Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

14 maggio 2013

15 MAGGIO 1948, IL GIORNO DELLA NAKBA, LA CATASTROFE


Centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalla loro terra, 65 anni in esilio, nei campi profughi del Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania, sparsi in tutto il mondo, ma conservano ancora le chiavi delle loro case e dei loro villaggi distrutti da Israele per cancellarne la memoria e la presenza.


Il 15 maggio, il popolo palestinese ricorderà il 65° anniversario della Nakba, la  "catastrofe", l'inizio dell'esilio palestinese . Fino ad oggi, Israele non ha riconosciuto la responsabilità per i l’esodo e i crimini commessi contro il popolo palestinese.
E’ tempo che Israele riconosca i suoi torti e chieda scusa al popolo palestinese per questo immensa tragedia ed azione coloniale. Riconoscere la Nakba e la propria responsabilità sarebbe un primo passo necessario per una pace giusta e duratura tra Palestinesi e Israeliani.
Ma Israele purtroppo non solo non riconosce le proprie responsabilità, ma continua a colonizzare a rubare con la forza terra, acqua e risorse del popolo palestinese. Mentre i coloni in continua crescita, aggrediscono donne, uomini, bambini e bruciano campi, greggi, case, moschee, chiese, con la protezione dell’ esercito e della polizia di frontiera israeliana.
La responsabilità è della Comunità Internazionale che usa due pesi e due misure e non impone ad Israele il rispetto delle risoluzioni delle nazioni Unite a partire dalle 194 per il ritorno dei profughi a quelle per il ritiro dai territori occupati nel 1967.


Il sogno dei gigli bianchi.
poesia di Mahmoud Darwish


Egli sogna, m'ha detto, gigli bianchi
sopra un ramo d'olivo
dentro il cuore di fronde della notte.
Sogna, dice, un uccello
un germoglio di limone.
Al suo sogno però non sa dar senso
perché capisce solo
ciò che sente al tatto ed all'olfatto.
Capisce che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
che la patria è il ritorno nella sera.
E la terra? Gli ho chiesto.
La terra, dice lui, non la conosco,
non la so come sento la pelle,
non la odo che batta come il polso:
forse si, d'improvviso,
una volta l'ho vista:
una strada, giornali, una bottega.
Ma gli ho chiesto: tu l'ami?
M'ha risposto: l'amore
è per me una breve uscita
o un bicchiere di vino o una avventura.
Per la terra morresti?
M'ha risposto di no
e m'ha detto che il legame
che lo trattiene a questa terra
è una lettura bruciante.
Il legame è un discorso:
m'hanno insegnato ad amare
un amore per lei, però il suo cuore,
il suo cuore non è il mio.
Non sento in lei crescere l'erba
non percepisco le radici
non so la fioritura.
Ma dunque come è stato questo amore?
Un amore pungente come il sole,
fitto di nostalgia?
M'ha risposto: un amore
fatto con il fucile
e un ritorno di feste da antiche rovine
e un silenzio di immagine sbiadita
che è svuotata di tempo e non più lei.
M'ha detto del momento dell'addio,
m'ha detto di sua madre
piangente cheta mentre andavo via
verso un luogo ch'era il fronte.
E la voce di sua madre
gli scavava con l'angoscia
sotto la pelle un sogno nuovo.
Oh se crescessero colombe
nel ministero della difesa…
Fumò un poco, poi disse
come fuggendo uno stagno di sangue:
Io sogno gigli bianchi
in un ramo d'olivo,
un uccello che abbracci il mattino
sopra i fiori di limone.
Ma tu che cosa hai visto?
Ho visto quello che ho fatto,
ho visto gigli rossi
esplosi nella sabbia
dentro i petti e nei ventri.
Quanti, ho chiesto, ne hai uccisi?
E' difficile contarli:
ecco la medaglia.
Gli ho chiesto allora di dirmi
d'uno che avesse ucciso.
Si sistemò a sedere
e giocò con un giornale
un giornale sgualcito
e mi parlò come cantasse:
era una tenda caduta,
un abbraccio di stelle in frantumi
sopra la fronte il sangue
e non medaglie sul petto,
perché combattere non sapeva;
un contadino o forse un operaio
o magari un venditore
un venditore ambulante.
Come una tenda è caduto
sulla terra ed è morto.
Le sue braccia due aridi ruscelli,
e mentre gli cercavo
dentro la tasca il nome,
ho trovato le due fotografie:
una la moglie e l'altra una bambina.
Eri triste,  gli ho chiesto.
M'ha detto brusco: amico
amico mio Mahmud
la tristezza è un uccello bianco
che non vola nei pressi
dei campi di battaglia, ed ai soldati
è peccato essere tristi:
laggiù sputavo fuoco,
seminavo rovina,
laggiù ero uno strumento
che voleva del mondo fare un uccello nero.
Poi m'ha detto nascondendo
la tosse nel fazzoletto,
m'ha detto del suo primo amore,
poi d'una strada lontana,
delle reazioni alla guerra,
dell'eroismo della radio
e di quello della stampa.
Ho chiesto: ci incontreremo?
Ha detto: in città lontane.
Gli ho dato un quarto bicchiere
Ho scherzato: ritorni?
Che ne fai della patria?
Ha risposto: non seccare.
Io sogno gigli bianchi
in una strada di canto,
e una casa di luce,
e voglio un cuore buono
che non sia pieno di fucili,
e un giorno intero di sole,
non un attimo folle
d'una vittoria razzista.
Voglio un bimbo che all'alba sorrida
non un pezzo di ricambio
in strumenti di guerra.
Son venuto per vivere il sole
che sorge, ma non quello che tramonta.
E non ho voglia di mire
di combattere donne e bambini
facendo la guardia alle vigne
e custodendo i pozzi
per i ricchi del petrolio
e per l'industria di guerra.
M'ha salutato perché
cercava i gigli bianchi
e un uccello che incontrasse
il mattino sopra i rami
degli ulivi, e non capiva
che ciò che sentiva all'olfatto.
Capiva solo che la patria
è il sapore del caffè
preparato da sua madre,
e un ritorno sicuro con la notte.



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