Continuare a pensare
di Patrizia Brunori
Quando sono stata invitata da Andrea Scartabellati a partecipare ad una riflessione interdisciplinare e a più voci per la rivista DEP, a partire dalla esperienza in Bosnia –Erzegovina, narrata nel testo scritto con altre colleghe,1 ho provato un profondo interesse e ho pensato che si stava realizzando uno degli obiettivi più significativi. I pensieri e le riflessioni che avevamo avviato sui traumi psichici nei contesti di guerra, sulla loro possibilità di elaborazione quando il contesto sociale è lacerato, frammentato, esso stesso violentemente traumatizzato, permettevano altri pensieri e riflessioni, dando vita a quella pluralità di voci e di vertici di osservazione, che è tanto più significativa quanto più il tema è complesso.
Il destino dei traumi psichici nei contesti di guerra è infatti soggetto al rischio dell’emergenza del fare, nelle prime fasi, e dell’oblio poi.
Nella psicoanalisi gli interessi per la guerra risalgono agli inizi del ‘900. La ricerca e la riflessione seguono fin dall’inizio due aree: quella più vicina alle esplorazioni filosofiche ed antropologiche riguardanti i modelli interpretativi del fenomeno guerra e quella più vicina alla psichiatria, relativa alla comprensione dei traumi psichici nelle situazioni estreme e alla loro cura. Entrambe queste aree di studio e d’applicazione alternano periodi d’intensa proliferazione a periodi più silenti. Questo appare collegato alle situazioni storiche e politiche che attraversano il ‘900, fino ai giorni nostri in cui c’è un forte interesse della comunità psicologica e psicoanalitica sul trauma e sulla distruttività.
Il problema degli assetti e dei modelli di cura quando i traumi sono individuali ma anche collettivi; della neutralità terapeutica; della trasmissione transgenerazionale nelle realtà di catastrofe sociale2; degli interventi umanitari; della formazione e protezione della salute psichica degli operatori umanitari; della relazione con gli operatori del luogo; della transculturalità necessitano di una articolata riflessione.
Tutti questi temi, e altri sono stati ripresi con profondità e attenzione negli interventi proposti in questo spazio aperto di riflessione.
Il progetto del libro Traumi di guerra è nato nel gruppo: un gruppo interdisciplinare e transculturale di colleghe bosniache e italiane. Noi - gruppo di colleghe di Bologna - abbiamo avuto il privilegio di avere spazio e tempo per condividere, pensare, ricordare , elaborare e scrivere la nostra lunga esperienza.
La scrittura corale del libro, che è durata più di un anno è stata per noi uno spazio necessario di elaborazione e di riflessione. Scrivere coralmente ha significato essere in gruppo, ri-pensare, ri-narrare.
Infatti come sottolinea Angeli3 un evento traumatico collettivo avrà la necessità di transitare per più contenitori, e predisposti a diversi livelli di sensibilità, per tentare di essere elaborato.
La scrittura, che era scaturita fluente fino a che era stata sostenuta dalla narrazione dell’esperienza e testimonianza del lavoro delle colleghe bosniache durante la guerra, era diventata difficile quando procedevamo verso riflessioni sul modello teorico che aveva sostenuto l’esperienza e sulle riflessioni psicoanalitiche sul trauma da violenza sociale. Molti erano stati i dubbi e gli interrogativi, abbiamo provato ad elaborarli, abbiamo deciso di pubblicare le nostre riflessioni fin dall’inizio: i nostri viaggi da Bologna a Tuzla , dall’interno all’esterno, dall’individuale al gruppo , perché abbiamo pensato che la narrazione che ne scaturiva fosse tutto materiale clinico con molte aree insature su cui continuare a riflettere. Sono proprio queste aree insature che spesso vengono colte dallo sguardo esterno e rimandano altri punti di vista, suscitano interrogativi, propongono e permettono altre riflessioni. Così la presentazione del libro in vari contesti: dai gruppi dei colleghi, alle associazioni non governative, ci ha dato molti stimoli teorici e clinici e ha permesso di continuare a pensare.
In questa sede vorrei proporre alcune riflessioni, attorno al tema della transculturalità e del gruppo che mi sono state stimolate particolarmente dall’intervento di Mary Abed.
In questi anni, probabilmente proprio per la complessità di questa esperienza e per la complessità del contesto in cui tutti viviamo, un contesto che ci propone quotidianamente l’incontro con l’alterità, ho sentito l’esigenza di addentrarmi anche nelle le riflessioni che ci vengono dall’etnopsicoanalisi.
Concetti quale quello di identità, cultura, multiculturalismo, complessità multietnica, realtà di migrazione, esilio, guerre etniche, traumi psichici e sofferenze di identità in contesti di violenza sociale ci impongono di pensare sia come persone sia come professionisti della salute psichica alla dimensione perturbante e creativa dell’alterità. Kristeva4 sottolinea come l’incontro con l’alterità costringe a confrontarci con l’estraneo presente in noi stessi, dimensioni rimosse, negate, nascoste responsabili delle sensazioni di inquietante estraneità.
Come abbiamo incontrato l’alterità culturale, etnica, esperienziale delle colleghe bosniache? Abbiamo rischiato di appiattirci, come indica problematicamente Mary Abed solo sul paradigma del trauma psichico, di cui padroneggiavamo il linguaggio?
Io credo che la dimensione del gruppo ci abbia permesso di stare nella transculturalità. Nel gruppo è più facile farsi un’idea della propria identità come molteplice; non soltanto per la presenza di più persone ma anche per la poliedricità del pensiero che nel gruppo si sviluppa. Possiamo immaginare quindi lo spazio gruppale come luogo ectopico5 “in esso è possibile che un topos o un insieme di topoi siano organizzati come patrimonio comune da cui ognuno può attingere quella parte di conoscenza di sé e dei suoi oggetti personali e specifici che nel passato erano a lui misconosciuti o non proposti in un codice di chiara pensabilità. Ad esempio, tradurre un’emozione in un pensiero o viceversa, quando il proprio pensiero è accolto da un pensatore”6.
L’etnopsicoanalista Moro7 sottolinea come la relazione terapeutica si basa sulla condivisione di impliciti culturali, quindi quando l’altro appartiene ad un'altra cultura c’è la necessità di costruire ciò che d’abitudine è primario ed implicito, il contenitore stesso dell’interazione, un contenitore attento e sensibile alla dimensione culturale. Infatti ogni cultura definisce le categorie che permettono di leggere la realtà e di dare un senso agli avvenimenti. Le rappresentazioni culturali che ne derivano costituiscono l’interfacccia tra l’interno e l’esterno e permettono l’esperienza soggettiva. All’interno dei sistemi culturali, sempre straordinariamente complessi e sempre in movimento, scrive Moro, bisogna identificare quale siano gli elementi utili per comprendere e curare la sofferenza psichica in situazione transculturale. Sono tre i livelli da esplorare con maggiore attenzione. La dimensione ontologica, cioè quale è la rappresentazione della natura dell’essere, la sua identità; la dimensione eziologia, cioè il senso da dare al disordine della malattia; le logiche terapeutiche. Due sono i paradigmi che vengono identificati come strutturanti l’intervento terapeutico: il complementarismo cioè la complementarietà di più discipline, con i propri strumenti conoscitivi, nella lettura di un fenomeno; e il decentramento culturale cioè quella capacità di cogliere la logica intrinseca della narrazione fatta dall’altro, soprattutto quando l’altro proviene da un paese diverso ed è quindi portatore di universi simbolici e culturali differenti. Una posizione interiore, intellettuale, emozionale, corporea che viene protetta e promossa dalla presenza del gruppo. Il de-centramento presuppone che si accetti di moltiplicare i riferimenti di lettura di un fatto e che si cerchi di co-costruire con l’altro questa lettura possibile. Nella clinica transculturale alcuni parametri sembrano essere stabiliti: la necessità di un gruppo di terapeuti, l’importanza di poter usare la propria lingua madre, quindi la presenza del traduttore. Infatti la conoscenza culturale condivisa permette di esprimersi per sottintesi e impliciti, la sonorità del linguaggio è significativa. Infine la necessità di partire dalle rappresentazioni culturali del paziente. Il gruppo dei terapeuti poi costituisce l’esperienza più creativa per poter analizzare il controtransfert culturale: “ alla fine di ogni seduta il gruppo si sforza di mettere in luce il controtrsfert di ogni terapeuta, con una discussione sulle emozioni provate da ognuno, sugli impliciti, sulle teorie che hanno condotto a pensare una data cosa….”8
Ripensando al nostro percorso ritrovo molte affinità con gli assetti transculturali, in questa ottica possiamo dire che noi eravamo in un assetto metaculturale9.
Non avevamo allora conoscenza di questa complessità ma l’esperienza psicoanalitica nella sua dimensione più profonda, l’esperienza psicoanalitica vissuta nella propria analisi personale, in quella di gruppo, nei percorsi formativi di gruppi esperienziali e supervisioni. Tutte esperienze basate sul rispetto dell’altro, sulla discrezione dell’ascolto e delle domande, sull’interesse alla possibilità della mente di pensare e di esperire emozioni vere, sulla fiducia di potersi addentrare nelle zone più inquietanti e spaventose, perché sostenuti da una presenza rassicurante, ci hanno permesso di addentrarci in territori sconosciuti di inquietante alterità, di pensieri, di esperienze, di teorie, di vissuti. La modulazione dell’esperienza di gruppo e nel gruppo ci ha permesso credo, quella attenzione al decentramento, al complentarismo dei linguaggi e all’analisi del controtransfert culturale.
La distruttività che la guerra comporta è un’effrazione specifica della psiche che non può essere pensata solo come una vicenda intrapsichica. Il gruppo, visto da questo vertice di articolazione, ha cercato di ricreare il “quadro” sociale lacerato, frantumato e disorganizzato. L’attenzione al gruppo appare tanto più necessaria quanto più l’identità individuale è stata frammentata e distorta nei suoi legami di appartenenza sociale.
Nella nostra esperienza sono diversi i gruppi che si intrecciano fin dall’inizio e che permettono di creare contenitori affidabili in cui portare domande e bisogni.
Il primo gruppo è quello Istituzionale e Politico: “Spazio pubblico”, depositario primo delle angosce, del caos, dei bisogni di operatori e istituzioni sconvolti dalla guerra , un gruppo che permette che un gruppo di medici, psicologi e psichiatri – all’inizio solo donne - del luogo organizzino il loro lavoro a Casa Amica. Una casa, un contenitore concreto ed un contenitore mentale a cui si possono rivolgere le donne ed i bambini traumatizzati nel corpo e nell’animo dagli orrori che hanno vissuto. Il problema nella realtà di questa guerra interetnica è che l’espulsione del pensiero negativo non è seguito dal sollievo, ma dalla conferma nella realtà esterna di una situazione di fame, di morte , di violenza, di perversione, di insensatezza.
Poter pensare nel gruppo e raccontare è stato per i pazienti, è stato per le colleghe, un primo momento di trasformazione.
Abbiamo visto lo sforzo delle colleghe di Tuzla di pensare insieme per affrontare il trauma psichico individuale e collettivo. Con acuta sensibilità Nicoletta Goldschmidt scrive “Il gruppo bosniaco ha trovato una prima risposta: un luogo e un tempo per la cura, per prendersi cura, Casa Amica, un luogo sicuro e i gruppi terapeutici con la loro periodicità…”
Il terzo gruppo è quello che nasce dal nostro incontro con le colleghe di Tuzla , un gruppo per contenere un gruppo. In quel contesto, abbiamo cercato di fare un lavoro mirato a restituire il senso di un’esperienza , di ricostruire trame narrative che permettono di vedere nuovi punti. Quando la violenza ha toccato il cuore dell’identità sociale e personale, l’esperienza del trauma da guerra rimane intangibile, il trauma rimane lesione irreparabile ma il sollievo dato dalle narrazioni individuali e collettive nasce da una sorta di scongelamento del pensiero stesso attraverso il contatto con menti o contenitori capaci di accogliere e restituire calore.
Nei gruppi c’erano le voci delle donne , dei bambini e adolescenti dei casi clinici, delle terapeute e dei terapeuti, la coppia mista, le diverse nazionalità e religioni. Il gruppo come microcosmo che contiene e riflette il macrocosmo. Nella presentazione e discussione dell’esperienza clinica dei colleghi bosniaci, nei riferimenti alle storie personali, esperienze segnate da lutti e cambiamenti, abbiamo colto difficoltà e rischi assieme a uno sforzo continuo di trovare le parole, di costruire ipotesi.
Mary Abed si pone la domanda se si può essere contemporaneamente terapeute e pazienti e indica il rischio di una ambiguità: “ le terapeute bosniache, mentre assumono il ruolo di mediatrici linguistiche, in senso lato culturale, nel medesimo tempo chiedono aiuto anche per se stesse. Hanno vissuto e vivono regolarmente il dramma quotidiano della guerra, della fame, della povertà e , soprattutto, dell’insicurezza fisica e psicologica - pensiamo ai bombardamenti indiscriminati. In riferimento ai diversi modelli analitici, si può essere contemporaneamente terapeute e pazienti?”
La risposta è si, nel senso che solo attraverso la consapevolezza e l’oscillazione continua tra il proprio mondo interno e quello dell’altro, il perturbante dell’alterità nel setting terapeutico può essere pensato.
Noi stesse abbiamo attraversato momenti di accecamento, di dubbio, di inadeguatezza, di impotenza. Come dice Corrao: “nel gruppo, la funzione interpretativa non è necessariamente inserita nel conduttore o in uno dei suoi membri, ma è connessa al sistema, nel senso che questo sistema si costituisce come un contesto autointerpretantesi in modo continuo o discontinuo…gli eventi del gruppo sono polidimensionali”10.
Il gruppo ha condiviso l’angoscia di un trauma presente, invasivo e contagioso quale un trauma di massa può essere, e ha cercato parole e ha sopportato silenzi. Noi eravamo nel gruppo, ma eravamo anche l’altro che può condividere e portare “fuori”, ed immettere in circoli comunicativi e quindi vitali ciò che poteva rimanere chiuso nella solitudine ed inabissarsi nel silenzio. Dopo ogni viaggio ci siamo confrontate con le diverse sensazioni ed emozioni che ci avevano abitate: come se in quelle particolari situazioni fosse necessario un orientamento che rischiavamo ad ogni viaggio di perdere. E ci siamo a volte perse ma, come sottolinea Neri a proposito di momenti perturbanti nel gruppo: “se però si tollera lo smarrimento e la confusione, sufficientemente a lungo, continuando ad associare e a pensare, emergeranno nel gruppo una nuova direzione ed un nuovo senso.”11 Con queste modalità di accecamento e disorientamento, di attenzione e memoria, abbiamo cercato di addentrarci nella catastrofe per sostenere esperienze di pensabilità, di trasformazione e di coesione in quella oscillazione tra la funzione elaborativa individuale e quella gruppale, che come scrive Corrente: “permette lo strutturarsi di un campo dove potranno essere accolti gli eventi e svilupparsi le trasformazioni analitiche attraverso le quali approdare alla costruzione di un contenitore gruppale adatto a ri-significare le esperienze vissute: quella storia unica e particolare che ogni gruppo genera.” 12
Le trasformazioni avviate e sostenute nel campo del gruppo e sostenute dal pensiero di gruppo proseguiranno per ognuno con modulazioni proprie. A volte è necessario un tempo lungo perché un pensiero, una parola nuovi permettano la pensabilità dell’esperienza. Come abbiamo scritto: “Allora chi ascoltava non poteva far altro che aspettare e contemporaneamente andare a proprie differenti esperienze che potessero fare da “ponte” senza confondersi le une nelle altre. Abbiamo cercato di costruire un legame con persone lontane, geograficamente e non solo, caratterizzato da un continuo rimando di pensieri ed emozioni per cominciare a rappresentare anche la novità di nuove situazioni sociali ma anche psichiche”13.
Non possiamo che avere la speranza che le idee e i pensieri continuino a nascere e a scambiarsi in modo da mettere in luce ciò che, in altri momenti, ancora non poteva essere pensato.
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