Donne in Nero per fare rete contro la guerra
"Dalla scoperta del nostro spaesamento negli stati, nelle ideologie, nelle istituzioni, di fronte ad avvenimenti internazionali che ci sgomentano, nasce questa necessità di riconoscerci, nel duplice senso di riconoscimento nelle altre e di nuova conoscenza di sé: conoscerci, riconoscerci nelle altre donne che al di qua e al di là di nuovi e vecchi confini stanno guardando con occhi di donna il mondo."
(Marina Fresa, in Donne in Nero di Mestre-Venezia 1991-92, p.4)
Non è facile tracciare un quadro delle cento e cento iniziative che hanno contraddistinto e contraddistinguono il percorso delle Donne in Nero di Belgrado, raccontare le loro pratiche, esporre il loro pensiero. Non è facile fare una sintesi efficace tra centinaia di documenti - volantini, comunicati, mail, articoli di giornali, interviste, ma anche un'intensa attività editoriale sulla storia delle donne e la guerra – che narrano delle "proteste" pubbliche in nero e in silenzio nelle piazze di Belgrado e di altre città della Serbia, delle campagne a favore dell'obiezione di coscienza, dell'appoggio ai disertori, del lavoro nei campi profughi, dei laboratori itineranti attraverso la Serbia e il Montenegro per la formazione di gruppi di donne per la pace nel tentativo di cambiare la mentalità che genera la guerra e il nemico, e della crescita straordinaria di una rete di donne che ne è conseguita; del lavoro e dello studio per la giustizia transizionale, per un confronto con il passato e contro i crimini di guerra, della presenza in tribunale nei processi contro i criminali, del sostegno alle famiglie delle vittime, delle visite nei luoghi dove questi crimini furono perpetrati.
Non è facile soprattutto perché per me conoscere Staša, Rada, Lepa, Jadranka, Neda, Violeta, Fika, Dunja, Borka, Ljiljana… e tante altre di cui non ricordo il nome, ma conservo vivo il ricordo, ha costituito un'esperienza che ha segnato una tappa importante della mia vita.
Ho incontrato per la prima volta le Donne in Nero di Belgrado nell'ottobre del '94. Facevo parte della Rete di iniziative contro la guerra della mia città, Padova, che aveva organizzato vari viaggi per stabilire relazioni con realtà antimilitariste serbe e portare loro concreta solidarietà. Ricordo l'ospitalità nella loro sede nel centro della città, il piccolo appartamento all'ultimo piano di un condominio popolare, la porta sempre aperta, il caffè sempre pronto e queste donne sempre disponibili, chiare nell'analisi, concrete nell'azione. In quel periodo lavoravano nei campi profughi, profughe anche alcune di loro, con addosso le ferite della guerra.
Non facevo ancora parte del movimento delle Donne in Nero, ma conoscevo alcune donne italiane che lo erano e che sin dal '91 avevano cominciato a recarsi in quella che era ancora la Jugoslavia; avevano conosciuto quelle che sarebbero diventate le Žene u crnom, le Donne in Nero di Belgrado, dando vita ad una relazione destinata a incidere nelle vite delle une e delle altre. Attraverso queste amiche italiane cominciai a conoscere le pratiche e il pensiero delle amiche di Belgrado che così raccontavano la nascita del loro movimento:
Noi, Donne in Nero della città di Belgrado abbiamo cominciato nelle strade di uno stato che ha messo in moto il meccanismo della guerra cercando di persuadere la popolazione che «la Serbia non era in guerra» e che «la Serbia è la più grande vittima e ciò le dava il diritto storico di sparare per prima per difendersi». La maggioranza della popolazione di questo paese è stata formata dai media statali a vivere convinta che la guerra era lontana e non aveva niente a che fare con essa.
Noi, Donne in Nero, eravamo piene di amarezza e, come femministe, sapevamo che la nostra amarezza, la nostra disperazione e i nostri sensi di colpa dovevano essere trasformati in resistenza politica pubblica. Noi non volevamo che la nostra profonda indignazione politica contro i guerrafondai restasse una semplice rivolta morale.
Il 9 ottobre 1991 siamo scese in strada e abbiamo fondato le Donne in Nero ispirandoci all'ostilità contro la guerra delle donne di Israele, Italia e Spagna.
Da allora sono tornata più volte a Belgrado e in Vojvodina e in Montenegro per gli incontri della Rete internazionale delle Donne in Nero a cui esse diedero vita.
Ricordo il viaggio nella Belgrado gelida del dicembre del '96, le strade affollate da una massa di persone che protestava contro il governo, e le Donne in Nero - tra i pochi ad essere sempre state contro la guerra, e per questo spesso maltrattate e insultate da molti degli stessi che ora manifestavano - in prima linea, liete per un lungo silenzio finalmente rotto, per la paura cacciata indietro; da più di un mese le persone uscivano di casa (con quel freddo!) per dire No! al potere che le opprimeva e negava la loro voce non riconoscendo i risultati delle elezioni. Loro distribuivano un volantino - "la nonviolenza è la nostra scelta" - con cui invitavano a partecipare senza cedere alle provocazioni.
Ricordo il primo incontro della Rete Internazionale delle Donne in Nero contro la guerra a cui partecipai nel 1997, su un'isoletta sul Danubio a Novi Sad. Dal '92, in piena guerra, questi incontri erano stati creati come ponte per le comunicazioni interjugoslave diventate impossibili: uno spazio per offrire alternative, per proclamare il rifiuto dei nazionalismi guerrafondai che volevano separare con le loro frontiere etniche donne che rifiutavano di essere nemiche e cercavano faticosamente di costruire insieme una loro politica alternativa. Ricordo ancora il cerchio di donne sedute sull'erba, le tante lingue che si mescolavano e lo scoprire con gioia di venire da tanti luoghi diversi: dalla ex-Jugoslavia intera - Serbia, Croazia, Vojvodina, Sangiaccato, Montenegro, Kossovo, Macedonia, Slovenia, Bosnia Erzegovina -, e poi da Algeria, Israele e Palestina, Turchia, Cecoslovacchia, Cecenia, Austria, Norvegia, Danimarca, Germania, Belgio, Francia, Svizzera, Inghilterra, Italia, Spagna, Grecia, Stati Uniti d'America. E in più lingue veniva letto il documento che ricapitolava gli anni di resistenza alla guerra e all'odio, di solidarietà femminista:
Sono sei anni che stiamo creando insieme uno spazio per la diversità delle donne, in cui ascoltiamo esperienze di donne di lingue diverse, di culture diverse. Alcune di queste esperienze di donne si sono impresse nelle nostre anime e nei nostri corpi per sempre. Non siamo più le stesse di prima, partiamo sempre dalla microstoria, dalle esperienze concrete delle donne, creando l'etica e la politica della differenza…. Continuiamo a rendere visibile la nostra resistenza di donne alla guerra, ed anche la nostra resistenza a tutte le forme di controllo sulle donne. Rifiutiamo il ruolo di vittime passive di politiche nazionaliste-militariste. Desideriamo dar vita a nuove forme di solidarietà nella nostra stessa diversità. Solidarietà non è nè carità nè paternalismo. Solidarietà è appoggio reciproco, tenerezza, amicizia, sorellanza.....
Ricordo queste parole farsi storie, raccontate con voci che spesso si spezzavano, nei gruppi di lavoro in cui le donne mettevano in comune il loro dolore per le vite devastate dalla guerra, ma anche le speranze perché, nonostante tutto, erano riuscite a salvare e anche a creare amicizie, relazioni, una base per un futuro possibile. Avere compagne ed amiche - sostenevano -, questo fa vincere l'odio e la paura: vince la guerra chi vince l'odio.
Ma la guerra continuava e vennero i giorni delle bombe sul Kosovo e la Serbia. La guerra non era più un tabù come forse ci eravamo illuse: diventava "umanitaria". Altra però era la realtà che ci raccontavano da Belgrado le amiche raggiunte telefonicamente, intrappolate tra le bombe della NATO e il regime di Milošević che da esse ne usciva rafforzato mentre qualsiasi opposizione diventava impossibile. Giorni da loro vissuti con rabbia, paura, trepidazione per le amiche albanesi con cui rimanevano ostinatamente in contatto. Scriveva Staša Zajović alle amiche della Rete delle Donne in Nero:
…sappiamo che questo complotto del militarismo locale e globale riduce pericolosamente il nostro spazio e tra breve lo farà sparire. Come accusare il militarismo globale senza accusare quello locale, come accusare i bombardamenti senza accusare i massacri, la repressione, l'orrore che sta vivendo la gente del Kosovo che, con questo intervento NATO, sta pagando un prezzo ancora più grande di prima? … abbiamo LA NATO IN CIELO, MILOŠEVIć IN TERRA. Per ora il nostro ghetto umano di vicendevole sostegno funziona bene. Il vostro appoggio ci dà forza, significa moltissimo per noi.
E dopo la guerra il dopoguerra, le ultime unghiate del regime contro chi da sempre continuava ad opporsi in forma nonviolenta dichiarando la propria estraneità alle sue scelte di morte. E' il tempo per le Donne in Nero delle persecuzioni, degli interrogatori, delle perquisizioni, degli arresti.
Cade infine Milošević, e grandi speranze si accendono e presto si spengono: gli uomini del regime continuano ad occupare posti chiave e pochi sono i mutamenti sostanziali nell'impostazione politica che guida il paese.
Un altro vasto campo di lavoro si apre, quello del confronto con il passato, della necessità di non dimenticare il passato se si vuole costruire futuro, di fare
… memoria della guerra e dei suoi crimini, dell'inumano e dell'inaudito che in ogni conflitto armato è contenuto. Il dovere del ricordo, del resto, fra le antimilitariste della ex Jugoslavia, mai è stato assunto da una prospettiva di vittime, mai è stato confuso con il lamento: sempre si è dimostrato scelta politica, impegno a distinguere la propria voce e il proprio agire dalle urla dei potenti, dagli ordini emanati dagli apparati di regime, dai vertici di eserciti e squadre paramilitari che hanno comandato la distruzione delle città, la pulizia etnica, lo stupro.
Il dovere del ricordo non si è configurato come "ossessione", ma come capacità di leggere la guerra oltre gli stereotipi interpretativi della tradizione maschile, ricercandovi, al di là degli eventi militari e delle strategie geopolitiche, il trauma della quotidianità spezzata, la modificazione violenta delle storie individuali, cui si è sempre voluto attribuire volto, corpo, soggettività. Da lì è scaturita la richiesta di una chiara individuazione delle responsabilità per i crimini commessi, l'esigenza di arrivare ad una "personalizzazione della colpa", nel rifiuto di attribuire ad un'intera comunità il peso delle devastazioni e degli assassinii perpetrati.
Le Donne della Rete contro la guerra della Serbia decidono di prendersi cura delle vittime dei crimini fatti in loro nome iniziando un percorso che le porta nei luoghi dove questi crimini sono stati perpetrati per chiedere loro scusa per l'ingiustizia che hanno subito, per dire loro: sappiamo chi sono i colpevoli, sono "i nostri", e devono essere puniti. E' un percorso in cui si apprendono molte cose non soltanto sulla giustizia, ma sulla sicurezza, sull'amicizia, la politica di pace, la nonviolenza.
Ed il mio ultimo ricordo è legato a questa necessaria pratica di denuncia e assunzione di responsabilità per un passato così pesante. 10 luglio 2009, Piazza della Repubblica a Belgrado, anniversario del genocidio di Srebrenica, tante donne in nero e in silenzio circondate da un cordone di poliziotti che ci separava dai militanti di Obraz (un'organizzazione nazionalista e fascista) innalzanti cartelli con le foto di Karadzić e Mladić. Stendemmo a terra un grande telo su cui erano dipinte 8372 rose, una per ognuna delle 8372 vittime del genocidio di Srebrenica, attorno ad esso delle grandi scritte – Solidarietà, Non dimentichiamo il genocidio di Srebrenica, Responsabilità, Ricordiamo -, e tutt'intorno noi donne, ciascuna con una rosa bianca in mano. Per tutto il tempo in cui restammo in piazza i militanti di Obraz continuarono a inneggiare a Karadzić e Mladić, "eroi serbi", non criminali di guerra, e a insultare le Donne in Nero: "Puttane, chi vi paga? Gli americani? Quanto vi hanno dato questa volta?".
E pensavo che il dovere del ricordo, e la richiesta di giustizia per i crimini commessi, compiti così fortemente sentiti da queste donne, chiamano in causa anche noi, che pure viviamo in un paese in "pace", ma che non possiamo smettere o allentare, per quanto concerne "la nostra parte", la critica radicale ad ogni ipotesi di guerra e la denuncia delle complicità dei nostri governi.
Ora a Belgrado e in altre città della Serbia si continua a lavorare – e basta leggere i report che arrivano regolarmente con l'elenco preciso di tutte le attività svolte, per farsi un'idea della ricchezza di iniziativa culturale e politica di questa rete di donne –. Se per me, personalmente, questa relazione continua ad essere fonte di riflessione e stimolo a un impegno più approfondito, sono convinta che anche per molte di noi, Donne in Nero italiane, le amiche di Belgrado hanno costituito un punto di riferimento fondamentale, forte e autorevole, senza il quale il nostro stesso movimento italiano non avrebbe potuto maturare e crescere. Fin dall'inizio, infatti, i gruppi di Donne in Nero italiani hanno privilegiato una particolare direttrice di impegno, quella indicata dall'espressione "Visitare luoghi difficili". Si cercava di intessere rapporti, relazioni, legami di solidarietà finalizzati alla definizione di una politica internazionale di donne alternativa alle logiche della sopraffazione, dell'annientamento, capace di opporsi ai nazionalismi e alle separazioni etniche; una politica che sapesse assumere i criteri della soluzione nonviolenta dei conflitti, e che desse riconoscimento alle diversità delle parti in campo. Incontrando le donne dei Balcani, abbiamo potuto confrontarci con gli elementi costitutivi del loro pensiero e della loro azione, elementi che hanno consentito loro di fondare aggregazioni politiche capaci di durare nel tempo.
Il passaggio più alto e significativo che queste donne hanno compiuto è stato un atto di disobbedienza, di sottrazione di sé all'ideologia dominante.
Anziché aderire alle richieste del proprio stato che in nome dell'unità nazionale le spingeva a schierarsi contro un "nemico esterno", le donne hanno saputo individuare "all'interno della propria parte", delle proprie istituzioni, quelle scelte di violenza, di oppressione che non avrebbero potuto condividere. Partendo da sé, facendo emergere le ragioni della propria soggettività, hanno agito una ribellione "dall'interno e nei confronti del proprio mondo".
(…) Ritornare a questi esempi e recuperare questa memoria all'interno della vicenda complessiva della rete internazionale delle Donne in Nero risulta importante per noi italiane, chiamate, in questi ultimi anni, a misurarci con uno stato che esporta la guerra fuori dai propri confini.… e ne ribadisce le logiche e gli strumenti anche all'interno.
Oggi viviamo tempi difficili: quasi nessuno prende più la parola contro la guerra, ma, proprio per questo, sempre più pronunciare questa parola diventa azione politica necessaria, perché la guerra è ormai guerra totale nelle nostre vite, fatta contro e da civili, è sfacelo del tessuto sociale anche se spesso presentata come "umanitaria" e dispensatrice di democrazia; è guerra il cui nemico – sia esterno che interno - è demonizzato, disumanizzato, con cui non si può parlare né tantomeno trattare.
Ancora una volta quindi è necessario sottolineare l'importanza della nostra responsabilità personale, di opposizione e denuncia dei nostri governi: non in nostro nome! Qui come a Belgrado e ovunque nel mondo dove come donne prendiamo la parola, nella consapevolezza di quanto ci dia forza la relazione come pratica femminile fondante all'interno del nostro movimento. Una relazione che va preservata, sviluppata, rilanciata, consapevoli delle diversità e dei possibili conflitti, risorse e non ostacoli in un cammino di donne che vogliono guardare il mondo con il loro sguardo.
Anche questo abbiamo appreso dalla relazione con le Donne in Nero di Belgrado.
Marianita De Ambrogio, Donna in Nero di Padova
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