentato, esso stesso violentemente traumatizzato, permettevano altri pensieri e riflessioni, dando vita a quella pluralità di voci e di vertici di osservazione, che è tanto più significativa quanto più il tema è complesso.
Il destino dei traumi psichici nei contesti di guerra è infatti soggetto al rischio dell’emergenza del fare, nelle prime fasi, e dell’oblio poi.
Nella psicoanalisi gli interessi per la guerra risalgono agli inizi del ‘900. La ricerca e la riflessione seguono fin dall’inizio due aree: quella più vicina alle esplorazioni filosofiche ed antropologiche riguardanti i modelli interpretativi del fenomeno guerra e quella più vicina alla psichiatria, relativa alla comprensione dei traumi psichici nelle situazioni estreme e alla loro cura. Entrambe queste aree di studio e d’applicazione alternano periodi d’intensa proliferazione a periodi più silenti. Questo appare collegato alle situazioni storiche e politiche che attraversano il ‘900, fino ai giorni nostri in cui c’è un forte interesse della comunità psicologica e psicoanalitica sul trauma e sulla distruttività.
Il problema degli assetti e dei modelli di cura quando i traumi sono individuali ma anche collettivi; della neutralità terapeutica; della trasmissione transgenerazionale nelle realtà di catastrofe sociale2; degli interventi umanitari; della formazione e protezione della salute psichica degli operatori umanitari; della relazione con gli operatori del luogo; della transculturalità necessitano di una articolata riflessione.
Tutti questi temi, e altri sono stati ripresi con profondità e attenzione negli interventi proposti in questo spazio aperto di riflessione.
Il progetto del libro Traumi di guerra è nato nel gruppo: un gruppo interdisciplinare e transculturale di colleghe bosniache e italiane. Noi - gruppo di colleghe di Bologna - abbiamo avuto il privilegio di avere spazio e tempo per condividere, pensare, ricordare , elaborare e scrivere la nostra lunga esperienza.
La scrittura corale del libro, che è durata più di un anno è stata per noi uno spazio necessario di elaborazione e di riflessione. Scrivere coralmente ha significato essere in gruppo, ri-pensare, ri-narrare.
Infatti come sottolinea Angeli3 un evento traumatico collettivo avrà la necessità di transitare per più contenitori, e predisposti a diversi livelli di sensibilità, per tentare di essere elaborato.
La scrittura, che era scaturita fluente fino a che era stata sostenuta dalla narrazione dell’esperienza e testimonianza del lavoro delle colleghe bosniache durante la guerra, era diventata difficile quando procedevamo verso riflessioni sul modello teorico che aveva sostenuto l’esperienza e sulle riflessioni psicoanalitiche sul trauma da violenza sociale. Molti erano stati i dubbi e gli interrogativi, abbiamo provato ad elaborarli, abbiamo deciso di pubblicare le nostre riflessioni fin dall’inizio: i nostri viaggi da Bologna a Tuzla , dall’interno all’esterno, dall’individuale al gruppo , perché abbiamo pensato che la narrazione che ne scaturiva fosse tutto materiale clinico con molte aree insature su cui continuare a riflettere. Sono proprio queste aree insature che spesso vengono colte dallo sguardo esterno e rimandano altri punti di vista, suscitano interrogativi, propongono e permettono altre riflessioni. Così la presentazione del libro in vari contesti: dai gruppi dei colleghi, alle associazioni non governative, ci ha dato molti stimoli teorici e clinici e ha permesso di continuare a pensare.
In questa sede vorrei proporre alcune riflessioni, attorno al tema della transculturalità e del gruppo che mi sono state stimolate particolarmente dall’intervento di Mary Abed.
In questi anni, probabilmente proprio per la complessità di questa esperienza e per la complessità del contesto in cui tutti viviamo, un contesto che ci propone quotidianamente l’incontro con l’alterità, ho sentito l’esigenza di addentrarmi anche nelle le riflessioni che ci vengono dall’etnopsicoanalisi.
Concetti quale quello di identità, cultura, multiculturalismo, complessità multietnica, realtà di migrazione, esilio, guerre etniche, traumi psichici e sofferenze di identità in contesti di violenza sociale ci impongono di pensare sia come persone sia come professionisti della salute psichica alla dimensione perturbante e creativa dell’alterità. Kristeva4 sottolinea come l’incontro con l’alterità costringe a confrontarci con l’estraneo presente in noi stessi, dimensioni rimosse, negate, nascoste responsabili delle sensazioni di inquietante estraneità.
Come abbiamo incontrato l’alterità culturale, etnica, esperienziale delle colleghe bosniache? Abbiamo rischiato di appiattirci, come indica problematicamente Mary Abed solo sul paradigma del trauma psichico, di cui padroneggiavamo il linguaggio?
Io credo che la dimensione del gruppo ci abbia permesso di stare nella transculturalità. Nel gruppo è più facile farsi un’idea della propria identità come molteplice; non soltanto per la presenza di più persone ma anche per la poliedricità del pensiero che nel gruppo si sviluppa. Possiamo immaginare quindi lo spazio gruppale come luogo ectopico5 “in esso è possibile che un topos o un insieme di topoi siano organizzati come patrimonio comune da cui ognuno può attingere quella parte di conoscenza di sé e dei suoi oggetti personali e specifici che nel passato erano a lui misconosciuti o non proposti in un codice di chiara pensabilità. Ad esempio, tradurre un’emozione in un pensiero o viceversa, quando il proprio pensiero è accolto da un pensatore”6.
L’etnopsicoanalista Moro7 sottolinea come la relazione terapeutica si basa sulla condivisione di impliciti culturali, quindi quando l’altro appartiene ad un'altra cultura c’è la necessità di costruire ciò che d’abitudine è primario ed implicito, il contenitore stesso dell’interazione, un contenitore attento e sensibile alla dimensione culturale. Infatti ogni cultura definisce le categorie che permettono di leggere la realtà e di dare un senso agli avvenimenti. Le rappresentazioni culturali che ne derivano costituiscono l’interfacccia tra l’interno e l’esterno e permettono l’esperienza soggettiva. All’interno dei sistemi culturali, sempre straordinariamente complessi e sempre in movimento, scrive Moro, bisogna identificare quale siano gli elementi utili per comprendere e curare la sofferenza psichica in situazione transculturale. Sono tre i livelli da esplorare con maggiore attenzione. La dimensione ontologica, cioè quale è la rappresentazione della natura dell’essere, la sua identità; la dimensione eziologia, cioè il senso da dare al disordine della malattia; le logiche terapeutiche. Due sono i paradigmi che vengono identificati come strutturanti l’intervento terapeutico: il complementarismo cioè la complementarietà di più discipline, con i propri strumenti conoscitivi, nella lettura di un fenomeno; e il decentramento culturale cioè quella capacità di cogliere la logica intrinseca della narrazione fatta dall’altro, soprattutto quando l’altro proviene da un paese diverso ed è quindi portatore di universi simbolici e culturali differenti. Una posizione interiore, intellettuale, emozionale, corporea che viene protetta e promossa dalla presenza del gruppo. Il de-centramento presuppone che si accetti di moltiplicare i riferimenti di lettura di un fatto e che si cerchi di co-costruire con l’altro questa lettura possibile. Nella clinica transculturale alcuni parametri sembrano essere stabiliti: la necessità di un gruppo di terapeuti, l’importanza di poter usare la propria lingua madre, quindi la presenza del traduttore. Infatti la conoscenza culturale condivisa permette di esprimersi per sottintesi e impliciti, la sonorità del linguaggio è significativa. Infine la necessità di partire dalle rappresentazioni culturali del paziente. Il gruppo dei terapeuti poi costituisce l’esperienza più creativa per poter analizzare il controtransfert culturale: “ alla fine di ogni seduta il gruppo si sforza di mettere in luce il controtrsfert di ogni terapeuta, con una discussione sulle emozioni provate da ognuno, sugli impliciti, sulle teorie che hanno condotto a pensare una data cosa….”8
Ripensando al nostro percorso ritrovo molte affinità con gli assetti transculturali, in questa ottica possiamo dire che noi eravamo in un assetto metaculturale9.
Non avevamo allora conoscenza di questa complessità ma l’esperienza psicoanalitica nella sua dimensione più profonda, l’esperienza psicoanalitica vissuta nella propria analisi personale, in quella di gruppo, nei percorsi formativi di gruppi esperienziali e supervisioni. Tutte esperienze basate sul rispetto dell’altro, sulla discrezione dell’ascolto e delle domande, sull’interesse alla possibilità della mente di pensare e di esperire emozioni vere, sulla fiducia di potersi addentrare nelle zone più inquietanti e spaventose, perché sostenuti da una presenza rassicurante, ci hanno permesso di addentrarci in territori sconosciuti di inquietante alterità, di pensieri, di esperienze, di teorie, di vissuti. La modulazione dell’esperienza di gruppo e nel gruppo ci ha permesso credo, quella attenzione al decentramento, al complentarismo dei linguaggi e all’analisi del controtransfert culturale.
La distruttività che la guerra comporta è un’effrazione specifica della psiche che non può essere pensata solo come una vicenda intrapsichica. Il gruppo, visto da questo vertice di articolazione, ha cercato di ricreare il “quadro” sociale lacerato, frantumato e disorganizzato. L’attenzione al gruppo appare tanto più necessaria quanto più l’identità individuale è stata frammentata e distorta nei suoi legami di appartenenza sociale.
Nella nostra esperienza sono diversi i gruppi che si intrecciano fin dall’inizio e che permettono di creare contenitori affidabili in cui portare domande e bisogni.
Il primo gruppo è quello Istituzionale e Politico: “Spazio pubblico”, depositario primo delle angosce, del caos, dei bisogni di operatori e istituzioni sconvolti dalla guerra , un gruppo che permette che un gruppo di medici, psicologi e psichiatri – all’inizio solo donne - del luogo organizzino il loro lavoro a Casa Amica. Una casa, un contenitore concreto ed un contenitore mentale a cui si possono rivolgere le donne ed i bambini traumatizzati nel corpo e nell’animo dagli orrori che hanno vissuto. Il problema nella realtà di questa guerra interetnica è che l’espulsione del pensiero negativo non è seguito dal sollievo, ma dalla conferma nella realtà esterna di una situazione di fame, di morte , di violenza, di perversione, di insensatezza.
Poter pensare nel gruppo e raccontare è stato per i pazienti, è stato per le colleghe, un primo momento di trasformazione.
Abbiamo visto lo sforzo delle colleghe di Tuzla di pensare insieme per affrontare il trauma psichico individuale e collettivo. Con acuta sensibilità Nicoletta Goldschmidt scrive “Il gruppo bosniaco ha trovato una prima risposta: un luogo e un tempo per la cura, per prendersi cura, Casa Amica, un luogo sicuro e i gruppi terapeutici con la loro periodicità…”
Il terzo gruppo è quello che nasce dal nostro incontro con le colleghe di Tuzla , un gruppo per contenere un gruppo. In quel contesto, abbiamo cercato di fare un lavoro mirato a restituire il senso di un’esperienza , di ricostruire trame narrative che permettono di vedere nuovi punti. Quando la violenza ha toccato il cuore dell’identità sociale e personale, l’esperienza del trauma da guerra rimane intangibile, il trauma rimane lesione irreparabile ma il sollievo dato dalle narrazioni individuali e collettive nasce da una sorta di scongelamento del pensiero stesso attraverso il contatto con menti o contenitori capaci di accogliere e restituire calore.
Nei gruppi c’erano le voci delle donne , dei bambini e adolescenti dei casi clinici, delle terapeute e dei terapeuti, la coppia mista, le diverse nazionalità e religioni. Il gruppo come microcosmo che contiene e riflette il macrocosmo. Nella presentazione e discussione dell’esperienza clinica dei colleghi bosniaci, nei riferimenti alle storie personali, esperienze segnate da lutti e cambiamenti, abbiamo colto difficoltà e rischi assieme a uno sforzo continuo di trovare le parole, di costruire ipotesi.
Mary Abed si pone la domanda se si può essere contemporaneamente terapeute e pazienti e indica il rischio di una ambiguità: “ le terapeute bosniache, mentre assumono il ruolo di mediatrici linguistiche, in senso lato culturale, nel medesimo tempo chiedono aiuto anche per se stesse. Hanno vissuto e vivono regolarmente il dramma quotidiano della guerra, della fame, della povertà e , soprattutto, dell’insicurezza fisica e psicologica - pensiamo ai bombardamenti indiscriminati. In riferimento ai diversi modelli analitici, si può essere contemporaneamente terapeute e pazienti?”
La risposta è si, nel senso che solo attraverso la consapevolezza e l’oscillazione continua tra il proprio mondo interno e quello dell’altro, il perturbante dell’alterità nel setting terapeutico può essere pensato.
Noi stesse abbiamo attraversato momenti di accecamento, di dubbio, di inadeguatezza, di impotenza. Come dice Corrao: “nel gruppo, la funzione interpretativa non è necessariamente inserita nel conduttore o in uno dei suoi membri, ma è connessa al sistema, nel senso che questo sistema si costituisce come un contesto autointerpretantesi in modo continuo o discontinuo…gli eventi del gruppo sono polidimensionali”10.
Il gruppo ha condiviso l’angoscia di un trauma presente, invasivo e contagioso quale un trauma di massa può essere, e ha cercato parole e ha sopportato silenzi. Noi eravamo nel gruppo, ma eravamo anche l’altro che può condividere e portare “fuori”, ed immettere in circoli comunicativi e quindi vitali ciò che poteva rimanere chiuso nella solitudine ed inabissarsi nel silenzio. Dopo ogni viaggio ci siamo confrontate con le diverse sensazioni ed emozioni che ci avevano abitate: come se in quelle particolari situazioni fosse necessario un orientamento che rischiavamo ad ogni viaggio di perdere. E ci siamo a volte perse ma, come sottolinea Neri a proposito di momenti perturbanti nel gruppo: “se però si tollera lo smarrimento e la confusione, sufficientemente a lungo, continuando ad associare e a pensare, emergeranno nel gruppo una nuova direzione ed un nuovo senso.”11 Con queste modalità di accecamento e disorientamento, di attenzione e memoria, abbiamo cercato di addentrarci nella catastrofe per sostenere esperienze di pensabilità, di trasformazione e di coesione in quella oscillazione tra la funzione elaborativa individuale e quella gruppale, che come scrive Corrente: “permette lo strutturarsi di un campo dove potranno essere accolti gli eventi e svilupparsi le trasformazioni analitiche attraverso le quali approdare alla costruzione di un contenitore gruppale adatto a ri-significare le esperienze vissute: quella storia unica e particolare che ogni gruppo genera.” 12
Le trasformazioni avviate e sostenute nel campo del gruppo e sostenute dal pensiero di gruppo proseguiranno per ognuno con modulazioni proprie. A volte è necessario un tempo lungo perché un pensiero, una parola nuovi permettano la pensabilità dell’esperienza. Come abbiamo scritto: “Allora chi ascoltava non poteva far altro che aspettare e contemporaneamente andare a proprie differenti esperienze che potessero fare da “ponte” senza confondersi le une nelle altre. Abbiamo cercato di costruire un legame con persone lontane, geograficamente e non solo, caratterizzato da un continuo rimando di pensieri ed emozioni per cominciare a rappresentare anche la novità di nuove situazioni sociali ma anche psichiche”13.
Non possiamo che avere la speranza che le idee e i pensieri continuino a nascere e a scambiarsi in modo da mettere in luce ciò che, in altri momenti, ancora non poteva essere pensato.

Voci da Israele

Mizrachi, Ebrei orientali solidarizzano con la Primavera araba

Ritengo particolarmente interessante questa lettera, che ho tradotto perché i lettori del Manifesto possano conoscere una realtà interna allo Stato Israeliano poco pubblicizzata e poco nota. Prendono la parola i giovani
Mizrachi, i figli e i nipoti, come loro stessi dicono, di quegli ebrei che sbarcarono spesso non volontariamente in Israele tra la fine degli anni 40 e gli anni 60 del secolo scorso provenienti da una larga gamma di paesi de mondo arabo e musulmano, dal Marocco all’Irak, alla Siria, allo Yemen, alla Turchia, all’Iran e addirittura all’India. Questi ebrei arabi, che negli anni ’60- ’70 cominciarono ad essere designati con l’etichetta unificante (e fuorviante) di “Mizrachi”, ebrei orientali, erano parte integrante del mondo musulmano ed arabo e lo erano stati da tempo spesso immemorabile, ma furono costretti ad assumere una identità “israeliana” e finirono per essere discriminati, considerati dei paria all’interno della stessa Israele, che rinnegava ogni suo legame (costituzionale, come giustamente Asor Rosa diceva qualche anno fa: Israele era oriente e si fa occidente) con il mondo arabo e musulmano, antagonizzato e demonizzato ai fini della costruzione dello stato sionista.
In tutti questi anni  i Mizrachi sono spesso stati usati  strumentalmente come burattini e truppe d’assalto dalla destra israeliana più estrema, che ne sfruttava il loro complesso di inferiorità nei confronti delle elites israeliane discendenti dagli ebrei dell’Europa “bianca” e soprattutto dell’Europa dell’Est (Askenaziti) al potere. Alcuni Mizrachi che hanno raggiunto posizioni di potere lo hanno fatto incrementando i ranghi della estrema destra.
Per questo, la presa di coscienza dei  profondi legami culturali  e sociali con i loro coetanei arabi e l’ammirazione per la loro rivolta politica è estremamente importante: può  far emergere  una nuova spaccatura di classe nella società israeliana e inserire un cuneo di lotta sociale che crei un fronte di rivendicazioni comuni, sia con gli altri cittadini israeliani arabi, circa il 20% della popolazione, che con le lotte palestinesi contro l’occupazione.  La “cementificazione” della società israeliana contro un comune nemico arabo e palestinese può così cominciare a franare dall’interno.
Stefania Sinigaglia, rete Ebrei contro l’Occupazione (ECO)

Lettera  aperta dei giovani Mizrachi ai loro coetanei Arabi (Jewish Peace News, 25 aprile 2011)
“Ruh Jedida: un nuovo spirito per il 2011”
(tradotta dall’ebraico in inglese da Chana Morgenstern)

“Noi, in quanto discendenti delle comunità ebraiche del mondo arabo e musulmano, del Medio Oriente e del Maghreb, e in quanto  seconda e terza generazione degli ebrei Mizrachi d’Israele, guardiamo con grande esaltazione e curiosità al ruolo di primo piano che uomini e donne della nostra generazione stanno svolgendo con tanto coraggio nelle manifestazioni a favore della libertà e del cambiamento  in tutto il mondo arabo. Noi ci identifichiamo con voi e siamo pieni di speranza per il futuro di rivoluzioni che hanno già avuto successo in Tunisia e in Egitto. Noi siamo egualmente addolorati e preoccupati per le grandi perdite di vite umane in Libia, in Bahrain, in Yemen, in Siria e molti altri luoghi della regione. La protesta della nostra generazione contro la repressione e regimi oppressivi e crudeli, le sue invocazioni di cambiamento, libertà e instaurazione di governi democratici che alimentino la partecipazione ai processi politici, segna un momento drammatico nella storia del Medio Oriente e del Nord Africa, una regione che per generazioni è stata lacerata tra varie forze, internamente ed esternamente, e i cui leader hanno spesso calpestato i diritti politici, economici e culturali dei loro cittadini.
Noi siamo Israeliani, i figli e i nipoti degli ebrei che vissero in Medio Oriente e in Nord Africa per centinaia e migliaia di anni. I nostri antenati, uomini e donne, contribuirono allo sviluppo della cultura di quell’area, e ne furono parte integrante. Quindi la cultura del mondo islamico, i legami multi-generazionali  e l’identificazione con questa regione è una componente essenziale della nostra identità.
Noi siamo parte della storia religiosa, culturale, linguistica  del Medio Oriente e del Nord Africa, sebbene piuttosto ci sembra di essere i figli dimenticati della sua storia: prima di tutto, in Israele, che proietta se stesso e la sua cultura in una terra di mezzo tra Europa e  Nord America. E poi nel mondo arabo, che spesso accetta la dicotomia  tra arabi e ebrei e la visione fantasmatica di tutti gli ebrei come europei, e che ha preferito reprimere la storia degli ebrei arabi  in quanto capitolo minore o persino inesistente della sua storia. Ed infine, tra le stesse comunità dei Mizrachi, che sulla scia del colonialismo occidentale, del nazionalismo ebraico e del nazionalismo arabo, hanno cominciato a vergognarsi del loro passato nel mondo arabo. Di conseguenza, noi abbiamo provato  a fonderci con la corrente culturalmente dominante (della società israeliana), cancellando o minimizzando il nostro passato. Gli influssi reciproci e i rapporti tra cultura araba e cultura ebraica sono stati sottoposti a violente forzature, volte a cancellarli nelle generazioni più giovani, ma testimonianze (di tali incroci) si possono ancora
trovare in molte sfere della nostra vita, comprese la musica, la preghiera, la lingua e la letteratura.
Desideriamo esprimere la nostra identificazione e la nostra speranza in questa fase di transizione, nella nostra generazione, della storia del Medio Oriente e del Nord Africa,  e ci auguriamo che aprirà le porte alla libertà e alla giustizia, ed a una equa distribuzione delle risorse di questa regione.
Noi ci rivolgiamo a voi, nostri coetanei nel mondo arabo e musulmano, e cerchiamo un dialogo leale che ci potrà includere nella storia e nella cultura della regione. Guardavamo con invidia alle immagini che venivano dalla
Tunisia e da Piazza Al-Tahrir, ammirando la vostra capacità di esprimere e organizzare una resistenza civile non-violenta  che ha portato centinaia di migliaia di persone nelle strade e nelle piazze, e che ha infine costretto i vostri leader a dimettersi.
Anche noi viviamo in un regime che  in realtà, a dispetto delle sue pretese di essere “illuminato” e “democratico”, non rappresenta larghe fette della sua popolazione effettiva nei Territori Occupati e dentro i confini  della Linea
Verde. Questo regime calpesta i diritti economici e sociali della maggior parte dei suoi cittadini, sta riducendo le libertà democratiche, e costruisce barriere razziste contro gli ebrei arabi, il popolo arabo, e la cultura araba. A differenza dei cittadini di Tunisia e Egitto, siamo ben lontani dall’avere la capacità di costruire il tipo di solidarietà tra vari gruppi che vediamo nei vostri paesi, un movimento solidale che ci permetterebbe di unirci e di marciare insieme – tutti noi che viviamo qui – nelle pubbliche piazze, per chiedere un regime civile che sia giusto e inclusivo dal punto di vista culturale, sociale ed economico.
Noi crediamo che, in quanto ebrei Mizrachi israeliani, la nostra lotta per avere diritti economici, sociali e culturali, deve basarsi sull’idea che un cambiamento politico non può dipendere dalle potenze occidentali che hanno sfruttato la nostra regione e i suoi abitanti per molte generazioni.  Un vero cambiamento può solo venire da un dialogo intra-regionale e inter-religioso che si riconnetta alla diverse lotte e ai movimenti attualmente attivi nel mondo arabo. Nello specifico, dobbiamo dialogare ed essere solidali con le lotte dei cittadini Palestinesi di Israele che combattono per eguali diritti economici e politici e per l’abolizione delle leggi razziste, e con la lotta del popolo palestinese che vive sotto occupazione israeliana nella West Bank e a Gaza, quando chiede la fine dell’occupazione e l’indipendenza nazionale Palestinese.
Nella nostra precedente lettera scritta in seguito al discorso di Obama al Cairo  nel 2009, noi auspicavamo la nascita di una identità democratica medio-orientale e una nostra inclusione in essa. Ora esprimiamo la speranza che la nostra generazione, attraverso il mondo arabo, musulmano ed ebraico, sia una generazione di ponti rinnovati che travalichi i muri e le ostilità create dalla generazioni precedenti e possa rinverdire il profondo dialogo umano senza il quale non ci possiamo capire: tra ebrei, sunniti, shiiti e cristiani, tra curdi, berberi, turchi e persiani, tra mizrachi e askenaziti, e tra palestinesi e israeliani. Noi facciamo riferimento al passato che abbiamo in comune con voi, per guardare speranzosi ad un futuro in comune.
Noi abbiamo fede in un dialogo intra-regionale, il cui fine sarà quello di riparare e riabilitare ciò che è stato distrutto durante le generazioniprecedenti, come catalizzatore di un rinnovamento del modello Andaluso di una
cultura partecipata musulmano-ebraico-cristiana, se Dio vorrà, Insha’Allah, e di un sentiero che conduca ad un’epoca d’oro per i nostri paesi. Ma una tale epoca non potrà arrivare senza eguali diritti di cittadinanza democratica, eguale distribuzione di risorse, di opportunità, di educazione, eguaglianza tra donne e uomini, senza l’accettazione di ognuno a prescindere dalla fede, razza, posizione sociale, genere, orientamento sessuale o appartenenza etnica.
Tutti questi diritti hanno la stessa importanza nella costruzione della nuova società cui aspiriamo. Noi ci impegnamo a raggiungere questi obiettivi all’interno di un processo di dialogo tra i popoli del Medio Oriente e del Nord Africa, e un dialogo interno tra le diverse comunità ebraiche dentro Israele e nel mondo.

(Seguono una sessantina di firme)

Incontro con Elena Pulcini a cura del Centro Pandora


Venerdì 13 Maggio 2011 - ore 16.00

Sala Nassirya, Piazza Capitaniato - Padova





Libertà delle donne e
cura del mondo

“Essere capaci di cura vuol dire scoprirsi fragili e avere paura per il mondo”


Incontro con

Elena Pulcini
Prof. Ordinaria di Filosofia sociale, Dipartimento di Filosofia, Università di Firenze

Convegno a Ca Foscari 9 Maggio 2011 ore 15,30

Vita in comunità traumatizzate. Conversazioni con...Irfanka Pašagic ´

Università Ca’Foscari
Venezia Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati

Partecipano:
Bruna Bianchi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Gianfranco Bettin (Assessore alle Politiche giovanili e pace, Comune di Venezia)
Donatella Cozzi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Donne in nero di Padova
Serena Forlati (Università di Ferrara)
Giuseppe Goisis (Università Ca’ Foscari Venezia)
Francesco Leoncini (Università Ca’ Foscari Venezia)
Milovan Pisarri (Università Ca’ Foscari Venezia)
Debora Turchetto (Ginecologa e Psicoterapeuta)
Incontro organizzato con la collaborazione del Centro pace del Comune di Venezia
Lunedì 9 maggio 2011
Ca’ Foscari, Aula Baratto
ore 15.30
È prevista la traduzione consecutiva in italiano.

03 maggio 2011

Srebrenica,oltre il trauma

Srebrenica, oltre il trauma
Luka Zanoni - 20.04.2005 – Osservatorio dei Balcani
Il lavoro di Irfanka Pasagic e dell'associazione "Tuzlanska Amica", da anni in contatto con associazioni ed enti locali italiani per sostenere le vittime di Srebrenica e della guerra, nella difficile situazione sociale della Bosnia di Dayton. La storia, le attività, le iniziative in programma per il decennale

Irfanka Pasagic è psichiatra. Dal 1992, con l'associazione Tuzlanska Amica, lavora con le vittime della guerra e dei lager, in prevalenza donne e minorenni. "In BiH ci sono circa un milione e mezzo di persone che soffrono di problemi psichici dovuti alla guerra, il cosiddetto PTSD (Post Traumatic Stress Disorder)…. Per poter fare in modo che le vittime metabolizzino il loro vissuto cerchiamo di trovare il modo di dialogare con loro, di far emergere quanto è accaduto, ma la difficoltà è enorme, soprattutto con le famiglie di Srebrenica. Non riusciremo a risolvere i loro traumi, finché l'esumazione e l'identificazione dei corpi non sarà effettuata".

Di cosa si occupa l'associazione per cui lavora?
Abbiamo iniziato a lavorare nel 1992, con donne violentate e con donne che erano state rinchiuse in campi di concentramento. Ben presto ci siamo resi conto che con loro vi erano molti bambini e non potevamo aiutare le donne senza aiutare anche i loro bambini. Vi erano anche uomini, ma non abbiamo mai avuto alcun progetto specifico su di loro. E' un problema, è difficile reperire fondi per progetti sugli uomini. Senza dubbio sono comunque i bambini la categoria più a rischio, ed è su di loro che stiamo concentrando le nostre attività. Attualmente comunque stiamo lavorando anche con ragazzi di diciott'anni. Sono usciti dall'orfanotrofio ed ora si ritrovano sulla strada: in situazioni drammatiche, molti di loro sono tossicodipendenti.

Considerati adulti ma senza alcuna possibilità di esserlo pienamente?
A diciott'anni non sono in grado di essere indipendenti e per loro trovare un lavoro è praticamente impossibile. E' una nostra responsabilità quella di aiutarli. Molti di loro sono originari dell'area di Srebrenica. Vi sono villaggi dove tutte le case sono state ricostruite tranne quelle dei bambini che hanno perso i propri genitori. E questo di non avere un posto dove questi ragazzi possano vivere è un grosso problema anche per noi come associazione, che proviamo ad occuparci di questi "giovani adulti".

Vi sostiene in quest'attività qualche associazione internazionale?
Grazie alla regione Emilia Romagna siamo riusciti a comperare una casa. Ne abbiamo trovata una proprio a
Tuzla. I ragazzi verranno a vivere qui. E poi cercheremo di avviarli ad una professione. Non si tratterà solo di farli finire la scuola e prendere un diploma, che rischia di rimanere carta straccia, ma vogliamo che imparino una vera professione in modo che nel giro di due anni siano in grado di ottenere un lavoro.

Avete psicologi che lavorano insieme a voi?
Io stessa sono psichiatra, e con l'associazione collaborano anche uno psicologo ed alcuni assistenti sociali. Se serve ci sostiene anche un esperto in legge. In parte la nostra attività si svolge nella casa che abbiamo acquistato, e poi lavoriamo soprattutto sul campo. Andiamo direttamente dalle famiglie, la nostra intenzione è di aiutare la famiglia nel suo complesso. Non solo le madri e le figlie, ma le intere famiglie sono state ferite.

Quali i problemi principali che incontrate?
Vi sono molte famiglie senza uomini. Il sistema patriarcale secondo il quale l'uomo si occupava del mantenimento della famiglia e la donna se ne stava a casa è andato in mille pezzi. Molte donne non si sentono in grado di assumersi anche queste responsabilità "maschili" e noi cerchiamo di dare loro forza e coraggio.

Dal punto di vista psicologico?
In BiH ci sono circa un milione e mezzo di persone che soffrono di problemi psichici dovuti alla guerra, il cosiddetto PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). Vi è un diffuso uso di sostanze stupefacenti, un problema che non vi era prima della guerra. Vi è una situazione sociale molto difficile e seguendo il desiderio di possedere qualcosa molti minori finiscono col prostituirsi. Tutto questo provoca gravi depressioni ed il tasso di suicidi è in aumento.

Vi sono altri progetti con i quali collaborate? Qualcuno che si occupi di questi disturbi anche a livello nazionale?
Sfortunatamente no. L'assistenza psico-sociale è molto scarsa in questo Paese.

Ma a livello nazionale non vi è alcuna strategia per il sostegno delle persone che hanno subito traumi
durante la guerra?
Vi sono molti documenti scritti a livello nazionale, che impostano una sorta di strategia per la Bosnia Erzegovina. Purtroppo sono però lettera morta. Non esiste alcuna strategia effettiva. Vi è anche una grande mancanza di informazione in merito alle perone che soffrono di questi traumi. Abbiamo provato a fare qualche cosa attraverso l'UNICEF in collaborazione con alcune scuole: da questa nostra ricerca volta ad individuare quanti bambini soffrono di problemi psicologici sono emersi dati catastrofici! Vi erano molti bambini che presentavano sintomi preoccupanti, bambini che non erano neppure nati durante la guerra ma che avevano sintomi di cosiddetti traumi secondari. Nelle grosse città vi sono istituzioni ed ONG [organizzazioni non governative, ndr] che si occupano di questi problemi. A Tuzla ad esempio ve ne sono parecchie. Ma basta spostarsi nei villaggi a soli 20 km e non si trova un solo psicologo. Per questo abbiamo deciso di costituire team mobili, sempre sul campo.

A livello pratico come operate? Come aiutate la gente a metabolizzare questi traumi?
Il modo migliore per farlo è attraverso le conversazioni. La gente in questo modo può raccontare ciò che riesce a raccontare, ciò che ha subito, il modo nel quale attualmente rivive il proprio passato. Poi vi sono famiglie i cui cari sono scomparsi. In molti di questi casi non è ancora partita una rielaborazione del trauma. Non riescono sino a quando i corpi dei propri cari non vengono identificati. Tutto è connesso. Vi sono molte situazioni patologiche rispetto alle quali non possiamo che dare il nostro sostegno, senza pensare di riuscire a risolvere il trauma. Poi vi sono anche altri problemi. Ad esempio quando sfollati rientrano nei luoghi dove hanno subito i traumi e dove vi sono ancora criminali di guerra che non sono stati arrestati.

Si tratta di situazioni che si verificano quotidianamente?
Vi è ad esempio una donna con la quale lavoriamo che aveva quattro figli. Sono stati tutti e quattro uccisi. Due di questi dal vicino, che lei ora incontra ogni giorno. In casi come questo non ci si può aspettare che questa donna superi il trauma se in qualche modo non viene riconosciuta la colpa di quell'uomo e quest'ultimo non viene punito per quanto ha fatto.

In che misura riuscite ad avere successo con i vostri interventi?
Il nostro progetto presenta molti aspetti e molti obiettivi che non sono misurabili. Molti dei bambini che seguiamo sono adottati a distanza, dall'Italia. Hanno contatti con le famiglie che li aiutano. Per loro è fondamentale ricevere quest'amore incondizionato e non egoista. E' molto difficile per persone traumatizzate dimostrare il proprio amore, i propri sentimenti. Non possiamo dire che una madre non ami il proprio figlio ma semplicemente non è in grado di dimostrare quando lo ami.

State organizzando iniziative per il prossimo decennale di Srebrenica?
Parteciperemo senza dubbio alle commemorazioni del prossimo 11 luglio. In questo collaboreremo con alcune associazioni italiane e cercheremo di promuovere un'iniziativa nella quale si riesca a parlare dei traumi della guerra e dell'importanza che le vittime conoscano la verità su quanto è accaduto. Parteciperemo anche alla cosiddetta "marcia della morte". Abbiamo inoltre in cantiere il progetto di promuovere un gemellaggio tra gli studenti di Srebrenica e studenti della Scuola internazionale estiva Alex Langer, in modo che possano scambiare idee ed esperienze. Speriamo inoltre per quella data di aver pronto un libro che raccoglierà una serie di scritti dei bambini di Srebrenica in merito a quanto accaduto in quell'atroce 1995.

Una scheda sull'associazione Tuzlanska Amica tratta dal mensile Una città
Tuzlanska Amica è un'associazione nata a Tuzla nell'ambito di una rete internazionale, "Ponti di donne tra i confini", creata nel 1993 dalle donne di Spazio Pubblico di Bologna assieme ad altre donne della ex Jugoslavia. L'obiettivo originario è la creazione di un centro per l'assistenza e la cura delle donne traumatizzate. Di lì a poco Spazio Pubblico e il Gvc lanciano la prima campagna di raccolta fondi per finanziare un progetto ginecologico-sanitario. Le attività cominciano però solo nel settembre 1994 in coordinamento con Bologna e Friburgo. Le principali attività di Tuzlanska Amica consistono in assistenza medica ginecologica e generica, sostegno psichiatrico e terapia psicologica, attività culturali e ricreative per i bambini. Dalle donne l'intervento progressivamente si orienta anche verso i gruppi familiari, assistendo bambini, anziani, disabili.
La situazione più drammatica resta comunque quella delle campagne. Nella maggior parte dei casi infatti i musulmani in fuga da Srebrenica, Zvornik, Bratunac, Bijelijna, Brcko e l'area circostante si sono limitati a occupare le case abbandonate dai serbi, spesso già pesantemente danneggiate, dove ancora oggi sopravvivono in abitazioni prive di porte, finestre, acqua, elettricità e, cosa più grave, completamente isolati e dimenticati. Tra l'altro, in queste zone, la famiglia-tipo è composta da nonni e nipotini, perché la generazione di mezzo è stata decimata dalla guerra. Tuzlanska Amica ha però presto avuto la felice intuizione che i casi più difficili non si sarebbero presentati all'associazione per chiedere aiuto. Bisognava quindi andare a cercarli. Così da qualche anno, in collaborazione con un progetto finanziato da una fondazione olandese, Mala Sirena, è stato allestito un team mobile (assistente sociale, psicologa, medico) che gira per le zone più isolate, individuando i casi più difficili e attivandosi dapprima con un aiuto di tipo umanitario, per poi verificare l'opportunità di un intervento anche psicologico per i componenti più vulnerabili del nucleo familiare, ossia donne e bambini. In realtà non è infrequente che si presentino anche uomini a chiedere aiuto all'associazione. La pulizia etnica che ha colpito la Bosnia ha decimato la popolazione maschile, i superstiti hanno spesso riportato gravi traumi in seguito alla detenzione nei centri di detenzione, alla perdita dei familiari, per non parlare della gravissima frustrazione –parliamo di una società, specie nelle campagne, ancora profondamente patriarcale- per non aver saputo proteggere la parte più debole della famiglia, ossia donne e bambini.

Le donne dell'Aquila

Comunicato unitario contro i bombardamenti in Libia

COMUNICATO UNITARIO DEL “COORDINAMENTO2APRILE” CONTRO I BOMBARDAMENTI IN LIBIA
e prime adesioni a questo appello
con l’invito a far circolare nei propri indirizzari e nelle proprie reti
 
COORDINAMENTO 2 APRILE
Le persone, le organizzazioni e le associazioni che in questo periodo hanno sentito la necessità,
attraverso appelli, prese di posizioni e promozione di iniziative, di levare la propria voce
 
CONTRO LA GUERRA E LA CULTURA DELLA GUERRA
 
PER FERMARE I MASSACRI, I BOMBARDAMENTI E PER IL CESSATE IL FUOCO IN LIBIA
 
PER SOSTENERE LE RIVOLUZIONI E LE LOTTE PER LA LIBERTÀ E LA DEMOCRAZIA
DEI POPOLI MEDITERRANEI E DEI PAESI ARABI
 
PER L'ACCOGLIENZA E LA PROTEZIONE DEI PROFUGHI E DEI MIGRANTI
 
·       CONTRO LE DITTATURE, I REGIMI, LE OCCUPAZIONI MILITARI,
LE REPRESSIONI IN CORSO
 
·        PER IL DISARMO, UN'ECONOMIA ED UNA SOCIETÀ GIUSTA E SOSTENIBILE
 
ESPRIMONO
LA LORO NETTA OPPOSIZIONE AL COINVOLGIMENTO DELL’ITALIA
NEI BOMBARDAMENTI IN LIBIA
 
alla luce
 
dell’articolo 11 della nostra Costituzione
·        del passato coloniale del nostro paese e delle stragi ad esso collegate
 
·        del sostegno e delle armi dati al regime di Gheddafi fino all’ultimo momento
 
·        del non impegno per il cessate il fuoco e l’apertura di corridoi umanitari per i profughi
 
·        della ripresa dei respingimenti dei migranti
 
·        della mancanza di una dignitosa politica di accoglienza
 
·        del silenzio colpevole e gravissimo contro la strage di oppositori disarmati in Siria
 
·        del disimpegno totale sulla transizione democratica in Tunisia e in Egitto
 
·        della complicità con la occupazione militare in Palestina e con l’assedio a Gaza
 
NON C’E’ NIENTE DI UMANITARIO NELLE BOMBE ITALIANE IN LIBIA
C’E’ SOLO LA DIFESA DI INTERESSI ECONOMICI, ENERGETICI, STRATEGICI
 
La popolazione libica schiacciata dalla guerra e dalla dittatura e i popoli di tutto il mondo arabo
hanno bisogno di un’altra politica italiana ed europea
 
METTIAMO IN CAMPO TUTTE LE INIZIATIVE POSSIBILI DI DENUNCIA E SOLIDARIETA’
PER IL CESSATE IL FUOCO
PER DIFENDERE E AFFERMARE DAVVERO
LA DEMOCRAZIA, LA PACE E LA GIUSTIZIA, TUTTI I I DIRITTI UMANI, SOCIALI E CIVILI
 
http://coordinamento2aprile.blogspot.com/
 
Prime adesioni
 
Sud, ACS, Altra Agricoltura, ARCI, Associazione Amici della Mezzaluna Rossa, Associazione Culturale Punto Rosso, Associazione Mediterranea, Associazione Obiettori Nonviolenti, Associazione per la pace, Associazione Rinnovamento Sinistra, Associazione Ya Basta Italia, Attac Italia, Centro Balducci, CIPAX, CISDA, COBAS, Comitato Difesa Scuola Pubblica, Comitato Piazza Carlo Giuliani, Coordinamento Studentesco Universitario, European Alternatives Italia, Fiom-Cgil, Forum Ambientalista, Lunaria, Movimento Nuovi Profili, Rete della Conoscenza, Rete Internazionale Donne per la Pace, Rete Studenti Medi, Senzaconfine, Sinistra Euromediterranea – Rete@Sinistra, Unione degli Universitari, WILPF, Associazione Culturale Casa Rossa – Spoleto, Associazione Yakaar Italia Senegal, Casa per la pace – Milano, Centro Solidarietà Alta Maremma, Comitato Fiorentino Fermiamo la Guerra, Comitato Italia Amig@s Sem Terra, Comitato Pace Rachel Corrie, Convergenza delle Culture, Genova Laica, Genova Popolo Viola, Gruppo Sconfinate, Rete Antirazzista IV Municipio Roma, Stelle Cadenti – Artisti per la pace, Tavola Pace e Cooperazione – Pontedera, Usciamo dal Silenzio e Restiamo Umani –Genova
FdS; PdCI, Prc, SeL, Sinistra Critica
Mimmo Pantaleo, Elettra Deiana, Luciano Favaro, Eugenio Melandri, Silvana Pisa e molti altri.
Per aderire: coordinamento2aprile@gmail.com
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Le madri Iraniane

BARBARA ANTONELLI: LE MADRI DEI TULIPANI A TEHERAN
[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) col titolo "Iran. Le madri dei tulipani"
 
La liberazione dei prigionieri per i reati di opinione, il processo ai responsabili delle incarcerazioni, torture e uccisioni avvenute dopo le elezioni presidenziali del giugno 2009, l'abolizione della tortura e della condanna a morte. Sono queste le richieste delle Madri di Parco Laleh.
Come le Madri argentine di Plaza de Mayo, come le Donne in Nero nate a Gerusalemme alla fine degli anni Ottanta, e le donne curde del Galata Sarai, a Istanbul, con le foto dei loro figli scomparsi. Come loro, le Madri in lutto iraniane, le madri del sabato, non permettono che l'ingiustizia subita dai loro mariti, figli, fratelli venga dimenticata.
Oltre 6.000 iraniani sono stati arrestati a partire dal giugno 2009, secondo i dati diffusi dall'organizzazione Human Rights Watch. Molti di loro rimangono in detenzione senza alcuna specifica accusa.
86 persone sono state uccise dall'inizio del 2011, secondo i dati diffusi da sei organizzazioni in difesa dei diritti umani (tra cui Hrw, Amnesty, Reporters Without Borders). Almeno otto tra quelli uccisi a gennaio erano prigionieri politici, accusati di "moharebeh" cioe' di "ostilita' a Dio".
Maryam Hekmatshoar, attivista iraniana trapiantata in Germania, del gruppo a sostegno delle Madri del Parco Laleh racconta: "Nel 2009 dopo le elezioni presidenziali in Iran, quando si scopri' che quelle elezioni erano state truccate, centinaia di migliaia di manifestanti scesero in piazza a Tehran, e tante donne accorsero per sostenere le Madaran Azadar, le madri in lutto".
Il 20 giugno, Neda Agha-Soltan, una ragazza che manifestava a Tehran, nei pressi del Parco Laleh (il Parco dei Tulipani), durante le proteste duramente represse dalle autorita', fu brutalmente uccisa e la sua morte ripresa da un video amatoriale che ha fatto il giro del mondo. Una settimana dopo le madri che non avevano avuto il permesso di seppellire i loro figli vittime di quelle repressioni, ne' di piangerli, decisero di manifestare in quel luogo, nel Parco dei Tulipani. Contro gli arresti di massa dei dissidenti, contro una politica repressiva che nega alle associazioni e ai movimenti anche di manifestare. Contro chi non ha permesso alle famiglie nemmeno di rivedere i corpi dei propri cari.
Una decisione nata e sostenuta dall'appello di Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace 2003, che nel corso di una manifestazione a luglio del 2009, da Amsterdam, invito' le donne di tutto il mondo a ritrovarsi nello stesso giorno e alla stessa ora, ogni sabato alle 18, in un parco delle loro citta'. Cosi' altre donne in paesi europei si sono mobilitate per dare voce alle Madri del Parco Laleh, organizzando gruppi di sostegno e proteste nei parchi di tutto il mondo, a Oslo, Dortmund, Francoforte, Amburgo, Londra, Parigi, Vienna, Los Angeles. In Italia quell'appello e' stato raccolto dalle Donne in Nero, che a fine febbraio hanno rilanciato una campagna a loro sostegno. "Non solo in segno di solidarieta' - spiega Luisa Morgantini, gia' vicepresidente del Parlamento Europeo - ma perche' ci riconosciamo nella forza che le donne hanno nel respingere la violenza".
Dal giugno del 2009 le madri iraniane, in silenzio, vestite di nero, con in mano i ritratti dei loro figli uccisi o incarcerati si sono radunate ogni sabato. Per mesi. La polizia governativa ha cominciato ad assalirle, maltrattarle, arrestarle ripetutamente, ma loro hanno continuato. A meta' gennaio sempre Amnesty lancio' un appello per la liberazione di 33 madri, malmenate dalla polizia (dieci finirono in ospedale) e incarcerate nel centro di Vozara (a Tehran). Ora le autorita' iraniane hanno deciso che nemmeno la protesta silenziosa e pacifica e' piu' consentita.
"Sono idealmente le madri di tutti gli iraniani, dei condannati a morte, dei torturati, dei prigionieri politici. Non piangono ne' chiedono giustizia solo per i loro figli ma per tutti quelli che sono stati dimenticati, che non hanno nemmeno piu' una madre che pianga per loro", spiega ancora Maryam Hekmatshoar.
Tra le donne iraniane in prigione ancora oggi, ci sono attiviste, avvocate, giornaliste, studentesse. "Come e' avvenuto per una mia stretta collaboratrice - spiega Shirin Ebadi - Nasrin Sotudeh, che conosco da oltre venti anni e che da sempre combatte contro la pena di morte". Nasrin e' in carcere da oltre 6 mesi, condannata a 11 anni di reclusione e 20 di interdizione dalla professione di avvocato. "Nei giorni successivi al suo arresto (avvenuto a settembre 2010, ndr) - continua Ebadi - le hanno chiesto di testimoniare contro se stessa, lei non ha accettato e la persona che la interrogava ha giurato che avrebbe chiesto al giudice di darle piu' di 10 anni di carcere. I tribunali iraniani non sono indipendenti, ma 'a disposizione' degli agenti governativi. Ho presentato il suo caso all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e Navy Pillay ha promesso di dare assoluta priorita' al caso di Nasrin".
In carcere, Nasrin ha rifiutato di mettere la benda sugli occhi per incontrare i suoi familiari, quindi le autorita' le hanno negato tutte le visite; solo a meta' febbraio e' riuscita a vedere i suoi figli, di 4 e 11 anni, per la prima volta da settembre.
"Dopo la Cina, l'Iran e' il paese con il piu' alto numero di pene capitali - spiega il Premio Nobel - negli ultimi due anni le esecuzioni sono triplicate, e tra le persone giustiziate vi sono anche i detenuti politici, tra cui anche minori. In Iran infatti l'eta' della responsabilita' penale e' molto bassa, 15 anni per i maschi e 9 anni per le femmine, questo vuol dire che se una bambina commette un reato, puo' essere giustiziata".
Il sito ufficiale in lingua inglese delle Madri del Parco Laleh e': www.madaraneparklale.org

Documento italiano per il convegno internazionale delle donne in nero -Bogotà Agosto 2011

DALLA RETE DELLE DIN ITALIANE: MILITARIZZAZIONE E PRATICHE DELLE DIN

La situazione italiana

Malgrado l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”), l’Italia è un paese in guerra che combatte fuori dai propri confini, come in Kossovo, in Afghanistan e ora in Libia. L’Italia fa parte della NATO, e va ricordata la gravità della trasformazione degli scopi dell’alleanza fatta col trattato del 1999, che ha spostato la strategia da difensiva a offensiva, l’ha allargata a tutto il mondo ed estesa agli interessi (economici, energetici ecc..), con diritto di difenderli se minacciati. Questa appartenenza vincola e impone, insieme all’adeguamento di eserciti e armamenti, l’espropriazione dei territori destinati a basi e comandi militari, l’uso militare di porti, aeroporti e ferrovie, e anche una politica estera di uso della forza per i propri interessi, esercitando così una forma di dominio del mondo e una continua minaccia per la pace.
L’Italia è un paese in crisi economica e politica: insieme a una distribuzione sempre più disuguale della ricchezza, assistiamo all’attacco alle istituzioni democratiche e ad una fortissima spinta all’accentramento del potere nelle mani del governo, insofferente di ogni controllo democratico. “Il potere è in mano a persone di sesso e/o di mente maschile sovente impreparate e attente soprattutto a interessi propri o di cricca troppo spesso sporchi e dannosi. Elementi evidenti di questa situazione sono il totale disinteresse dei governi verso la società e l’ambiente – e il conseguente degrado dell’una e dell’altro; la riduzione dei diritti di molte/i per favorire i privilegi di pochi; la criminalizzazione dei diversi (dai migranti, ai rom, a chiunque dissenta) e l’impunità dei potenti, la precarizzazione di chi lavora e la marginalizzazione sempre più spinta delle fasce deboli.

La militarizzazione

Vi sono fatti molto espliciti, come l’aumento delle spese militari, che è contemporaneo ai tagli degli investimenti per salute, istruzione, assistenza, previdenza, ambiente, cultura; il nostro paese è oggi all’ottavo posto al mondo per le spese militari ed è impegnato in 27 missioni all’estero.1 In Italia vi sono 110 basi militari USA/NATO, anche con testate nucleari, e se ne costruiscono di nuove, come a Vicenza. La presenza militare contamina l’ambiente nei luoghi di guerra, ma anche nelle basi militari, nei poligoni di tiro, nel cielo e nel mare. L’Italia è coinvolta nella produzione, vendita e traffico di armi (al 10° posto per l’esportazione) anche verso paesi in conflitto del sud del mondo, facilitato da accordi bilaterali di cooperazione in ambito militare e della sicurezza, come quelli con Israele e con la Libia.
Vi è anche una militarizzazione interna: si militarizzano le coste e le frontiere; la paura e l’ostilità per la pressione migratoria rendono disumana e feroce la repressione dei migranti e il Mediterraneo diventa area di conflitti e sempre di più una tomba per coloro che fuggono da povertà e guerre – di cui spesso siamo responsabili.
Questo modello militare repressivo è adottato anche per la “sicurezza” interna: ad esempio l’esercito viene usato in funzione di ordine pubblico nei mercati cittadini; le sterminate discariche della zona di Napoli sono sorvegliate da militari, interdette ai cittadini come zone militari, coperte da segreto militare; il dissenso viene represso e trattato come problema di ordine pubblico. Insieme alle telecamere installate nelle nostre città, la deplorevole situazione di monopolio e censura dei mezzi di comunicazione di massa ci ricorda ogni giorno che siamo cittadine a diritti limitati.
Per militarizzazione non intendiamo solo la presenza di militari, armi, basi; pensiamo anche alla militarizzazione delle menti. “La parola sicurezza viene ripetuta ossessivamente nei giornali, radio, televisioni, nei discorsi ufficiali; gli uomini e ancor più le donne, dovrebbero guardarsi dagli altri, gli immigrati, i musulmani, i rom e sentire solo un incontrollato sentimento di paura, gestibile col tenere lontano il diverso da sé, in particolare con l’uso della forza, meglio se armata. La legittimazione dell’uso della forza è anche per difendere le donne dal barbaro invasore, mentre è in forte aumento la violenza domestica contro le donne e le bambine/i. insieme a un progressivo sgretolamento dei principi fondativi di uno stato che costituzionalmente si definisce laico, vediamo un ruolo sempre più invasivo della chiesa cattolica in ambito scolastico e assistenziale, con una pesante influenza sulle scelte in merito alla bioetica e leggi che tendono a imporre il controllo sul corpo delle donne e a ridurne i diritti acquisiti e l’autodeterminazione.
Si diffonde - attraverso parate militari, interventi dell’esercito nelle scuole, l’uso sempre più diffuso di una retorica e un linguaggio nazionalisti e militaristi - una cultura di guerra che ritiene normale, anzi giusto se non eroico, il ricorso alle armi. Si avvalla così un processo di normalizzazione della guerra. Chi, come noi, vive in Occidente lontano dai luoghi di conflitto armato, non vede le sofferenze altrui, il martirio di intere popolazioni ed ha una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre.

Le nostre pratiche

In questa fase del nostro percorso politico ci siamo accorte di non poterci dedicare esclusivamente ai temi e alle pratiche finora percorse ma di doverci occupare del nostro paese insieme alle donne di altre associazioni e collettivi, insomma abbiamo assunto la consapevolezza che il nostro è diventato simile ai “luoghi difficili” ai quali abbiamo rivolto la nostra attenzione in tutti questi anni. Malgrado le difficoltà della situazione economica e politica attuale, malgrado la crisi dei movimenti pacifisti, pur consapevoli di essere minoranza, continuiamo con le nostre pratiche radicando le nostre azioni a partire dalla realtà in cui viviamo; la nostra pratica politica si basa sul partire da sé e sulla rilettura delle nostre esperienze confrontate insieme alle donne del gruppo e della rete, anche attraverso riflessioni suscitate da letture condivise: cerchiamo di sviluppare un libero pensiero che si origina dal desiderio di ogni donna di darsi parola oltre l'insignificanza nella quale è stata obbligata.
Oltre alle uscite periodiche con volantini organizziamo interventi nelle scuole o rivolti alla cittadinanza, per denunciare, fare informazione, educare, in special modo attraverso testimonianze dirette. Cerchiamo di riprendere spazi di parola, che sempre di più si stanno restringendo, e dare voce soprattutto a donne che cercano la pace. Cerchiamo di fare rete e costruire percorsi condivisi con altre organizzazioni o gruppi, in particolare di donne ma anche misti, con cui condividiamo obiettivi parziali o generali: si creano in questo modo relazioni e scambi importanti e duraturi, come il rapporto con le donne di Vicenza che da anni si impegnano contro la costruzione della nuova base militare, o quello con le donne e gli uomini che a Napoli e nei dintorni lottano per impedire la devastazione del proprio territorio (e della propria salute) imposta, manu militari, da una dissennata e illegale gestione dei rifiuti di mezza Italia o il movimento che a Novara sta lottando per contrastare la produzione dei cacciabombardieri F35.
I temi di cui ci occupiamo: protestiamo contro l’aumento delle spese militari, l’industria bellica, le missioni militari camuffate da interventi umanitari e/o missioni di pace, il continuo ricorso a soluzioni militari di fronte a situazioni conflittuali (vedi ora la Libia), la militarizzazione del territorio, le politiche securitarie, i respingimenti dei migranti che cercano di raggiungere il nostro paese e la riduzione del problema dei migranti a un problema di ordine pubblico. Denunciamo anche la violenza contro le donne, e riflettiamo sul linguaggio, denunciando la pericolosità del linguaggio maschilista e sessista. Cerchiamo relazioni di convivenza e accoglienza, partecipazione, solidarietà. Cerchiamo di essere responsabili e di prenderci cura di questo nostro mondo, con la difesa dell’ambiente e dei beni comuni, con il rifiuto del nucleare (civile e militare) e diciamo NO ALLA GUERRA e NO AL LIBERISMO.