Centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalla loro terra, 65
anni in esilio, nei campi profughi del Libano, Siria, Giordania,
Cisgiordania, sparsi in tutto il mondo, ma conservano ancora le
chiavi delle loro case e dei loro villaggi distrutti da Israele per
cancellarne la memoria e la presenza.
Il 15 maggio, il
popolo palestinese ricorderà il 65° anniversario della Nakba, la "catastrofe", l'inizio dell'esilio palestinese . Fino ad
oggi, Israele non ha riconosciuto la responsabilità per i l’esodo
e i crimini commessi contro il popolo palestinese.
E’ tempo che
Israele riconosca i suoi torti e chieda scusa al popolo palestinese
per questo immensa tragedia ed azione coloniale. Riconoscere la
Nakba e la propria responsabilità sarebbe un primo passo
necessario per una pace giusta e duratura tra Palestinesi e
Israeliani.
Ma Israele purtroppo
non solo non riconosce le proprie responsabilità, ma continua a
colonizzare a rubare con la forza terra, acqua e risorse del popolo
palestinese. Mentre i coloni in continua crescita, aggrediscono donne, uomini, bambini e bruciano campi, greggi, case, moschee,
chiese, con la protezione dell’ esercito e della polizia di
frontiera israeliana.
La responsabilità è
della Comunità Internazionale che usa due pesi e due misure e non
impone ad Israele il rispetto delle risoluzioni delle nazioni Unite
a partire dalle 194 per il ritorno dei profughi a quelle per il
ritiro dai territori occupati nel 1967.
Il sogno
dei gigli bianchi.
poesia di Mahmoud Darwish
Egli sogna, m'ha detto, gigli bianchi
sopra un ramo d'olivo
dentro il cuore di fronde
della notte.
Sogna, dice, un uccello
un germoglio di limone.
Al suo sogno però non sa dar
senso
perché capisce solo
ciò che sente al tatto ed
all'olfatto.
Capisce che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
che la patria è il ritorno
nella sera.
E la terra? Gli ho chiesto.
La terra, dice lui, non la
conosco,
non la so come sento la pelle,
non la odo che batta come il
polso:
forse si, d'improvviso,
una volta l'ho vista:
una strada, giornali, una
bottega.
Ma gli ho chiesto: tu l'ami?
M'ha risposto: l'amore
è per me una breve uscita
o un bicchiere di vino o una
avventura.
Per la terra morresti?
M'ha risposto di no
e m'ha detto che il legame
che lo trattiene a questa
terra
è una lettura bruciante.
Il legame è un discorso:
m'hanno insegnato ad amare
un amore per lei, però il
suo cuore,
il suo cuore non è il mio.
Non sento in lei crescere
l'erba
non percepisco le radici
non so la fioritura.
Ma dunque come è stato
questo amore?
Un amore pungente come il
sole,
fitto di nostalgia?
M'ha risposto: un amore
fatto con il fucile
e un ritorno di feste da
antiche rovine
e un silenzio di immagine
sbiadita
che è svuotata di tempo e
non più lei.
M'ha detto del momento
dell'addio,
m'ha detto di sua madre
piangente cheta mentre
andavo via
verso un luogo ch'era il
fronte.
E la voce di sua madre
gli scavava con l'angoscia
sotto la pelle un sogno
nuovo.
Oh se crescessero colombe
nel ministero della difesa…
Fumò un poco, poi disse
come fuggendo uno stagno di
sangue:
Io sogno gigli bianchi
in un ramo d'olivo,
un uccello che abbracci il
mattino
sopra i fiori di limone.
Ma tu che cosa hai visto?
Ho visto quello che ho
fatto,
ho visto gigli rossi
esplosi nella sabbia
dentro i petti e nei ventri.
Quanti, ho chiesto, ne hai
uccisi?
E' difficile contarli:
ecco la medaglia.
Gli ho chiesto allora di
dirmi
d'uno che avesse ucciso.
Si sistemò a sedere
e giocò con un giornale
un giornale sgualcito
e mi parlò come cantasse:
era una tenda caduta,
un abbraccio di stelle in
frantumi
sopra la fronte il sangue
e non medaglie sul petto,
perché combattere non
sapeva;
un contadino o forse un
operaio
o magari un venditore
un venditore ambulante.
Come una tenda è caduto
sulla terra ed è morto.
Le sue braccia due aridi
ruscelli,
e mentre gli cercavo
dentro la tasca il nome,
ho trovato le due
fotografie:
una la moglie e l'altra una
bambina.
Eri triste, gli ho chiesto.
M'ha detto brusco: amico
amico mio Mahmud
la tristezza è un uccello
bianco
che non vola nei pressi
dei campi di battaglia, ed
ai soldati
è peccato essere tristi:
laggiù sputavo fuoco,
seminavo rovina,
laggiù ero uno strumento
che voleva del mondo fare un
uccello nero.
Poi m'ha detto nascondendo
la tosse nel fazzoletto,
m'ha detto del suo primo
amore,
poi d'una strada lontana,
delle reazioni alla guerra,
dell'eroismo della radio
e di quello della stampa.
Ho chiesto: ci incontreremo?
Ha detto: in città lontane.
Gli ho dato un quarto
bicchiere
Ho scherzato: ritorni?
Che ne fai della patria?
Ha risposto: non seccare.
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto,
e una casa di luce,
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili,
e un giorno intero di sole,
non un attimo folle
d'una vittoria razzista.
Voglio un bimbo che all'alba
sorrida
non un pezzo di ricambio
in strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il
sole
che sorge, ma non quello che
tramonta.
E non ho voglia di mire
di combattere donne e
bambini
facendo la guardia alle
vigne
e custodendo i pozzi
per i ricchi del petrolio
e per l'industria di guerra.
M'ha salutato perché
cercava i gigli bianchi
e un uccello che incontrasse
il mattino sopra i rami
degli ulivi, e non capiva
che ciò che sentiva
all'olfatto.
Capiva solo che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
e un ritorno sicuro con la
notte.
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