Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

30 maggio 2013

2 GIUGNO : FESTA DELLE FORZE ARMATE? N0, GRAZIE!



Il 2 giugno è la festa della Repubblica; questa festa ormai da anni non appartiene più a noi, donne e uomini di questo paese, ci è stata espropriata e trasformata in una parata militare, che non ci rappresenta e ci rattrista.

Ma la Repubblica siamo noi: il 2 giugno è la nostra festa: festeggiamo le origini della nostra Costituzione repubblicana che all’articolo 11 ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Perché allora dovremmo celebrare il 2 giugno con l'esibizione e l'esaltazione delle Forze Armate, facendo prevalere una immagine militarista di questa Repubblica, nata dall'impegno di tante donne e tanti uomini perché alle guerre, massacri e distruzioni venisse detto “Mai più”.

Il carattere militarista non è purtroppo soltanto simbolico, ma è una realtà concreta molto presente sul nostro territorio. In Italia ci sono:
-      111 basi militari USA e NATO.
-      70 testate nucleari, nelle basi  USA di Aviano e Ghedi.
-      30.000 militari USA.
-      La spesa militare è di 70 milioni di euro al giorno.
-      L'Italia partecipa a 24 operazioni militari in 18 paesi del mondo.

Per questo vogliamo un 2 giugno diverso, smilitarizzato,  in cui fare festa come cittadine e cittadini di:

-       un paese diverso, accogliente, fondato sul rispetto, l’ascolto e il riconoscimento reciproco tra uomini e donne, tra native/i e migranti, tra “noi” e “gli altri”;

-       un paese in cui le donne in quanto donne non debbano temere per la loro vita;

-       un paese in cui i/le giovani possano avere un futuro e le persone anziane una vita dignitosa e serena;

-       un paese in cui i beni comuni - aria, acqua, terra, energia, il patrimonio storico, artistico e culturale, l'ambiente naturale, il paesaggio
- restino fuori dalla logica di mercato;

-        un paese che sappia affrontare i conflitti, interni e internazionali, senza ricorrere all’uso della forza;

-       un paese che investa non nelle armi e nella guerra, ma nella cultura, la scuola, la salute, l’occupazione.

APPUNTAMENTO IN PIAZZA DELLE ERBE A PADOVA ALLE 10.00

Donne in Nero
Associazione per la Pace     
                                                                     
http://www.facebook.com/MilleeMillePensieriControLaGuerra

PERCHÉ RICORDARE IL 2 GIUGNO?


16 maggio 2013

PACE E GUERRA DA UN PUNTO DI VISTA FEMMINISTA


Dopo Paestum, una proposta di dialogo

Perché vi scriviamo

A inizio aprile la rete nazionale delle Donne in Nero si è incontrata a Roma e il primo tema di cui abbiamo discusso è stato “Pace/guerra da un punto di vista femminista”, questione che è al centro di tutta la nostra storia, delle nostre riflessioni e delle nostre pratiche, ma che ci si ripropone sotto diverse luci a seconda degli aspetti da cui volta per volta ci sentiamo più immediatamente interrogate.
Nel caso del dibattito romano, la decisione di inserirla nel programma dei lavori è maturata a partire dall’anno scorso, grazie al convegno di Paestum e alla vivacità dei confronti che si sono accesi prima, durante, dopo l’incontro e che continuano tuttora. Molte di noi sono state coinvolte nelle riunioni tenutesi in varie città durante il percorso di preparazione, molte hanno partecipato al convegno, molte ne hanno discusso nelle riunioni successive. C’è stata chi – non potendo andare a Paestum – ha segnalato ad altre, che invece andavano, la mancanza totale nel documento preparatorio di qualsiasi accenno al tema della guerra; c’è stata chi è andata e avrebbe voluto introdurlo, almeno nei lavori di gruppo, e non ne ha trovato lo spazio; ma ci sono anche stati casi in cui nelle discussioni preparatorie siamo state sollecitate ad occuparcene noi, quasi si trattasse di una competenza specialistica e ce ne venisse affidata la delega.
Ci sono parse difficoltà inquietanti e abbiamo provato il desiderio di chiarire – prima di tutto tra di noi, ma anche nelle relazioni con altre – che cosa significhi per noi il rapporto tra femminismo e antimilitarismo. Negli scambi al nostro interno si è sviluppato un confronto complesso, che ha indotto ad approfondimenti significativi attorno a nodi su cui si era magari data per condivisa una certa posizione e si scopriva invece che le sensibilità e gli orientamenti differivano, sin dalla individuazione di quale sia l’aspetto che ciascuna sente più incalzante rispetto a pace e guerra e sin dalla scelta delle parole per esprimere i diversi sguardi: antimilitarismo femminista? femminismo e guerra? donne e guerra? le donne soldato ci riguardano? e ci riguardano le violenze maschili da cui tanto spesso sono colpite?
Per mesi ci siamo scambiate messaggi, a Roma ne abbiamo ragionato insieme per alcune ore e abbiamo concordato di scrivervi, per proporre un confronto che riteniamo possa interessare il dibattito del “dopo Paestum”. Ci è anzi difficile rivolgerci a “voi” come se foste altre da “noi”, perché l’orizzonte dei femminismi ci accomuna; desideriamo piuttosto accennarvi le ragioni che a nostro parere rendono irrinunciabile – e necessario per tutte, proprio in quanto femministe – misurarci con guerre, armi, militarismi e soprattutto culture che hanno interiorizzato e continuano a riproporre tutto ciò come una dimensione immutabile dell’esistente.
Quindi, grazie per avere promosso e condotto l’iniziativa di Paestum, che ha ridato a tutte una grande vitalità, nell’incontro tra donne differenti per età, storia di vita, interessi; e grazie per mantenere aperti gli scambi virtuali e reali, nei confronti che avvengono in rete e nelle riunioni organizzate in varie città. Questo che vi proponiamo è appunto un contributo, attorno a una questione che riteniamo ci riguardi tutte e su cui perciò vorremmo che altre si esprimessero.

“Pace/guerra da un punto di vista femminista”

Dalla relazione che è stata fatta sull’incontro di Roma, riportiamo la parte relativa alla discussione su questo tema; costruita per punti, fornisce una sintesi che attraversa i vari interventi.

Femminismo pacifista: tema delegato a noi DIN?
L'incontro di Paestum ha coinvolto parecchie di noi: negli incontri preparatori in diverse città, nella partecipazione, negli incontri successivi.
A Torino, avendo notato l'assenza assordante del tema della guerra siamo state sollecitate a occuparcene noi, DIN: una sorta di delega alle addette ai lavori che ci ha fatto pensare. Abbiamo quindi proposto alle altre donne della Casa delle Donne, in cui si erano svolte le discussioni su Paestum, di parlarne insieme. Ecco alcuni spunti dagli interventi delle nostre amiche: elaborare su questo tema ci provoca dolore; è una cosa troppo grossa, non ce la faccio; mi sento estranea...
Anche diverse donne che partecipano con noi alle uscite si sentono di supporto; condividere è un'altra cosa, quando la pratica e le parole crescono insieme.
Eppure ci sembra che la decostruzione del patriarcato sia radice del femminismo; come non sentire come fondante la questione della guerra? La cultura patriarcale così diffusa pervade anche molte donne? Ci si rassegna all'esistente? Cosa è cambiato?

Cosa è cambiato?
Partiamo da noi, come sempre. Dalla nostra storia, dalle pratiche di relazione, dai nostri desideri, dai nostri percorsi di libertà femminile intrecciati alle pratiche di relazione, sostegno, denuncia, controinformazione; dai valori di pace come bene comune, dignità, decostruzione del nemico, nonviolenza; con lo scopo di attivarci permanentemente per elementi di pace, nella tutela dell'ambiente come nella denuncia delle spese militari, nella ricerca della nostra specificità nella politica come nel contrasto del femminicidio; nel nostro paese in crisi e sofferente, diventato ormai un “luogo difficile”.
Parliamo anche delle nostre difficoltà: siamo stanche, stiamo invecchiando, i nostri gruppi si assottigliano e non c'è ricambio di donne giovani; certo, siamo riconosciute e apprezzate nei nostri ambiti, ma come icone.
I molti femminismi, ancora attivi, non mettono in relazione la guerra con la violenza contro le donne, di cui molte si occupano; le giovani hanno modalità e ambiti di attivismo diversi e spesso misti; la partecipazione alle nostre iniziative sulle guerre rimane sporadica, a volte scarsa, spesso sentiamo come non incisive le nostre attività.

Cultura di guerra
Ci guardiamo intorno, nel nostro paese e non solo, per riconoscere le forme / le maschere che patriarcato e militarismo hanno assunto, avvolgendoci in una pervasiva cultura di violenza e di guerra, diventata ovvia e quasi invisibile.
  • I conflitti si risolvono con la forza; la guerra è il punto massimo dei conflitti; la legge del più forte è quella vincente; chi vince ha sempre ragione.
  • La militarizzazione e le forme militari sono presenti in ogni ambito: legale (pensiamo alla militarizzazione del territorio de l'Aquila, e alle discariche nel napoletano, e alla Valle di Susa...) o illegale, come la struttura della camorra; non si tratta solo dell'esercito.
  • L'uso della forza e della violenza è tollerato dalle istituzioni: dalla violenza domestica, che ben poco viene contrastata, a quella delle forze dell'ordine, spesso impunita. La cultura dominante è una cultura di guerra.
  • La degenerazione dei rapporti di convivenza è tangibile: siamo un paese in guerra, ma alla guerra si danno nomi che la negano - “missioni di pace”, “interventi umanitari”. E tutto si giustifica in nome della “sicurezza”.
  • La denuncia dei costi degli F35 e dei vari sprechi militari ci riesce utile per stabilire una relazione più immediata con chi ci incontra, ma noi non ce ne sentiamo soddisfatte, la sentiamo come una riduzione un po' strumentale.
  • Le conseguenze della guerra sono taciute o negate, dall'inquinamento del territorio ai morti per uranio impoverito, fino alla mostruosa quantità di soldi sprecati.
  • La crisi è a sua volta conseguenza e forma della guerra: guerra economica, contro i/le deboli, gestita con la violenza dei dictat economici e della repressione del dissenso, come in Grecia.

Noi che non fummo a Paestum – e noi che ci fummo

Se alcune tra noi hanno partecipato al convegno dello scorso ottobre e molte no, tutte ci riconosciamo nel partire da sé come femministe che ne è stata l’anima, nell’affermazione che l’esperienza personale “è già politica” (come è stato scritto dalle promotrici dell’incontro), nel vivere quella femminista come una “rivoluzione necessaria”. In questo senso il nostro desiderio di essere partecipi di una simile “sfida” non dipende dall’essere state a Paestum oppure no, ma dalla tensione a fare sì che anche attorno al nodo che ci appare cruciale – confrontarci da femministe con l’intreccio tra militarismo e patriarcato – venga investita quell’attenzione e quella volontà di esercitare “una spinta trasformativa” che sono state dichiarate come “voglia di esserci e di contare” per produrre una “modificazione visibile del lavoro, dell’economia, e più in generale del patto sociale”.
Come femministe nonviolente e pacifiste, riteniamo che alla base del “patto sociale” ci sia innanzi tutto la costruzione storica dei modi di essere donne e uomini che, pur se in forme diverse nello spazio e nel tempo, si impernia ovunque sulla gerarchizzazione delle une come subordinate agli altri, sulla affermazione di una virilità aggressiva che legittima socialmente la violenza contro le donne, che trasforma l’altra/o in nemico, che porta a praticare e percepire come necessario e giusto l’ordine materiale e mentale della guerra. Ѐ questo il ‘retaggio del dominio’ che alimenta tuttora le ingiustizie nei rapporti di lavoro come in quelli economici e cui si rifà chi ne detiene il potere per decidere come affrontare l’attuale crisi del sistema a livello mondiale, con quali priorità e a vantaggio di chi. Riconoscersi come fondate sulla relazione con l’altra/o è invece il punto di origine del femminismo e in questa prospettiva uscire dalla legge del più forte significa guardare alla nonviolenza come a un processo da mettere in atto per smarcarci dal patriarcato.
Una delle formulazioni che meglio hanno espresso quale sia il punto di partenza e l’orizzonte delle Donne in Nero è “smilitarizzare le menti”, frase coniata a Belgrado e largamente ripresa a livello internazionale. Saperlo pensare e praticare nel pieno delle guerre balcaniche è stato tanto coraggioso quanto fondamentale per resistere alla pressione divisiva dei nazionalismi – densi di fascismo nella rivendicazione della patria e dell’onore guerresco e proprio perciò sorretti dalle più abbiette pulsioni ad umiliare il nemico nel corpo delle ‘sue donne’, ma anche ad aggredire come traditrici le ‘proprie donne’ se non si immedesimavano in quella esaltazione bellicosa.
Nell’incontro di Roma c’è chi ha parlato di come la crisi – o meglio, il modo in cui viene presentata e gestita negli attuali rapporti di potere di questo paese – restringa i nostri spazi di agibilità politica, sotto la cappa del TINA (There is no alternative), da un lato e della rassegnazione ad esso, dall’altro. Ma è anche stata evocata la positività del filo di intelligenza che i femminismi hanno variamente sviluppato lungo decenni di sovvertimento delle culture e delle strutture. Vediamo l’orrore delle guerre che continuano a devastare vite e territori, però sappiamo che ha senso portare il nostro granello, per quanto piccolo, a incepparne i meccanismi e ci pare che ciascuna possa contribuire alla smilitarizzazione delle menti nella sua vita quotidiana e nelle sue relazioni personali così come nello spazio pubblico.
Su tutto questo, e su tanto altro, vorremmo che sentissero il desiderio di confrontarsi con noi altre che a Paestum e nel dopo Paestum hanno privilegiato priorità differenti dalla nostra. Ci sentiamo comprese nella prospettiva delineata come “Primum vivere”; la proposta che facciamo è di intrecciarla con la citazione da Christa Wolf: “Tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere”, in cui tante femministe hanno riconosciuto le radici del loro rifiuto delle guerre e delle logiche di guerra, perché – con Cassandra – lì stanno le basi della violenza del patriarcato.

Maggio 2013                                                                          
La rete nazionale delle Donne in Nero 


14 maggio 2013

15 MAGGIO 1948, IL GIORNO DELLA NAKBA, LA CATASTROFE


Centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalla loro terra, 65 anni in esilio, nei campi profughi del Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania, sparsi in tutto il mondo, ma conservano ancora le chiavi delle loro case e dei loro villaggi distrutti da Israele per cancellarne la memoria e la presenza.


Il 15 maggio, il popolo palestinese ricorderà il 65° anniversario della Nakba, la  "catastrofe", l'inizio dell'esilio palestinese . Fino ad oggi, Israele non ha riconosciuto la responsabilità per i l’esodo e i crimini commessi contro il popolo palestinese.
E’ tempo che Israele riconosca i suoi torti e chieda scusa al popolo palestinese per questo immensa tragedia ed azione coloniale. Riconoscere la Nakba e la propria responsabilità sarebbe un primo passo necessario per una pace giusta e duratura tra Palestinesi e Israeliani.
Ma Israele purtroppo non solo non riconosce le proprie responsabilità, ma continua a colonizzare a rubare con la forza terra, acqua e risorse del popolo palestinese. Mentre i coloni in continua crescita, aggrediscono donne, uomini, bambini e bruciano campi, greggi, case, moschee, chiese, con la protezione dell’ esercito e della polizia di frontiera israeliana.
La responsabilità è della Comunità Internazionale che usa due pesi e due misure e non impone ad Israele il rispetto delle risoluzioni delle nazioni Unite a partire dalle 194 per il ritorno dei profughi a quelle per il ritiro dai territori occupati nel 1967.


Il sogno dei gigli bianchi.
poesia di Mahmoud Darwish


Egli sogna, m'ha detto, gigli bianchi
sopra un ramo d'olivo
dentro il cuore di fronde della notte.
Sogna, dice, un uccello
un germoglio di limone.
Al suo sogno però non sa dar senso
perché capisce solo
ciò che sente al tatto ed all'olfatto.
Capisce che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
che la patria è il ritorno nella sera.
E la terra? Gli ho chiesto.
La terra, dice lui, non la conosco,
non la so come sento la pelle,
non la odo che batta come il polso:
forse si, d'improvviso,
una volta l'ho vista:
una strada, giornali, una bottega.
Ma gli ho chiesto: tu l'ami?
M'ha risposto: l'amore
è per me una breve uscita
o un bicchiere di vino o una avventura.
Per la terra morresti?
M'ha risposto di no
e m'ha detto che il legame
che lo trattiene a questa terra
è una lettura bruciante.
Il legame è un discorso:
m'hanno insegnato ad amare
un amore per lei, però il suo cuore,
il suo cuore non è il mio.
Non sento in lei crescere l'erba
non percepisco le radici
non so la fioritura.
Ma dunque come è stato questo amore?
Un amore pungente come il sole,
fitto di nostalgia?
M'ha risposto: un amore
fatto con il fucile
e un ritorno di feste da antiche rovine
e un silenzio di immagine sbiadita
che è svuotata di tempo e non più lei.
M'ha detto del momento dell'addio,
m'ha detto di sua madre
piangente cheta mentre andavo via
verso un luogo ch'era il fronte.
E la voce di sua madre
gli scavava con l'angoscia
sotto la pelle un sogno nuovo.
Oh se crescessero colombe
nel ministero della difesa…
Fumò un poco, poi disse
come fuggendo uno stagno di sangue:
Io sogno gigli bianchi
in un ramo d'olivo,
un uccello che abbracci il mattino
sopra i fiori di limone.
Ma tu che cosa hai visto?
Ho visto quello che ho fatto,
ho visto gigli rossi
esplosi nella sabbia
dentro i petti e nei ventri.
Quanti, ho chiesto, ne hai uccisi?
E' difficile contarli:
ecco la medaglia.
Gli ho chiesto allora di dirmi
d'uno che avesse ucciso.
Si sistemò a sedere
e giocò con un giornale
un giornale sgualcito
e mi parlò come cantasse:
era una tenda caduta,
un abbraccio di stelle in frantumi
sopra la fronte il sangue
e non medaglie sul petto,
perché combattere non sapeva;
un contadino o forse un operaio
o magari un venditore
un venditore ambulante.
Come una tenda è caduto
sulla terra ed è morto.
Le sue braccia due aridi ruscelli,
e mentre gli cercavo
dentro la tasca il nome,
ho trovato le due fotografie:
una la moglie e l'altra una bambina.
Eri triste,  gli ho chiesto.
M'ha detto brusco: amico
amico mio Mahmud
la tristezza è un uccello bianco
che non vola nei pressi
dei campi di battaglia, ed ai soldati
è peccato essere tristi:
laggiù sputavo fuoco,
seminavo rovina,
laggiù ero uno strumento
che voleva del mondo fare un uccello nero.
Poi m'ha detto nascondendo
la tosse nel fazzoletto,
m'ha detto del suo primo amore,
poi d'una strada lontana,
delle reazioni alla guerra,
dell'eroismo della radio
e di quello della stampa.
Ho chiesto: ci incontreremo?
Ha detto: in città lontane.
Gli ho dato un quarto bicchiere
Ho scherzato: ritorni?
Che ne fai della patria?
Ha risposto: non seccare.
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto,
e una casa di luce,
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili,
e un giorno intero di sole,
non un attimo folle
d'una vittoria razzista.
Voglio un bimbo che all'alba sorrida
non un pezzo di ricambio
in strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il sole
che sorge, ma non quello che tramonta.
E non ho voglia di mire
di combattere donne e bambini
facendo la guardia alle vigne
e custodendo i pozzi
per i ricchi del petrolio
e per l'industria di guerra.
M'ha salutato perché
cercava i gigli bianchi
e un uccello che incontrasse
il mattino sopra i rami
degli ulivi, e non capiva
che ciò che sentiva all'olfatto.
Capiva solo che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
e un ritorno sicuro con la notte.



05 maggio 2013

ESSERE DONNA IN NERO CONTRO LA GUERRA….



Scriveva Etty Hillesum nel suo “Diario” il 23 settembre 1943:
“Non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale”

ESSERE DONNA IN NERO CONTRO LA GUERRA….

Per me vuol dire NON ABITUARMI

alle parate militari
all’entusiasmo per le divise
alle donne soldate
alle basi sul nostro territorio
ai bambini che vanno in visita scolastica nelle caserme e nelle basi
ai militari che vanno a cercare reclute nelle scuole
ai giocattoli di guerra per i bambini
ai giochi di guerra dei grandi
alle fiction con carabinieri, poliziotti, guardie marine, soldati…
alle “missioni di pace” all’estero
a “quanto sono bravi i nostri ragazzi”
a inni nazionali e tricolori ovunque
a “le spese militari non si toccano” e se si devono toccare è solo per il nostro interesse
alla nostra fiorente industria bellica
alle nostre vendite di armi dove c’è la guerra
ai silenzi dei media su certe cose (guerre africane, guerra in Siria, resistenza nonviolenta palestinese…)
all’attenzione sproporzionata dei media su altre cose (bombe alla maratona di Boston…)
ad accettare la logica di risolvere ogni conflitto con l’uso della forza
ad ogni razzismo, ad ogni nazionalismo
alla VIOLENZA
alla GUERRA, forma estrema della violenza

Per me ESSERE DONNA IN NERO CONTRO LA GUERRA

vuol dire DICHIARARE CHE SONO CONTRO a tutto questo

vuol dire DARE VOCE a chi continua ad opporsi contro la violenza e la guerra

vuol dire cercare con altre e altri – e anche da sola al limite – di mettere qualche granello di sabbia nella macchina che produce guerra e violenza 

vuol dire far parte di una rete di donne con cui condivido pensieri e pratiche, cercando di costruire ponti, superare confini, far crescere relazioni e conoscenze


Marianita


04 maggio 2013

SENTENZA : CRIMINALI PERCHE' PALESTINESI


Intervento di Nurit Peled El Hanan, ebrea israeliana, Premio Sacharov del Parlamento Europeo alla sessione conclusiva del Tribunale Russell sulla Palestina. Bruxelles, 17 Marzo 2013


Vorrei dedicare queste parole al nostro beneamato Stephan Hessel, che ho conosciuto a Parigi tramite i miei figli Elik e Guy, che lo ammiravano profondamente e da cui hanno sempre tratto grande ispirazione per la loro lotta contro l’occupazione della Palestina.
Dedico queste parole anche alla memoria di un ragazzo dell’età dei miei figli, il martire Mo’ayad Nazeeh Ghazawna (35 anni), deceduto ieri all’ospedale di Ramallah a causa delle ferite riportate 3 settimane fa dopo essere stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno lanciata dalle forze di occupazione israeliane.

E dedico queste parole anche a tutti i figli di madri palestinesi che vengono uccisi, mutilati e torturati nello stesso momento in cui sto parlando, che vengono rapiti dai loro letti nel cuore della notte e gettati in celle di isolamento, strappati ai loro genitori e alle loro famiglie, interrogati nelle condizioni più crudeli, traumatizzati a vita, soltanto per aver lanciato delle pietre, aver attraversato una strada riservata agli ebrei, o essere entrati nel loro villaggio, al ritorno da scuola, passando per un buco nella barriera di “sicurezza”.
Questi ragazzi e i loro genitori non hanno il diritto di essere uditi da nessuna corte e da nessun tribunale al mondo. La loro testimonianza non ha alcuna validità nel sistema giudiziario occidentale e la loro sentenza è già formulata: sono criminali, per il semplice fatto di essere Palestinesi. E questo basta per far sentire i loro oppressori in diritto di trattarli come esseri a cui “sono negati con forza ogni status sociale o giuridico, e le cui vite possono essere distrutte impunemente”.
Questi ragazzi e i loro genitori, che protestano ogni venerdì contro il muro di apartheid e gli insediamenti a Nabi Saleh, Qaddum, Masaara, Nilin, Bilin e Bet Umar (solo per nominare alcuni villaggi), le cui case vengono demolite con scuse derivanti da quello che il sociologo Stanely Cohen definiva il “kitsch sionista”, sono riusciti ad avere, forse per la primissima volta, un’udienza al Tribunale Russell sulla Palestina.
I palestinesi non sono autorizzati a lasciare le loro case nemmeno per recarsi al villaggio più vicino e visitare i loro parenti, tanto meno per venire a Bruxelles. Ma noi, che invece abbiamo questo privilegio, dobbiamo essere i loro messaggeri. Non possiamo permetterci, come ripeteva Stephan, di dirci esasperati, perchè l’esasperazione è la negazione della speranza, mentre noi, che possiamo parlare e abbiamo il privilegio di essere ascoltati, dobbiamo dare speranza a coloro che non ne hanno.
(…) Israele è riuscita a spacciarsi per una democrazia; in realtà, come ha dichiarato il Tribunale, si tratta di uno Stato di apartheid, che priva dei beni di base come l’acqua in estate metà della sua popolazione dominata.
Israele ha raggiunto un livello di malvagità inimmaginabile. E molte persone in tutto il mondo fanno fatica a credere che sia così.
Stepahne Hessel è stato chiarissimo a tal riguardo, e per questo motivo un altro compagno militante, Michel Warschaeski, l’ha descritto così: “Stepahne Hessel non è stato solo la coscienza del XX. secolo, ma la coscienza ebraica in tutto ciò che essa ha di migliore”.
Il Tribunale Russel ha dimostrato, e auspico che continui a dimostrare, la convinzione di Stephane secondo cui l’atteggiamento peggiore di fronte all’ingiustizia è quello dell’indifferenza. O del diniego. Davanti al male, le uniche risposte possibili sono l’indignazione e l’impegno. E per questo motivo voglio ringraziare di cuore tutti voi che vi adoperate in questo lavoro.
È molto importante per noi, quaggiù, sapere che ci sono persone in tante parti del mondo che saranno con noi finché il muro non verrà abbattuto e finché la giustizia non prevarrà.

Assopace, Traduzione Diletta Pinochi e Luisa Morgantini