Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

21 dicembre 2010

Incontro con Martha Giralda della Ruta Pacifica

Bologna, 8-12-2010


 

Eravamo presenti 5 DiN di Bologna, 2 di Ravenna, 3 di Padova, 1 di Torino, 1 di Verona oltre a Martha.

Tutte siamo state molto contente di aver partecipato all'incontro per aver conosciuto Martha: è una donna serena e nel contempo determinata che suscita subito simpatia, che non nasconde i problemi, ma li affronta con chiarezza cercandone una soluzione.


 

Nella premessa fatta da Patricia sono stati evidenziati alcuni punti, ripresi poi anche da Martha, per inquadrare la situazione in Colombia dal punto di vista delle donne:

  • le donne della Ruta cercano di riprendere i rapporti con l'Organización Femenina Popular, pur nella consapevolezza del persistere di differenti punti di vista politici: Ruta è drasticamente contro tutti gli attori armati (esercito, paramilitari, guerriglia), mentre O.F.P. ha incontrato sia guerriglieri sia paramilitari;
  • l'ex presidente Uribe ha cercato di coinvolgere nella sua politica esponenti di gruppi femminili, due donne hanno accettato di far parte della commissione governativa di giustizia e pace per la gestione della Ley de Justicia y Paz che riguarda i crimini di guerra; la Ruta è contraria a questo coinvolgimento;
  • alcune organizzazioni di donne non vogliono porre la violenza contro le donne, praticata da tutti gli attori armati, al centro della loro politica.


 

Martha ha subito comunicato che l'Incontro internazionale si terrà a Bogotà dal 15 al 20 agosto; in coda al convegno la Ruta vuole organizzare un tour nelle 9 regioni in cui è presente, un tour economico che potrà unire al convegno la conoscenza del paese e dei luoghi in cui di più il conflitto armato influisce negativamente sulla vita delle donne e delle popolazioni.

Da parte della Ruta c'è la volontà di approfittare di ogni viaggio per preparare l'incontro internazionale di agosto, capire perché sinora c'è stata una risposta così debole e stimolare la partecipazione.

Martha nei suoi ringraziamenti ha definito le Din italiane un pilastro del movimento delle donne contro la guerra, proprio per questo le colombiane si aspettavano per lo scorso novembre la partecipazione di molte donne dall'Italia, come d'altra parte dalla Spagna. Le donne che vivono nei luoghi di conflitto (Palestina, Afghanistan, Sahrawi, Congo, Colombia…) hanno particolare bisogno di sostegno, appoggio alle loro lotte da realizzare attraverso iniziative politiche di pressione politica e protezione. L'appoggio deve avere l'obiettivo di rendere visibili i problemi delle donne in questi paesi difficili (per esempio fare in modo che non si dimentichi quello che accade in Palestina rispetto alle donne) e di dare valore a quello che esse fanno. La pressione politica e l'iniziativa nei nostri paesi dà loro la forza per acquisire influenza politica nel loro paese e genera un corridoio umanitario che dà loro protezione. Per esempio per le donne della Ruta, che essendo laiche non hanno protezioni nemmeno della chiesa, è necessario che ci sia un grande numero di internazionali presenti al convegno da loro organizzato, infatti, quando con le loro azioni esse si espongono, corrono maggiori rischi per la sicurezza della loro vita, perciò, se il numero delle internazionali è basso, la loro posizione diventa più debole,mentre se la partecipazione internazionale è alta, ciò per loro significa protezione, forza e riconoscimento. Per questo è stato necessario spostare l'Incontro internazionale da novembre ad agosto e quello di agosto non può e non deve andare male.

Esse auspicano che si creino iniziative internazionali con azioni nonviolente dirette creative (nella Ruta ci sono alcune giovani donne molto creative alle quali viene dato spazio) contro la guerra, da fare a turno nelle varie città del mondo mensilmente avendone stabilito insieme i temi e le scansioni. Le giovani hanno talvolta difficoltà a capire perché si lotta contro la guerra e non per la pace e questo può essere inteso attraverso una lettura femminista della guerra.

Martha ha dato due esempi di azioni nonviolente dirette: una realizzata da loro in Colombia quando, approfittando di una curva nel percorso, hanno fatto entrare nel corteo di una parata militare un carro armato ricoperto di fiori e che sparava fiori, le cui foto hanno fatto il giro del mondo; un'altra realizzata in Spagna e Belgio di cui erano protagoniste delle donne che con dei bambini entravano nel reparto giocattoli di un grande magazzino, i bambini sparavano con pistole ad acqua colorata di rosso e le donne colpite cadevano a terra.

Dobbiamo fare pensieri comuni e azioni comuni che danno visibilità e rafforzano il movimento. Allo scopo si potrebbe lanciare un concorso di idee per azioni dirette nonviolente e performance e organizzare laboratori sulla nonviolenza e le sue pratiche, per valorizzare anche alcuni eventi storici nei quali si è ottenuta libertà e dignità senza spargimenti di sangue, che in genere non sono conosciuti, in particolare da giovani cui in tal modo si possono trasmettere dei valori.

Riguardo al XV° Incontro Internazionale delle Donne in Nero Martha ha innanzitutto sottolineato che è la prima volta che si tiene in un paese extraeuropeo (o che non graviti direttamente sull'Europa come Israele), in un paese dell'America Latina che gode della "summa cum laude" della violenza e della guerra, dove chi difende i diritti umani subisce continuamente forti aggressioni.


 

Ha poi illustrato i cinque assi delle tematiche del convegno:

  • Primo Asse: Sicurezza militarizzata, corsa agli armamenti e protezione delle donne. Come il femminismo ha interpretato le politiche di sicurezza nel mondo attuale (militarismi, corsa agli armamenti; guerre nel sud, armi nel nord, protezione delle donne).
  • Secondo Asse: Giustizia per i crimini di guerra e lesa umanità commessi contro le donne. Esperienze nei Tribunali ad hoc e Corte Penale Internazionale.
  • Terzo Asse: Lettura da parte dei femminismi dei conflitti attuali. Conflitto armato; conflitto religioso; economie illegali; sessismo e xenofobia.
  • Quarto Asse: Azioni o pratiche trasformatrici delle donne in risposta alle sfide.
    Incontri tra le partecipanti sulle strategie motivanti e le azioni trasformatrici realizzate dalle donne.
  • Quinto Asse: Sfide delle Donne in Nero. Come ci interpretiamo e come rispondiamo. Bilancio delle Donne in Nero.

Per ogni asse ci sarà: l'introduzione fatta da una donna (per il I° asse hanno pensato a Luisa Morgantini che è già informata e ha accettato), workshops, restituzione in plenaria.

Il quarto asse dovrebbe essere importante per conoscerci, recuperare le varie memorie storiche, per individuare come stiamo interpretando la realtà che viviamo e le realtà esterne degli altri paesi: ci interessano le realizzazioni delle donne e poi, in particolare, delle DiN; siamo noi che dobbiamo valorizzare le nostre pratiche ed iniziative. Al riguardo Martha ci ha detto che, quando si reca in un altro paese, si accorge dell'importanza delle DiN in quel paese, cosa che le stesse DiN non sono in grado di percepire; "purtroppo voi europei avete interiorizzato l'Europa come un paese per vecchi!".

Il lavoro e le conclusioni di tutti gli assi dovrebbe confluire nel quinto e nella plenaria finale dove si prenderanno delle decisioni.

In ogni caso dobbiamo dar valore alle azioni nonviolente che facciamo: la guerra toglie dignità e libertà, le azioni nonviolente invece danno dignità e libertà.

Le donne della OFP saranno invitate all'incontro in quanto appartenenti alla rete delle Donne in Nero.


 

Come preparazione al convegno le colombiane chiedono che nei gruppi locali e a livello di rete nazionale si faccia una discussione sugli assi tematici proposti e che si mandino le conclusioni a tutta la rete internazionale. La cosa peggiore per lo scorso novembre è stato il silenzio: la Ruta ci chiede di rompere il silenzio, di scrivere, anche individualmente, esprimendo le proprie difficoltà (sia di carattere economico sia in relazione alle relazioni tra donne in Colombia o altro) e la propria intenzione di partecipare.


 

La Ruta ha individuato 20 donne la cui partecipazione al convegno sarebbe molto importante, ma che non possono pagare viaggio e iscrizione e che quindi dovrebbero essere "adottate" dalle internazionali (alcune sono già state adottate). La gestione dei fondi in tal senso sarà a cura della Ruta.


 

Scadenze

Noi DiN presenti a Bologna abbiamo deciso di lanciare una raccolta fondi per l'adozione di alcune donne provenienti da "luoghi difficili"; dovremmo inviare quanto raccolto alla Ruta Pacifica entro febbraio.

Le iscrizioni al convegno vanno fatte entro marzo e saranno rese pubbliche sulla rete internazionale in modo tale da spingere altre a partecipare (si chiama "animar la fiesta").


 


 

18 novembre 2010

Le donne in nero e non solo in Italia e in vari paesi dell’Europa manifestano contro la Nato

        Lisbona 19, 20, 21 novembre – Vertice NATO        


 

NOI DONNE DICIAMO NO ALLA NATO


 


 

Manifestiamo a PADOVA, e contemporaneamente in decine di altre città, in Italia e in Europa, per dire che - nel silenzio della grande informazione – a Lisbona si stanno prendendo decisioni pericolose che di fatto ostacolano il cammino della pace nel mondo.


 


 

In quanto donne manifestiamo contro la NATO perché:


 

  • non vogliamo un mondo dominato dalla logica delle armi;


 

  • le donne soffrono di più per gli effetti della guerra; sono la maggioranza delle vittime civili, le rifugiate e le sfollate; migliaia sono prive di mezzi di sopravvivenza;


 

  • le spese militari della NATO hanno significato meno fondi per l'istruzione, la salute e altri servizi molto necessari alle donne, che sostengono la maggior parte del peso della vita domestica; il governo taglia le spese sociali, non quelle militari;


 

  • con le basi e le presenze militari aumentano le violenze contro le donne e lo sfruttamento sessuale.


 

La NATO NON SERVE alla DIFESA e alla SICUREZZA:


 

  • E' un'alleanza militare che passa sopra all'ONU e al sistema di leggi internazionali,


 

  • accelera la militarizzazione del mondo,


 

  • fa aumentare le spese per gli armamenti (il 75% della spesa militare mondiale è dei paesi NATO).


 

  • Dal 1999 è passata da una strategia di difesa ad una strategia di interventi allargata a tutto il mondo, ovunque si giudichino minacciati gli "interessi" dei paesi membri.


 

  • Nel 1999 la NATO ha promosso la guerra nei Balcani, chiamandola "guerra umanitaria".


 

  • Da 9 anni sta portando avanti una guerra brutale in Afghanistan, con gli obiettivi dichiarati, evidentemente irraggiungibili, di "sconfiggere il terrorismo" e "portare la democrazia" mentre la situazione per la popolazione civile è sempre più tragica.


 

Nel Vertice della NATO del 19-21 novembre sarà adottato un nuovo Concetto Strategico. Impegnerà nuovamente la NATO nelle strategie che ci preoccupano: l'aumento del numero dei paesi membri, l'espansionismo militare, la militarizzazione dell'Europa, il mantenimento di armi nucleari.

Tra l'altro potrebbe anche essere ratificata la decisione di trasferire in
Italia (AVIANO) tutte le testate nucleari USA sparse in Europa. Il territorio italiano è oramai ricoperto di basi militari: ce ne sono più di 100, da Bolzano a Lampedusa, e rendono il nostro paese complice degli interventi armati nel mondo; queste strutture costituiscono un grave pericolo per la sicurezza dei cittadini, esponendoli al rischio di incidenti, ad inquinamento e alla possibilità di attentati terroristici.


 

Come donne, vogliano chiarire che non vediamo alcun ruolo della NATO per la nostra sicurezza. La vera sicurezza deriva da negoziati pacifici e dalla composizione nonviolenta dei conflitti:

Noi rifiutiamo che la risposta alle crisi globali e regionali sia sempre militare. Rifiutiamo di vivere nel terrore delle armi nucleari e rifiutiamo una nuova corsa agli armamenti. Rifiutiamo che il denaro pubblico venga sprecato in armi e imprese militari.

In particolare, conoscendo dalle donne afgane le sofferenze causate dalla guerra, chiediamo con forza il ritiro di tutte le truppe, a partire da quelle italiane, dall'Afghanistan.


 


 

Donne in nero di Padova

http://controlaguerra.blogspot.com/

07 novembre 2010

Sull’incontro internazionale delle donne in nero

    Penso, assieme ad altre donne, che sia necessario riflettere su questo fatto . barberina

    SPOSTAMENTO DEL XV INCONTRO INTERNAZIONALE DELLE DONNE IN NERO

"Corpi e Territori senza guerre né violenze"


 

Care amiche Donne in Nero nel mondo,

prima di tutto desideriamo inviarvi i nostri saluti, con la convinzione che, in ogni angolo del pianeta, noi donne di questa Rete, stiamo opponendoci alla corsa agli armamenti, al militarismo, alle guerre ed anche alle violenze, perché qualsiasi azione violenta contro altri esseri umani ed anche contro la natura è un affronto all'umanità e al pianeta, per queste ragioni ci impegniamo a sradicarle dalle nostre vite e dai nostri corpi. Sappiamo che questa posizione politica ci mantiene unite.

Scriviamo questa lettera per comunicarvi che purtroppo non ci sono le condizioni per realizzare il nostro Incontro della Rete delle Donne in Nero nel mese di novembre di quest'anno. Ci siamo viste obbligate a prendere questa decisione dato che, a un mese e mezzo dall'evento, si erano iscritte solo 6 donne. Abbiamo lanciato un SOS e le iscrizioni sono salite a 16. Ci sarebbe piaciuto che un numero significativo di donne avesse risposto, ma non è stato così.

Siamo coscienti delle difficoltà causate da questa decisione, specialmente per le donne che hanno già acquistato il biglietto, speriamo che possano ottenere una nuova prenotazione. Abbiamo riflettuto e abbiamo ritenuto che un incontro con 16 partecipanti internazionali fosse insufficiente per realizzare un compito di questa natura, riteniamo infatti che questi incontri servono a ridefinire, scambiare, mantenere attivo il movimento nel mondo. Nel contempo, per noi donne colombiane, l'Incontro costituisce un'iniziativa internazionale che ci accompagna contro la guerra, in un conflitto armato interno che dura da più di 45 anni e ha lasciato più di 4 milioni di vittime e un forte degrado umano e ingiustizia sociale.

Riguardo alle preoccupazioni manifestate da alcune donne della Rete, sulla nostra capacità di realizzarlo, vogliamo dire loro che non è per mancanza di capacità bensì per mancanza di partecipazione da parte delle donne della Rete che abbiamo preso questa decisione; come hanno spiegato bene alcune che hanno scritto, è un aspetto che va analizzato a partire dalla corresponsabilità, perché in questo processo abbiamo sentito molti silenzi da parte di tutte: ci aspettavamo più sostegno dalla Rete, specialmente nel sollecitare le donne a venire all'Incontro affinché questo potesse svolgersi con una rappresentanza internazionale adeguata.

La Ruta Pacifica de las Mujeres fa parte della Rete DiN dal 2001 e la nostra partecipazione era assicurata da circa 300 donne e forse più. Ma in realtà non si tratta di un evento per la Ruta Pacífica, si tratta di realizzare il XV INCONTRO INTERNAZIONALE DELLE DONNE IN NERO e per questo abbiamo richiesto il concorso di tutte.

Avevamo svolto le attività necessarie per realizzare l'Incontro, praticamente lo avevamo già preparato, abbiamo un sito, visibilità, le strategie per pubblicizzarlo, abbiamo intrapreso molteplici iniziative, riservato luoghi per accogliervi, proposto i temi, la metodologia, i simboli, predisposto le traduzioni… ; per questo vi confermiamo la nostra disponibilità a realizzarlo nella terza settimana di agosto 2011, ovviamente se la Rete è d'accordo.

Tuttavia, se ci sono altre proposte vi preghiamo di comunicarle al più presto. Vi preghiamo anche di comunicarci la disponibilità a venire nelle date proposte per il 2011, comprenderete infatti che sarebbe molto costoso per noi, a tutti i livelli, se si ripetesse la stessa situazione anche l'anno prossimo.

Inoltre, ci piacerebbe davvero molto che si concretizzasse la proposta delle donne di Londra che, quelle che hanno già il biglietto, vengano in novembre: sarebbe di grande aiuto se potessimo incontrarci e contribuire alla preparazione di questo Incontro che per noi è di grande importanza ed anche partecipare ad alcune attività per il 25 novembre, Giornata del No alla Violenza contro le donne.

Restituiremo quanto versato per l'iscrizione alle donne che lo richiedano; se decidete di rinviare la vostra venuta per favore fatecelo sapere.

Vi ricordiamo che la data a cui viene rinviato il XV Incontro Internazionale delle Donne in Nero è dal 15 al 20 agosto 2011.

Un abbraccio in sorellanza dalla Colombia.


 

Vi salutano


 

Marina Gallego

Coordinatrice Nazionale

Ruta Pacífica de las Mujeres 

Shima Pardo

Coordinatrice

XV Incontro Internazionale DiN 


 

e l'EQUIPE DI COORDINAMENTO DELLA RUTA PACÍFICA DE LAS MUJERES PER LA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO ARMATO


 


 

Nota esplicativa


 

Tenendo conto della richiesta di alcune donne di informare sugli investimenti da noi fatti sinora, vogliamo dirvi che a tutt'oggi sono stati investiti approssimativamente 50.000l dollari, il 70% dei quali potrà essere recuperato, se l'Incontro avrà luogo in agosto 2011. In caso contrario perderemmo tutto.


 

Le perdite irrecuperabili finora ammontano a 15.000 dollari: a causa del cambiamento di data il Centro de Convenciones ci ha fatto pagare una multa, e anche le spese per i materiali pubblicitari già predisposti non sono recuperabili.


 

Les pertes irrécuperables jusqu'à présent se montent à 15.000 dólares: dû au changement de date, le Centre des Conventions nous a infligé une amende; le matériel publicitaire que nous avions déjà élaboré est aussi perdu..


 


 

Bogotá, 4 novembre 2010.

04 novembre 2010

Relazione per la rivista DEP di Marianita

Donne in Nero per fare rete contro la guerra


 


 

"Dalla scoperta del nostro spaesamento negli stati, nelle ideologie, nelle istituzioni, di fronte ad avvenimenti internazionali che ci sgomentano, nasce questa necessità di riconoscerci, nel duplice senso di riconoscimento nelle altre e di nuova conoscenza di sé: conoscerci, riconoscerci nelle altre donne che al di qua e al di là di nuovi e vecchi confini stanno guardando con occhi di donna il mondo."

(Marina Fresa, in Donne in Nero di Mestre-Venezia 1991-92, p.4)


 

Non è facile tracciare un quadro delle cento e cento iniziative che hanno contraddistinto e contraddistinguono il percorso delle Donne in Nero di Belgrado, raccontare le loro pratiche, esporre il loro pensiero. Non è facile fare una sintesi efficace tra centinaia di documenti - volantini, comunicati, mail, articoli di giornali, interviste, ma anche un'intensa attività editoriale sulla storia delle donne e la guerra – che narrano delle "proteste" pubbliche in nero e in silenzio nelle piazze di Belgrado e di altre città della Serbia, delle campagne a favore dell'obiezione di coscienza, dell'appoggio ai disertori, del lavoro nei campi profughi, dei laboratori itineranti attraverso la Serbia e il Montenegro per la formazione di gruppi di donne per la pace nel tentativo di cambiare la mentalità che genera la guerra e il nemico, e della crescita straordinaria di una rete di donne che ne è conseguita; del lavoro e dello studio per la giustizia transizionale, per un confronto con il passato e contro i crimini di guerra, della presenza in tribunale nei processi contro i criminali, del sostegno alle famiglie delle vittime, delle visite nei luoghi dove questi crimini furono perpetrati.

Non è facile soprattutto perché per me conoscere Staša, Rada, Lepa, Jadranka, Neda, Violeta, Fika, Dunja, Borka, Ljiljana… e tante altre di cui non ricordo il nome, ma conservo vivo il ricordo, ha costituito un'esperienza che ha segnato una tappa importante della mia vita.

Ho incontrato per la prima volta le Donne in Nero di Belgrado nell'ottobre del '94. Facevo parte della Rete di iniziative contro la guerra della mia città, Padova, che aveva organizzato vari viaggi per stabilire relazioni con realtà antimilitariste serbe e portare loro concreta solidarietà. Ricordo l'ospitalità nella loro sede nel centro della città, il piccolo appartamento all'ultimo piano di un condominio popolare, la porta sempre aperta, il caffè sempre pronto e queste donne sempre disponibili, chiare nell'analisi, concrete nell'azione. In quel periodo lavoravano nei campi profughi, profughe anche alcune di loro, con addosso le ferite della guerra.

Non facevo ancora parte del movimento delle Donne in Nero, ma conoscevo alcune donne italiane che lo erano e che sin dal '91 avevano cominciato a recarsi in quella che era ancora la Jugoslavia; avevano conosciuto quelle che sarebbero diventate le Žene u crnom, le Donne in Nero di Belgrado, dando vita ad una relazione destinata a incidere nelle vite delle une e delle altre. Attraverso queste amiche italiane cominciai a conoscere le pratiche e il pensiero delle amiche di Belgrado che così raccontavano la nascita del loro movimento:


 

Noi, Donne in Nero della città di Belgrado abbiamo cominciato nelle strade di uno stato che ha messo in moto il meccanismo della guerra cercando di persuadere la popolazione che «la Serbia non era in guerra» e che «la Serbia è la più grande vittima e ciò le dava il diritto storico di sparare per prima per difendersi». La maggioranza della popolazione di questo paese è stata formata dai media statali a vivere convinta che la guerra era lontana e non aveva niente a che fare con essa.

Noi, Donne in Nero, eravamo piene di amarezza e, come femministe, sapevamo che la nostra amarezza, la nostra disperazione e i nostri sensi di colpa dovevano essere trasformati in resistenza politica pubblica. Noi non volevamo che la nostra profonda indignazione politica contro i guerrafondai restasse una semplice rivolta morale. 

Il 9 ottobre 1991 siamo scese in strada e abbiamo fondato le Donne in Nero ispirandoci all'ostilità contro la guerra delle donne di Israele, Italia e Spagna.


 

Da allora sono tornata più volte a Belgrado e in Vojvodina e in Montenegro per gli incontri della Rete internazionale delle Donne in Nero a cui esse diedero vita.

Ricordo il viaggio nella Belgrado gelida del dicembre del '96, le strade affollate da una massa di persone che protestava contro il governo, e le Donne in Nero - tra i pochi ad essere sempre state contro la guerra, e per questo spesso maltrattate e insultate da molti degli stessi che ora manifestavano - in prima linea, liete per un lungo silenzio finalmente rotto, per la paura cacciata indietro; da più di un mese le persone uscivano di casa (con quel freddo!) per dire No! al potere che le opprimeva e negava la loro voce non riconoscendo i risultati delle elezioni. Loro distribuivano un volantino - "la nonviolenza è la nostra scelta" - con cui invitavano a partecipare senza cedere alle provocazioni.

Ricordo il primo incontro della Rete Internazionale delle Donne in Nero contro la guerra a cui partecipai nel 1997, su un'isoletta sul Danubio a Novi Sad. Dal '92, in piena guerra, questi incontri erano stati creati come ponte per le comunicazioni interjugoslave diventate impossibili: uno spazio per offrire alternative, per proclamare il rifiuto dei nazionalismi guerrafondai che volevano separare con le loro frontiere etniche donne che rifiutavano di essere nemiche e cercavano faticosamente di costruire insieme una loro politica alternativa. Ricordo ancora il cerchio di donne sedute sull'erba, le tante lingue che si mescolavano e lo scoprire con gioia di venire da tanti luoghi diversi: dalla ex-Jugoslavia intera - Serbia, Croazia, Vojvodina, Sangiaccato, Montenegro, Kossovo, Macedonia, Slovenia, Bosnia Erzegovina -, e poi da Algeria, Israele e Palestina, Turchia, Cecoslovacchia, Cecenia, Austria, Norvegia, Danimarca, Germania, Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Italia, Spagna, Grecia, Stati Uniti d'America. E in più lingue veniva letto il documento che ricapitolava gli anni di resistenza alla guerra e all'odio, di solidarietà femminista:


 

Sono sei anni che stiamo creando insieme uno spazio per la diversità delle donne, in cui ascoltiamo esperienze di donne di lingue diverse, di culture diverse. Alcune di queste esperienze di donne si sono impresse nelle nostre anime e nei nostri corpi per sempre. Non siamo più le stesse di prima, partiamo sempre dalla microstoria, dalle esperienze concrete delle donne, creando l'etica e la politica della differenza…. Continuiamo a rendere visibile la nostra resistenza di donne alla guerra, ed anche la nostra resistenza a tutte le forme di controllo sulle donne. Rifiutiamo il ruolo di vittime passive di politiche nazionaliste-militariste. Desideriamo dar vita a nuove forme di solidarietà nella nostra stessa diversità. Solidarietà non è nè carità nè paternalismo. Solidarietà è appoggio reciproco, tenerezza, amicizia, sorellanza.....


 

Ricordo queste parole farsi storie, raccontate con voci che spesso si spezzavano, nei gruppi di lavoro in cui le donne mettevano in comune il loro dolore per le vite devastate dalla guerra, ma anche le speranze perché, nonostante tutto, erano riuscite a salvare e anche a creare amicizie, relazioni, una base per un futuro possibile. Avere compagne ed amiche - sostenevano -, questo fa vincere l'odio e la paura: vince la guerra chi vince l'odio.


 

Ma la guerra continuava e vennero i giorni delle bombe sul Kosovo e la Serbia. La guerra non era più un tabù come forse ci eravamo illuse: diventava "umanitaria". Altra però era la realtà che ci raccontavano da Belgrado le amiche raggiunte telefonicamente, intrappolate tra le bombe della NATO e il regime di Milošević che da esse ne usciva rafforzato mentre qualsiasi opposizione diventava impossibile. Giorni da loro vissuti con rabbia, paura, trepidazione per le amiche albanesi con cui rimanevano ostinatamente in contatto. Scriveva Staša Zajović alle amiche della Rete delle Donne in Nero:


 

…sappiamo che questo complotto del militarismo locale e globale riduce pericolosamente il nostro spazio e tra breve lo farà sparire. Come accusare il militarismo globale senza accusare quello locale, come accusare i bombardamenti senza accusare i massacri, la repressione, l'orrore che sta vivendo la gente del Kosovo che, con questo intervento NATO, sta pagando un prezzo ancora più grande di prima? … abbiamo LA NATO IN CIELO, MILOŠEVIć IN TERRA. Per ora il nostro ghetto umano di vicendevole sostegno funziona bene. Il vostro appoggio ci dà forza, significa moltissimo per noi.


 

E dopo la guerra il dopoguerra, le ultime unghiate del regime contro chi da sempre continuava ad opporsi in forma nonviolenta dichiarando la propria estraneità alle sue scelte di morte. E' il tempo per le Donne in Nero delle persecuzioni, degli interrogatori, delle perquisizioni, degli arresti.

Cade infine Milošević, e grandi speranze si accendono e presto si spengono: gli uomini del regime continuano ad occupare posti chiave e pochi sono i mutamenti sostanziali nell'impostazione politica che guida il paese.

Un altro vasto campo di lavoro si apre, quello del confronto con il passato, della necessità di non dimenticare il passato se si vuole costruire futuro, di fare


 

… memoria della guerra e dei suoi crimini, dell'inumano e dell'inaudito che in ogni conflitto armato è contenuto. Il dovere del ricordo, del resto, fra le antimilitariste della ex Jugoslavia, mai è stato assunto da una prospettiva di vittime, mai è stato confuso con il lamento: sempre si è dimostrato scelta politica, impegno a distinguere la propria voce e il proprio agire dalle urla dei potenti, dagli ordini emanati dagli apparati di regime, dai vertici di eserciti e squadre paramilitari che hanno comandato la distruzione delle città, la pulizia etnica, lo stupro.

Il dovere del ricordo non si è configurato come "ossessione", ma come capacità di leggere la guerra oltre gli stereotipi interpretativi della tradizione maschile, ricercandovi, al di là degli eventi militari e delle strategie geopolitiche, il trauma della quotidianità spezzata, la modificazione violenta delle storie individuali, cui si è sempre voluto attribuire volto, corpo, soggettività. Da lì è scaturita la richiesta di una chiara individuazione delle responsabilità per i crimini commessi, l'esigenza di arrivare ad una "personalizzazione della colpa", nel rifiuto di attribuire ad un'intera comunità il peso delle devastazioni e degli assassinii perpetrati.


 

Le Donne della Rete contro la guerra della Serbia decidono di prendersi cura delle vittime dei crimini fatti in loro nome iniziando un percorso che le porta nei luoghi dove questi crimini sono stati perpetrati per chiedere loro scusa per l'ingiustizia che hanno subito, per dire loro: sappiamo chi sono i colpevoli, sono "i nostri", e devono essere puniti. E' un percorso in cui si apprendono molte cose non soltanto sulla giustizia, ma sulla sicurezza, sull'amicizia, la politica di pace, la nonviolenza.



 

Ed il mio ultimo ricordo è legato a questa necessaria pratica di denuncia e assunzione di responsabilità per un passato così pesante. 10 luglio 2009, Piazza della Repubblica a Belgrado, anniversario del genocidio di Srebrenica, tante donne in nero e in silenzio circondate da un cordone di poliziotti che ci separava dai militanti di Obraz (un'organizzazione nazionalista e fascista) innalzanti cartelli con le foto di Karadzić e Mladić. Stendemmo a terra un grande telo su cui erano dipinte 8372 rose, una per ognuna delle 8372 vittime del genocidio di Srebrenica, attorno ad esso delle grandi scritte – Solidarietà, Non dimentichiamo il genocidio di Srebrenica, Responsabilità, Ricordiamo -, e tutt'intorno noi donne, ciascuna con una rosa bianca in mano. Per tutto il tempo in cui restammo in piazza i militanti di Obraz continuarono a inneggiare a Karadzić e Mladić, "eroi serbi", non criminali di guerra, e a insultare le Donne in Nero: "Puttane, chi vi paga? Gli americani? Quanto vi hanno dato questa volta?".

E pensavo che il dovere del ricordo, e la richiesta di giustizia per i crimini commessi, compiti così fortemente sentiti da queste donne, chiamano in causa anche noi, che pure viviamo in un paese in "pace", ma che non possiamo smettere o allentare, per quanto concerne "la nostra parte", la critica radicale ad ogni ipotesi di guerra e la denuncia delle complicità dei nostri governi.


 

Ora a Belgrado e in altre città della Serbia si continua a lavorare – e basta leggere i report che arrivano regolarmente con l'elenco preciso di tutte le attività svolte, per farsi un'idea della ricchezza di iniziativa culturale e politica di questa rete di donne –. Se per me, personalmente, questa relazione continua ad essere fonte di riflessione e stimolo a un impegno più approfondito, sono convinta che anche per molte di noi, Donne in Nero italiane, le amiche di Belgrado hanno costituito un punto di riferimento fondamentale, forte e autorevole, senza il quale il nostro stesso movimento italiano non avrebbe potuto maturare e crescere. Fin dall'inizio, infatti, i gruppi di Donne in Nero italiani hanno privilegiato una particolare direttrice di impegno, quella indicata dall'espressione "Visitare luoghi difficili". Si cercava di intessere rapporti, relazioni, legami di solidarietà finalizzati alla definizione di una politica internazionale di donne alternativa alle logiche della sopraffazione, dell'annientamento, capace di opporsi ai nazionalismi e alle separazioni etniche; una politica che sapesse assumere i criteri della soluzione nonviolenta dei conflitti, e che desse riconoscimento alle diversità delle parti in campo. Incontrando le donne dei Balcani, abbiamo potuto confrontarci con gli elementi costitutivi del loro pensiero e della loro azione, elementi che hanno consentito loro di fondare aggregazioni politiche capaci di durare nel tempo.


 

Il passaggio più alto e significativo che queste donne hanno compiuto è stato un atto di disobbedienza, di sottrazione di sé all'ideologia dominante.

Anziché aderire alle richieste del proprio stato che in nome dell'unità nazionale le spingeva a schierarsi contro un "nemico esterno", le donne hanno saputo individuare "all'interno della propria parte", delle proprie istituzioni, quelle scelte di violenza, di oppressione che non avrebbero potuto condividere. Partendo da sé, facendo emergere le ragioni della propria soggettività, hanno agito una ribellione "dall'interno e nei confronti del proprio mondo".

(…) Ritornare a questi esempi e recuperare questa memoria all'interno della vicenda complessiva della rete internazionale delle Donne in Nero risulta importante per noi italiane, chiamate, in questi ultimi anni, a misurarci con uno stato che esporta la guerra fuori dai propri confini.… e ne ribadisce le logiche e gli strumenti anche all'interno.


 

Oggi viviamo tempi difficili: quasi nessuno prende più la parola contro la guerra, ma, proprio per questo, sempre più pronunciare questa parola diventa azione politica necessaria, perché la guerra è ormai guerra totale nelle nostre vite, fatta contro e da civili, è sfacelo del tessuto sociale anche se spesso presentata come "umanitaria" e dispensatrice di democrazia; è guerra il cui nemico – sia esterno che interno - è demonizzato, disumanizzato, con cui non si può parlare né tantomeno trattare.

Ancora una volta quindi è necessario sottolineare l'importanza della nostra responsabilità personale, di opposizione e denuncia dei nostri governi: non in nostro nome! Qui come a Belgrado e ovunque nel mondo dove come donne prendiamo la parola, nella consapevolezza di quanto ci dia forza la relazione come pratica femminile fondante all'interno del nostro movimento. Una relazione che va preservata, sviluppata, rilanciata, consapevoli delle diversità e dei possibili conflitti, risorse e non ostacoli in un cammino di donne che vogliono guardare il mondo con il loro sguardo.

Anche questo abbiamo appreso dalla relazione con le Donne in Nero di Belgrado.


 

Marianita De Ambrogio, Donna in Nero di Padova


 


 

Riflessione e citazione

Marianita circa un mese fa mi aveva inviato questa frase di Judith Butler. Un po' in ritardo ve la giro
"Provate a immaginare che ... che l'esercito, rifiutandosi di
stroncare uno sciopero, di fatto si metta in sciopero esso stesso,
deponga le armi, apra i confini, si rifiuti di sorvegliare o di
chiudere i posti di blocco, e che tutti/e coloro che ne fanno parte
siano sollevati/e dalla colpa che mantiene al loro posto l'obbedienza
e la violenza di Stato, e che anzi siano spinti/e a trattenersi
dall'agire dal ricordo e dall'anticipazione di cosi' tanto dolore e
sofferenza; e provate a immaginare che questo avvenga nel nome
dell'essere vivente."

11 settembre 2010

Per andare avanti

Ho trovato questa frase che mi sembra possa spingerci ad andare avanti:" Io continuo a mantenere ferma l'importanza di un atteggiamento ottimista e lucido nello stesso tempo, ma il mio ottimismo non è un fatto emotivo, è una scelta morale" ( Alberto Melucci)

09 luglio 2010

Riflessioni su Srebrenica

11 luglio

Hasan Nuhanović 9 luglio 2010

In occasione della giornata europea del ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica, pubblichiamo la storia di Hasan Nuhanović, interprete delle Nazioni Unite sopravvissuto alle stragi del luglio 1995

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul settimanale bosniaco Dani il 18 giugno 2010


 

1.

Oggi ho identificato mio fratello grazie alle sue scarpe da ginnastica. Quest'autunno mi dissero di mia madre. La trovarono, o meglio quello che rimaneva di lei, in un ruscello nel villaggio di Jarovlje, a due chilometri da Vlasenica. I serbi che ci vivono hanno continuato a buttare per 14 anni l'immondizia su di lei. Non era sola. Ne ammazzarono altri 6 nello stesso posto. Gli avevano dato fuoco.

Dissi: spero li abbiano arsi da morti.

Quest'autunno andai anche in tribunale, a vedere Predrag Bastah Car.

A Vlasenica un serbo, a cui diedi 100 marchi tedeschi, mi disse che Car, dopo averli cosparsi di benzina, gli aveva dato fuoco. Non vi era gran che da vedere nell'aula dove lo stavano processando perché nel 1992 sgozzava le persone, era un rinsecchito rifiuto umano.

Probabilmente aveva aspettato tutta la vita di essere qualcuno. E l'occasione gli si presentò nel '92. Poi, fino alla caduta di Srebrenica, non vi erano più in circolazione musulmani da sgozzare. Dovette aspettare più di due anni quando finalmente carpì mia madre e alcuni altri. Un altro serbo, a cui allungai 300 marchi tedeschi, mi disse che il suo comandante lavora oggi qui, a Sarajevo.

Quest'anno mi sono preparato a seppellire mia madre vicino a mio padre. Lui lo identificarono 4 anni fa, a 11 anni dall'esecuzione. Dissero di aver trovato poco più della metà delle sue ossa. Il cranio frantumato sulla parte posteriore. Il dottore non era in grado di dirmi se glielo frantumarono dopo il decesso. Era nella fossa comune secondaria di Cancari 5, a Zvornicka Kamenica. Lì vi sono 13 fosse comuni con corpi che i cetnici, dalla fossa comune primaria vicino a Pilica, nella fattoria Branjevo, poco prima degli accordi di Dayton, ammassarono con i bulldozer, caricarono sui camion e portarono a una quarantina di chilometri di distanza per risseppellire. In tutto circa 1.500 corpi. Almeno così sostengono quelli del Tribunale. Ho letto la dichiarazione di uno dei boia: "Non riuscivo più a premere il grilletto, avevo l'indice informicolato da quanto avevo sparato. Andavo avanti ad ammazzarli per ore". Dichiarò inoltre che qualcuno aveva promesso loro 5 marchi per ogni musulmano ucciso quel giorno. Disse che costrinsero anche gli autisti a scendere e ammazzare almeno un paio di musulmani, in modo da assicurarsi il loro silenzio. Capito, poveri autisti!

Povero anche Erdemović, che dichiarò che dovette uccidere per non venire ucciso a sua volta. Tutti si trovarono costretti a farlo, dietro l'ordine esplicito di Mladić, unico colpevole. Appena lo cattureranno proclamerà, da vero eroe serbo: "Mi assumo io tutta la responsabilità per tutti i serbi e per tutto il popolo serbo. La colpa è solo mia, processate me, tutti gli altri lasciateli liberi." Solo allora noi musulmani, i serbi e tutti gli altri saremo contenti. Ci leveremo i pantaloni e ci abbracceremo. Non avremo bisogno di alcuna mediazione straniera.

L'anno scorso prepararono le lapidi in pietra, belle, bianche. Tutte uguali, perfettamente allineate. Vicino a mio padre due posti vuoti. Sono tre anni che aspetta che gli mettano vicino mia madre e suo figlio Muhamed.

Dissero di aver identificato mia madre. Mi preparai a seppellirla vicino a suo marito l'11 luglio 2010. Poi la telefonata... Dicono: "Il DNA combacia ma non siamo completamente sicuri." Dissero di andare a Tuzla. Così oggi sono andato.

2.

Nella primavera del '95 comprai a mio fratello delle scarpe da ginnastica nuove, Adidas, da uno che viveva all'estero. Le aveva portate da Belgrado ritornando a Srebrenica dalle vacanze. Non le aveva portate nemmeno due mesi quando successe. Gli avevo comprato anche un paio di jeans Levi's 501. Li aveva addosso. Ricordo esattamente quale maglia e quale camicia indossasse.

Il dottore mi ha mostrato oggi le foto dei vestiti. Non è rimasto molto – disse – ma abbiamo le scarpe da ginnastica. Mise la foto sul tavolo e vidi le scarpe, le Adidas di mio fratello, come se le avesse appena tolte. Non erano nemmeno slacciate.

Allora il dottore portò un sacco e rovesciò davanti a me sul cartone tutto quello che rimaneva degli effetti personali di mio fratello, le cose trovate sui suoi resti. Dopo 15 anni di attesa presi le sue scarpe da ginnastica in mano. Trovarono la cintura con la grande fibbia metallica e il resto dei jeans. Avevano anche entrambe le calze. Cercavo la ben nota etichetta Levi's, un indizio in più per aiutarci a confermare la sua identità. Presi in mano, i resti dei jeans. I bottoni metallici. Gli interni delle tasche. Le parti in cotone si erano sgretolate. Non c'erano più. Erano rimaste solo le parti sintetiche. Un'etichetta diversa, solo leggermente sporca, penzolava intera, aggrovigliata tra i fili e i resti. Cercando il contrassegno della Levi's lessi: Made in Portugal.

Tutto il giorno avevo davanti agli occhi quella scritta. Credo che l'avrò davanti per tutta la vita. Forse comincerò a odiare tutto quello che è Made in Portugal, come odio la birra Heineken che i soldati olandesi tracannavano nella base di Potočari, nemmeno un'ora dopo che avevano cacciato tutti i musulmani – dritti nelle mani dei cetnici. O forse comincerò ad amare tutto quello che reca la sigla Made in Portugal, visto che mi ricorderà per tutta la vita il mio fratello ucciso.

3.

Quella volta, a Potočari, si avvicinò a me un giovane soldato olandese, mi offrì una cassa di birra e le Marlboro. Scossi il capo. Lui alzò semplicemente le spalle e si allontanò.

Io invece, come tanti altri, ho continuato a pregare Dio per 15 anni di farmi la grazia di scoprire, una volta che la verità sarebbe venuta a galla, che non avevano sofferto molto, che non erano morti torturati.

Sono 15 anni che sono morti. Quell'anno nacquero dei bambini. Adesso hanno 15 anni; anzi alcuni festeggeranno proprio l'11 luglio il loro quindicesimo compleanno.

Non farò mai e in nessun modo niente che possa mettere a repentaglio il futuro di questi bambini. Non ci penso nemmeno, anzi confidiamo in Dio che questo non debba accadere mai più a nessuno. Solo ricordati, Amico, che non c'è amnistia. Per i boia non ci deve essere amnistia.

4.

Come accaduto già molte volte, anche ieri i giornalisti mi chiesero quale sarebbe il mio messaggio per le future generazioni. Io gli avevo raccontato come dopo Dayton passavo in macchina attraverso la Bosnia orientale cercando le tracce di persone scomparse, assassinate. Sapevo che vicino a Konjević Polje, Nova Kasaba, Glogova sulla strada per Srebrenica, ci sono le fosse comuni, che i prati ne sono pieni. Anche quando attraversavo questi luoghi nei giorni quando tutto fioriva, quando tutto sbocciava, io non ero in grado di vedere quella bellezza. Io vedevo solo le fosse che nascondevano quei prati. Sotto i fiori giacevano i nostri padri, fratelli, figli. Le loro ossa. Viaggiando attraverso i luoghi abitati dai serbi, li guardavo dalla finestra e pensavo: chi di loro è un assassino? Chi è un assassino?

Per anni non pensavo, non vedevo altro. Per anni interi. Poi, un giorno, sul prato che avevo sentito nascondere una fossa comune, vidi giocare una bambina. Avrà avuto 5, 6 anni. L'età di mia figlia. Sapevo che lì abitavano i serbi. Lei correva sul prato. Senti pervadermi un miscuglio di emozioni: tristezza, dolore, odio.

Poi un pensiero mi passò per la mente: quali colpe ha questa bambina? Lei non intuisce nemmeno cosa nasconde il prato, cosa si cela sotto i fiori. Provai pietà per quella povera bambina così somigliante a mia figlia. Potrebbero giocare insieme sul prato – pensai. Desiderai che quella bambina e mia figlia non debbano mai vivere quello che abbiamo vissuto noi. Mai. Loro meritano un futuro migliore. Questo dissi ai giornalisti di Belgrado.

Il dottor Kesetović mi confermò finalmente che per l'11 luglio saranno pronti i resti di mio fratello per la Dženaza, il funerale musulmano. Come se all'ultimo momento mio fratello avesse deciso di farsi seppellire assieme a mia madre, vicino a mio padre che li aspettava a Potočari. Così finalmente mio padre, assassinato a Pilica, esumato a Kamenica, mio fratello ucciso a Pilenica, esumato a Kamenica, e mia madre assassinata a Vlasenica, esumata dal ruscello sotto l'immondizia, riposeranno uno accanto all'altro a Potočari.

Iniziative Su Srebrenica

Il pilastro della vergogna

Azra Nuhefendić 8 luglio 2010

Un'iniziativa dal forte impatto simbolico. Con cui i promotori intendono denunciare il genocidio di Srebrenica e le responsabilità dell'Onu per quanto avvenuto. Il progetto "Pilastro della vergogna" intende ergere una scultura ricolma di scarpe in ricordo delle 8.372 vittime


In occasione del quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, è stato lanciato a Berlino il progetto "Pilastro della vergogna". Il progetto ha come obiettivo la costruzione di una scultura per ricordare le responsabilità di politici e militari occidentali in merito al genocidio di Srebrenica.

Si prevede la costruzione di due gigantesche lettere "U" e "N", riempite da 16.744 scarpe come simbolo delle 8.372 vittime del genocidio. La costruzione del "Pilastro della vergogna" impiegherà un anno e dovrebbe essere completata per l' 11 luglio 2011.




"La scultura è una metafora del colossale imbroglio compiuto dalle Nazioni Unite in Bosnia-Erzegovina, in particolare a Srebrenica, i cui misfatti non sono mai stati oggetto di discussione nel mondo", ha detto Philip Ruh (Philipp Ruch), direttore del "Centro per la Bellezza Politica" a Berlino, promotore del progetto "Pilastro della vergogna".

In una lettera mandata al segretario generale dell'ONU, Ban Ki-moon, Philipp Ruch, scrive: "Abbiamo deciso di sostenere le madri di Srebrenica accusandovi, ma non davanti a un giudice. Lo faremo tramite un'immagine che rappresenterà il fardello che dovete portarvi sulle spalle, e condanneremo ancora una volta il vostro abuso senza precedenti avvenuto in Bosnia Erzegovina a Srebrenica. Avete mischiato stupratori e assassini con le vittime e avete affermato che sono tutti colpevoli. Non continueremo ad assistere inermi ai vostri complotti", scrive senza mezzi termini Ruch.

Nella lettera, oltre ad accusare le Nazioni Unite di assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle famiglie delle vittime del genocidio, dichiara che ogni anno le Nazioni Unite ignorano le richieste scritte di Hasan Nuhanović, uno dei sopravvissuti del genocidio, di esporre una bandiera a mezz'asta davanti al quartier generale dell'ONU a New York in data 11 luglio.

Philipp Ruch spiega come sia nata l'idea della scarpa: "Ho pensato a cos'è che tutti possiedono in casa. Tutti hanno scarpe e stivali e inoltre la scarpa è l'oggetto che più sopravvive ai cadaveri. Ho deciso quindi di utilizzare le scarpe per simboleggiare le vittime, unite nel monumento alla vergogna".

Le scarpe saranno esposte all'Aia, a Berlino, e poi al Centro Memoriale di Potocari, luogo di sepoltura delle vittime del genocidio. A Potocari ogni 11 luglio vengono sepolti i cadaveri delle vittime rinvenuti nelle fosse comuni, e identificati nel corso dell'anno trascorso. l progetto "Pilastro della vergogna", è sostenuto anche dalla Società Internazionale per i Popoli Minacciati.

Le scarpe fin'ora raccolte sono esposte all'Aia, dove si sta svolgendo il processo contro Radovan Karadžić.

L'11 luglio, per il quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, le scarpe saranno esposte a Berlino davanti alla Porta di Brandeburgo, considerata la più grande attrazione turistica della città.

Il progetto "Pilastro della vergogna" prevede che a donare le proprie scarpe siano cittadini comuni e personaggi popolari, anche al di fuori del confine bosniaco. Mentre si fanno fotografare scalzi, sono invitati ad esprimere ciò che pensano della Bosnia Erzegovina o si augurano per il suo futuro.

Per non dimenticare Srebenica


11 luglio 1995 – 11 luglio 2010
Perché la memoria di Srebrenica sia fonte di vita
Di quanto è accaduto in tutta la cosiddetta “ex Jugoslavia” a partire dal 1992, non sono responsabili solo i soggetti coinvolti nel conflitto: tutta la comunità internazionale non può lavarsene le mani, infatti nel migliore dei casi ha distolto lo sguardo, fingendo di non vedere, e, quando è intervenuta, si è dimostrata debole, impotente e, in alcune situazioni corresponsabile e complice.
A Srebrenica si è toccato il fondo: i Caschi Blu dell’ONU si sono resi complici del genocidio.
Da allora la nostra fiducia nelle Nazioni Unite, già molto provata, si è gravemente incrinata.
Non c’è pace senza giustizia, non può cominciare una vita nuova se non si è fatta chiarezza sul passato, ciò significa concretamente individuare i responsabili e processarli, non solo chi ha pianificato e commesso materialmente il genocidio, ma anche chi – come l’ONU - è stato a guardare e ha lasciato fare.
Giustizia significa anche permettere ai familiari delle vittime, alle sopravvissute e ai sopravvissuti, di poter affrontare in condizioni dignitose la loro vita, così crudelmente devastata, in un contesto pacificato.
Siamo convinte però che, affinché tragedie come quella di Srebrenica non si verifichino più, nemmeno questo sia sufficiente: è necessario un cambiamento nella struttura dell’ONU, che tolga alle cosiddette grandi potenze le leve del comando, affinché essa possa svolgere un ruolo efficace di interposizione e protezione della popolazione civile.
Noi, responsabili forse allora di non aver gridato abbastanza forte per denunciare e chiedere giustizia, ci siamo fatte carico - e continuiamo a farlo -, di non far cadere il silenzio su Srebrenica e su tutti gli altri massacri che continuano a compiersi in tutto il mondo calpestando i diritti umani e il diritto internazionale; di reclamare che siano accertate le responsabilità, soprattutto delle Nazioni Unite e del nostro governo; di lavorare per dare credibilità alle istituzioni preposte al mantenimento della pace; di farci voce dei familiari delle vittime e delle sopravvissute e dei sopravvissuti nelle loro legittime rivendicazioni.
Perché questa data non sia la celebrazione di un rituale che lascia le cose come stanno, perché l’11 luglio non diventi l’alibi per mettersi a posto la coscienza dimenticando poi, in tutti gli altri giorni, le sofferenze e le ingiustizie che chi è rimasto in vita continua a subire.
A loro, familiari delle vittime, sopravvissute e sopravvissuti, diciamo:
“Perdonate se non sempre abbiamo alzato forte la nostra voce, vogliamo essere al vostro fianco e sostenere le vostre rivendicazioni. Grazie per la vostra tenacia nel proseguire l’impegno per la verità e la giustizia. Non arrendetevi, ma non consacrate la vostra vita al lutto. Vivete anche per chi non c’è più”

Donne in Nero di Padova

01 luglio 2010

Riassunto della discussione dell’incontro di Padova delle Din del 26- 27 Giugno

Spero che ci sia qualche commento o elaborazione . Coraggio

SULLA MILITARIZZAZIONE

Incontro di Padova, 26-27 giugno 2010


 

Al nostro incontro sulla militarizzazione erano presenti, oltre a una ventina di Donne in Nero di Padova, Bologna, Verona, Schio, Udine, Torino, Bergamo, Modena, anche donne di Vicenza del Gruppo Donne del Presidio Permanente No Dal Molin e di Femminile Plurale. Questo incontro è stato preceduto da uno scambio di riflessioni e documenti (che si possono vedere su www.gmail.com, nome utente din.documenti, password pace1234), frutto delle discussioni ed elaborazioni di diversi gruppi di DiN, che - anche se non hanno potuto partecipare – hanno contribuito. Perciò rileviamo ancora una volta come l'incontro abbia stimolato in tutte noi il confronto e l'elaborazione…

Le DiN di Padova hanno preparato un documento introduttivo, che hanno presentato proponendo un percorso di interrogativi su cui discutere (si può leggere sempre su www.gmail.com. Oppure sul loro blog: http://controlaguerra.blogspot.com/ ). Riassumo qui la discussione di quasi due giorni; non facile, e a volte ondivaga – il caldo e la complessità non aiutano – cercando di raggruppare per temi gli argomenti toccati.


 

VICENZA

Le donne di Vicenza ci raccontano gli ultimi passi della loro costante – anche se faticosa – opposizione alla base: non solo per la difesa del proprio territorio, ma anche e soprattutto in quanto base di guerra. La costruzione della base prosegue, malgrado siano stati trovati reperti archeologici i lavori proseguono altrove. Loro sono sempre attente e vigili, per cogliere ogni occasione di interventi; ogni sabato manifestano, raccolgono firme per la salvaguardia del parco in cui hanno piantato alberi (v. le ultime buone notizie!), cercano contatti diretti con la gente, anche se adesso è più difficile per il clima di indifferenza o rassegnazione: malgrado l'opposizione civile la base sta sorgendo e cresce, e diventerà una città militarizzata, in cui sono previste ben 15.000 – 17.000 persone! Non è stata fatta la valutazione di impatto ambientale, e si sa che la falda è in pericolo di inquinamento; per questo hanno organizzato la Festa dell'Acqua. Sottolineano come sia importante essere continuative nell'impegno, nella vigilanza di quanto accade, nella continua ricerca di contatto con la gente, nella "cura della smilitarizzazione delle menti", ma anche nella chiarezza della propria opposizione in quanto opposizione alle guerre che si fanno per difendere gli interessi (economici) USA nel mondo, nella consapevolezza dell'ipocrisia dei governi e dei ricatti cui sottostanno le istituzioni. Sottolineano anche la necessità di essere creative, anche nella ricerca di nuove forme di opposizione.


 

BALCANI

Sono arrivate le comunicazioni delle ZuC a proposito delle iniziative per il 15° anniversario del genocidio di Srebrenica. Ci saranno iniziative a Belgrado, il 7 luglio la performance "Una scarpa – una vita" cui ci è richiesto di partecipare con messaggi, e l'11 luglio la commemorazione a Potocari. Patricia ci informa che da Belgrado a Potocari è prevista una lunga marcia con iniziative lungo il percorso; non sappiamo chi potrà partecipare, e ci impegniamo a inviare per posta normale (oltre che per posta elettronica) i nostri messaggi, ringraziando le ZuC che metteranno a disposizione le scarpe che non portiamo di persona. [Vedi mail di Marianita, DOPO L'INCONTRO DI PADOVA ALCUNE RICHIESTE URGENTI]


 

INCONTRI INTERNAZIONALI IN COLOMBIA

Abbiamo parlato brevemente dei due incontri a Bogotà (di agosto, convocato da Movimiento Social de Mujeres contra la Guerra y por la Paz e Marcha Mundial de las Mujeres, e di novembre, XV° Incontro Internazionale delle Donne in Nero, convocato dalla Ruta Pacifica de las mujeres). Patricia invierà l'adesione della nostra rete a entrambi, verificando chi può e vuole partecipare. Quanto ai contenuti della nostra partecipazione, pensiamo che l'incontro nazionale dell'autunno potrà definirli meglio.


 

MILITARIZZAZIONE-MILITARISMO

Oltre a quanto detto nei documenti, sia quelli preparatori di questo incontro sia quelli precedenti, sono stati evidenziati nella discussione argomenti specifici che ci paiono più problematici, o non sufficientemente approfonditi.


 

Cosa ci sembra utile e importante per intervenire come DiN contro la militarizzazione delle menti:


 

ISRAELE/PALESTINA

Abbiamo bisogno di caratterizzare come DiN il nostro impegno; sull'adesione alla campagna per il BSD va chiarito che non è contro i cittadini israeliani, ma contro l'economia di guerra israeliana, contro l'occupazione e gli insediamenti dei coloni; ci sono ancora ambiguità, ad esempio nelle risposte che Coop o Legambiente hanno dato, ma anche nella realtà di produttori palestinesi che sono costretti o indotti ad utilizzare canali israeliani per esportare i propri prodotti; per il boicottaggio accademico ci riferiamo alle collaborazioni, specie militari, tra le università, non ai singoli, e non dobbiamo dimenticare il sostegno al diritto di studio palestinese e alle loro università.

In particolare sull'adesione delle DiN alla campagna si sente il bisogno di sapere quali e quanti dei gruppi in Italia ci stanno lavorando, con quali modalità, con chi, e di scambiare materiali ed esperienze.

Va anche ricordato che non c'è solo il BDS: il recente viaggio in Palestina/Israele ha messo in evidenza le molte forme di resistenza nonviolenta che sono in atto da parte di palestinesi, internazionali e israeliane/i, la dura repressione che subiscono da parte del governo israeliano, e la forte richiesta di dar valore e voce a quanto stanno facendo.

Quindi è importante raccontare le esperienze e aiutare a capire quanto là sta avvenendo.

Abbiamo anche parlato della Freedom Flottilla e di altre azioni analoghe che sono in preparazione: all'ipotesi di partecipazione diretta delle DiN sono state poste perplessità riguardo alla possibilità di controllare e far funzionare, in azioni di massa, le tecniche di nonviolenza.


 

PARLIAMO DI NOI

La ricerca del senso di quanto facciamo continua ad essere un'esigenza radicata. Ci raccontiamo alcune esperienze locali di collaborazione positiva con altri gruppi e associazioni: a Torino il "Pride dei diritti", a Schio lo sciopero dei migranti del 1° marzo, a Udine la Rete dei Diritti, a Bologna sulla campagna BDS ed altri temi.

Ma parlando più specificamente di noi come DiN, si manifestano disagi – la scarsità di risultati e quindi mancanza di efficacia, la difficoltà ad elaborare il pensiero, travolte dalle attività ed emergenze continue, la percezione del contesto mutato in cui ci troviamo, la percezione della necessità di svecchiare pratiche e pensiero, di superare la dimensione di testimonianza delle uscite per offrire pratiche che siano durevoli e incisive, pur non sapendo quali. Siamo soggetto politico? Vogliamo diventarlo o ciascuna segue il destino della sua città?

Ci chiediamo anche quali gruppi ancora mantengano le pratiche "tradizionali" delle DiN (riunioni settimanali, uscite periodiche in nero e in silenzio…) e in generale quali siano le pratiche degli altri gruppi, quanto siano ancora vivi e presenti i principi che hanno animato pratiche e campagne del passato (v. documenti delle Donne in Nero di Belgrado e Israele, ma anche le nostre campagne "Io donna in Palestina", "Nafas"…). Manca una conoscenza reciproca che ci permetta di parlare di una Rete delle Din, sapendo che la lista elettronica ne rappresenta solo una parte, e ne deforma la visibilità e l'incidenza. Manca un coordinamento e scambio anche per le azioni che molti gruppi condividono – come BDS o militarismo, non sappiamo neppure con quali modalità. Siamo in grado di individuare come lavorare a un impegno condiviso, partecipato e coordinato?

Abbiamo bisogno di elaborare e approfondire il nostro pensiero e di trovare parole e azioni per esprimerlo. Prendere la parola contro la guerra è già un'azione politica, anche perché è una parola che nessuno più pronuncia, ma come farlo insieme? Come fare ad andare oltre la proclamazione di slogan che restano inadeguati e poco significativi se non sono accompagnati da un'azione politica? Ad esempio, Fuori la guerra dalla storia, rischia di essere uno slogan vuoto, mentre proprio oggi è più attuale che mai come utopia e percorso, capace di dare un significato, in cui ancora ci riconosciamo, al nostro essere Donne in Nero; proprio perché la guerra è ormai guerra totale nelle nostre vite, fatta contro e da civili, è sfacelo del tessuto sociale e anche polizia internazionale e "aiuti internazionali"; è guerra "santa" il cui nemico è demonizzato, disumanizzato, con cui non si può parlare né tantomeno trattare.

Ancora una volta quindi ribadiamo la necessità di sottolineare l'importanza della responsabilità personale, a tutti i livelli, ma soprattutto nostra, di opposizione e denuncia dei nostri governi: non in nostro nome! Ciò richiede da parte nostra innanzi tutto studio, riflessione, confronto ed elaborazione che permettano poi di assumere posizioni e individuare azioni in modo più consapevole e condiviso.


 

DIAMOCI DEI COMPITI

Facciamo quindi alcune richieste e proposte alla rete delle DiN, comprese, ovviamente, noi stesse:


 

- Abbiamo esigenze di conoscenza reciproca e scambio: diciamoci quali sono le nostre pratiche attuali come DiN, se e come siamo attive per la campagna BDS e contro il militarismo; inviamo alla lista il materiale che elaboriamo, raccontiamo le azioni per diffonderlo. Coordiniamo, per quanto possibile, le nostre attività.

- Come avrete visto dal loro documento, le DiN di Bologna hanno proposto una campagna nazionale contro la guerra in Afghanistan e per il ritiro delle truppe. Anche se di questo argomento molti gruppi si sono già da tempo fatti carico, riteniamo che sarebbe necessaria un'iniziativa della rete a partire dalla nostra condizione di donne e cittadine che mettono il discussione le scelte dei nostri governi, costruita insieme da tutte, soprattutto per definirne le modalità: denuncia? richiesta alle istituzioni? altro?

- Per l'incontro nazionale di ottobre [per cui avevamo proposto Orbetello o L'Aquila, sarebbe importante sapere se le DiN de L'Aquila hanno verificato la possibilità di tenere l'incontro da loro in tempi abbastanza brevi per poter fissare data e luogo], vorremmo impegnarci tutte a lavorare ancora sui temi della militarizzazione, invitando allo scambio e alla partecipazione ogni gruppo DiN; speriamo che queste note possano essere utili all'incontro che i gruppi DiN di Napoli, Roma, l'Aquila terranno a luglio, come speriamo di ricevere i loro contributi.

Buon lavoro a tutte noi!

24 giugno 2010

Per pensare alla Militarizzazione

Introduzione all'incontro del 26-27 giugno 2010 a Padova


 

"A lungo rimossa, considerata un tema storicamente superato, collettivamente tabuizzata, la guerra di nuovo ci accompagna e, seppure in uno scenario profondamente mutato, è stata riabilitata.(…) Nel mondo occidentale si è sviluppata e istituzionalizzata una cultura della pace: la guerra che si muove in nome delle vittime è una buona azione, una guerra di pace"

Nicole Janigro


 

"Non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di queta guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove."

Etty Hillesum


 

Volendo introdurre questo incontro ci siamo rese conto che il tema "militarizzazione" – individuato ad Orbetello come un tema da tutte sentito come prioritario - è estremamente vasto e complesso.

Anna Valente nella sintesi aveva scritto:
"Di militarizzazione abbiamo cominciato a parlare molto presto, e il tema ci ha accompagnate per tutto il tempo. Per militarizzazione non intendiamo solo la presenza di militari, armi, basi – che certo non dimentichiamo, dagli F-35 a Vicenza, a Napoli -; pensiamo anche alla militarizzazione dei territori e delle menti, l'occupazione degli spazi – fisici e no -, la repressione delle libertà, la sparizione delle priorità sociali".

Un'osservazione innanzi tutto: è dall'incontro di Valencia che continuiamo a riproporre questo tema; ne abbiamo discusso in più occasioni, c'è stato un incontro specifico a Napoli nel 2008, se ne è discusso anche a Torino nel 2009, abbiamo organizzato una manifestazione a Vicenza con le donne della città, eppure non siamo riuscite ad abbozzare una proposta che coinvolgesse tutti i gruppi in un lavoro comune per approfondire, attualizzare, concretizzare, comunicare la militarizzazione.


 

L'incontro di oggi si pone l'obiettivo di preparare un incontro nazionale che risponda a queste esigenze. Dobbiamo quindi cercare di individuare alcuni aspetti di questo tema vasto e complesso che ci sembrino prioritari su cui concentrarci.


 

Nel tentativo di articolare delle proposte di lavoro vogliamo tenere presente quanto avevano scritto le DiN di Udine sulla necessità di un ripensamento del nostro essere Donne in Nero alla luce dei cambiamenti socio-politici-economici dell'ultimo decennio:

"Gli eventi che hanno riguardato il nostro paese nell'ultimo decennio - dal crescente coinvolgimento nelle guerre globali all'avvento di una destra di governo autoritaria e razzista, dal progressivo deteriorarsi del sistema della rappresentanza al liquefarsi dei partiti della sinistra -  ci pare abbiano segnato la fine di un ciclo, di cui come DiN dovremmo prendere atto. La nostra nascita come movimento è avvenuta in un contesto storico diverso. Le prospettive politiche e le convinzioni che ci animavano negli anni '90 del Novecento, le pratiche, i linguaggi, gli stessi slogan usati nelle manifestazioni di piazza sono ancora validi in uno scenario così radicalmente mutato? Non andrebbe riconsiderato, problematizzato, arricchito, comunque discusso il nostro profilo? Ci sembra che all'interno della Rete italiana manchi l'esigenza di una analisi su un percorso compiuto, come se il nostro esistere potesse esprimersi attraverso l'inerzia e la riproposizione del noto e del già sperimentato". 


 

Vogliamo tentare di porre degli interrogativi, per capire quali sono più urgenti e su cosa ci dobbiamo soffermare, consapevoli della necessità di comunicare e mettere a confronto le nostre riflessioni e proposte con quelle che verranno da altre, ad es. le donne di Napoli, Roma e L'Aquila, che si riuniranno il 6 luglio sempre in preparazione dell'incontro nazionale, e le donne di Ravenna che stanno lavorando sul "militarismo, con un'ottica alle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione e dal liberismo e con una nuova attenzione al discorso sui 'beni comuni' fra cui noi mettiamo anche la pace" e continuando a seguire il discorso sulle spese militari con le ricadute sulle spese sociali.


 

La nostra proposta di lavoro è:

1. dedicare questo sabato pomeriggio a comunicarci le nostre analisi su vari aspetti del tema generale e su esperienze di contrasto alla militarizzazione;

2. domenica concentrarci sulle pratiche e su percorsi possibili per noi Donne in Nero.

Per introdurci nel tema abbiamo preparato una serie di interrogativi che ci aiutino nella discussione. Siamo consapevoli che questo elenco è sicuramente parziale e incompleto, ma pensiamo possa essere utile per iniziare:


 

- Come sono cambiate la guerra, il ruolo degli eserciti e la percezione della guerra?

Scrive Mariolina: "Gli attuali eserciti sono sempre più complessi e tecnicamente sofisticati. Per ogni singolo combattente ce ne devono essere altri 9 o 10 (12 o 13 per un tiratore scelto) che garantiscono logistica, infrastruttura, mantenimento, ricambi in prima linea. Su un'armata di 300.000 uomini 30.000 tra loro vanno realmente in combattimento, mentre tutti gli altri sono impegnati ad assicurare il funzionamento dell'umana macchina bellica. Inoltre le attuali guerre presuppongono contemporaneamente l'uso spropositato della forza e l'immediato intervento umanitario, politico, psicologico, commerciale. E' la guerra preventiva, eterna, umanitaria teorizzata dai neocons e theocons".

In un recente articolo di Danilo Zolo su Il Manifesto, recensendo l'ultimo libro di Alessandro Dal Lago – Le nostre guerre (1) – si parla di "processo di normalizzazione della guerra": "L'industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi, inclusi gli ordigni nucleari, sono sottratti a qualsiasi controllo della cosiddetta «comunità internazionale». E l'uso delle armi dipende sempre più dalle decisioni che le grandi potenze occidentali prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche. 
In questi anni, sentenze di morte collettiva sono state emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale". Chi vive in Occidente – continua l'autore - lontano dai luoghi di conflitto armato, non vede le sofferenze altrui, il martirio di intere popolazioni ed ha una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre.

La guerra ha quindi molte facce a seconda di chi la fa, da dove la si guarda, da come ci viene comunicata dai media. Tanto più considerando la caratteristica dell'asimmetria delle guerre globali di oggi: l'uso di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e potenti ha reso soverchiante il potere distruttivo degli aggressori e sottratto agli aggrediti ogni speranza di salvezza, anche se i conflitti rimangono insoluti e senza vincitori.


 

- Esiste una continuità tra le politiche della sicurezza e quelle militari? C'è mescolanza tra ambiti e competenze civili e militari nelle nostre città e nelle guerre?

Il processo di costruzione del nemico, necessario per scatenare un conflitto armato, viene messo in atto anche all'interno delle nostre società come modalità di gestione dei conflitti sociali (vedi la trasformazione del migrante da "straniero" a "clandestino" e quindi "criminale" e "nemico").

Anche l'uso privilegiato della violenza e della pulizia etnica di fronte a situazioni conflittuali si trasferisce dal globale al locale.


 

- Cosa significa militarizzazione del territorio, delle risorse naturali, della società, delle menti?

Intanto cosa vuol dire "militarizzazione" e cosa vuol dire "militarismo"? Quando possiamo dire che un territorio, una società sono militarizzati?

[Dallo Zingarelli:
militare = relativo alla milizia, ai soldati e alle forze armate; militarismo = esasperazione dello spirito e del formalismo militare; preponderanza dei militari e dello spirito militare nella vita di uno stato; militarizzazione = effetto del militarizzare, sottoporre a disciplina militare…, organizzare con sistemi militari, dotare di installazioni e strutture militari. Dal Devoto Oli: militare = attinente all'ambito strutturale e operativo delle forze armate; militarismo = l'asservimento della vita politica e delle funzioni e dei rapporti sociali e culturali agli schemi di una visione militare; atteggiamento nazionalistico che ritenga la guerra mezzo insìdispensabile a conseguire il prestigio politico nel mondo; militarizzazione = inserimento in un quadro costituito in base a esigenze o metodi di ordine militare]

Le spese militari italiane (missioni all'estero come l'Afghanistan, armamenti come F-35 ecc.), l'appartenenza alla NATO, la presenza di basi militari NATO o USA (anche con testate nucleari), la produzione e il commercio di armi, sono effetti o causa della militarizzazione? O entrambi?          

                                                       
 

- Donne, guerra, militarizzazione: quali connessioni? qual è la situazione attuale?

In un nostro intervento nel 2008 scrivevamo:

"La guerra sia che la subiamo sia che la facciamo, ci riguarda in quanto donne. Non solo perché le vittime delle guerre e delle sue conseguenze dirette e indirette, sia nella fase acuta sia nel post-guerra, sono moltissimo le donne (non occorre arrivare agli stupri etnici, basta la fatica nel creare, ricreare, mantenere la quotidianità, il minimo tessuto sociale della comunità), ma soprattutto perché la guerra, come modalità di risolvere i conflitti con la forza, è la più estrema espressione della struttura e cultura patriarcale (e questo sia per le sue modalità sia per come ne vengono costruite le premesse con la creazione del nemico di turno, il "diverso" da "noi"). Per questo le donne sono "estranee" alle strategie delle guerre. Analizzando le guerre dei nostri giorni, le donne in generale non sono guerrafondaie, ma nemmeno più pacifiste degli uomini, ma quello che emerge è proprio l'estraneità alle scelte, alle tematiche di guerra per la maggioranza delle donne; le eccezioni, che pur non si devono nascondere, assumono come proprio il modello maschile (la madre dell'eroe, la ragazza che vuole entrare nei reparti di combattimento…). Insomma tutta la storia, e in particolare le storie delle donne nelle guerre di questi ultimi anni, ci ricordano che nelle guerre le donne sono destinate a scomparire, o relegate ad un ruolo di riproduttrici di figli per la patria e di mogli di combattenti, o usate come corpi che forniscono piacere all'occupante ed anche all'occupato, o stuprate in maniera pianificata per la pulizia etnica, o quantomeno, se coinvolte direttamente nella gestione del conflitto, costrette a rimandare le loro rivendicazioni ad un futuro migliore indefinito. Tutto questo è stato ed è sotto i nostri occhi in Algeria, in Jugoslavia, in Afghanistan, in Palestina, in Iraq, in Cecenia, in Colombia, in tutte le guerre dell'Africa."

E ancora: "La scelta di stare dalla parte delle donne o meglio di privilegiare il loro punto di vista di genere, nasce dunque in primo luogo da queste considerazioni, dalla consapevolezza che la guerra come arma di risoluzione dei conflitti, economici, politici o etnici, usa le donne come oggetti contro il nemico riducendole in una situazione di totale controllo. Ma questa scelta di stare dalla parte delle donne è dovuta anche al riconoscimento della loro capacità, dimostrata in questi anni, di costruire dei ponti con altre donne, di superare i confini e di agire nei conflitti per cercare di trovare ciò che unisce, ciò che può essere un punto di partenza per ricostruire le relazioni delle società civili nei luoghi che sono attraversati da conflitti violenti, opponendosi con forza alla guerra e al militarismo, rifiutando la logica delle armi, del nazionalismo, della militarizzazione delle società, scegliendo di parlare in prima persona, assumendosi una responsabilità individuale di resistenza alla guerra e a tutto ciò che comporta in termini di distruzione, odio, esclusione".

Condividiamo ancora questa analisi? E' ancora valida o superata? Perché?


 

- Quali le nostre pratiche di Donne in Nero in relazione a questi temi?

Le difficoltà attuali si inseriscono nella crisi generale dei movimenti pacifisti, a nostro avviso riconducibile a più fattori, tra cui ci paiono importanti da una parte il senso di sconfitta dopo la guerra contro l'Iraq, dall'altra il non essere riusciti a creare consenso duraturo intorno ai loro principi, e soprattutto il deterioramento del clima politico e culturale.

Rileggendo con attenzione dei testi che ci sono parsi molto significativi [La specificità di genere nell'opposizione alla guerra di Enrica Panero, Laura Poli e Paola Porceddu in

La guerra non ci da pace, a cura di Carla Colombella, SEB27, Torino 2007; La rete delle Donne in Nero: tra capacità e limiti, tra locale e globale di Elisabetta
Donini in La nonviolenza delle donne, a cura di Giovanna Providenti, Libreria Editrice Fiorentina, 2006, e una raccolta di testi di Donne in Nero curata dalle Donne in Nero di Torino (2)], ci chiediamo:

- che cosa del pensiero e delle pratiche delle Donne in Nero rimane nei nostri gruppi?

- questo pensiero e queste pratiche sono davvero superati o li abbiamo svuotati del loro significato originale?

- quali altre pratiche più efficaci nel mutato contesto socio-politico-culturale proponiamo?

[Dalla sintesi di Orbetello: come declinare le azioni politiche in questo contesto cambiato? Ecco alcune indicazioni emerse dal dibattito, anche se potranno sembrare approcci particolari, parziali, possono essere utili:

- Sostenerci a vicenda: fare rete, cioè avere temi generali condivisi e azioni politiche specifiche a livello locale.

- Scegliere obiettivi piccoli nel locale, unirci per i grandi obiettivi.

- Riprendere spazi di parola, che sempre più si stanno restringendo.

- Fare controinformazione e testimonianza, con continuità.

- Imparare dalle donne dei luoghi difficili.

- Cercare un linguaggio migliore, una comunicazione più efficace verso l'esterno, evitare slogan che ossono apparire vuoti.

- Fare meno cose, ma con più partecipazione e interesse.

- Non sciogliersi in altri gruppi, ma inserirvi il nostro discorso.

- Essere di riferimento soprattutto per le donne.

- Lavorare anche sul linguaggio quotidiano.

- Usare di più gioia, creatività e poesia.

- Realizzare azioni pacifiste spiazzanti.

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Note:

  1. Questo articolo ed altri apparsi su Il Manifesto del 16 maggio 2010 li potete trovare nella pagina creata da Jane su www.gmail.com dove si trova anche il testo di Mariolina "Mi piacciono i corpi addestrati".
  2. Anche i testi di Donini e la raccolta curata dalle Donne in Nero di Torino si possono trovare nello stesso luogo; il testo dal libro di Colombella non siamo riuscite a trasformarlo in file, inseriamo però una recensione dell'opera che offre senz'altro strumenti utili per la riflessione e per la pratica.