Dopo Paestum, una
proposta di dialogo
Perché vi scriviamo
A
inizio aprile la rete nazionale delle Donne in Nero si è incontrata a Roma e il
primo tema di cui abbiamo discusso è stato “Pace/guerra da un punto di vista
femminista”, questione che è al centro di tutta la nostra storia, delle nostre
riflessioni e delle nostre pratiche, ma che ci si ripropone sotto diverse luci
a seconda degli aspetti da cui volta per volta ci sentiamo più immediatamente
interrogate.
Nel
caso del dibattito romano, la decisione di inserirla nel programma dei lavori è
maturata a partire dall’anno scorso, grazie al convegno di Paestum e alla
vivacità dei confronti che si sono accesi prima, durante, dopo l’incontro e che
continuano tuttora. Molte di noi sono state coinvolte nelle riunioni tenutesi
in varie città durante il percorso di preparazione, molte hanno partecipato al
convegno, molte ne hanno discusso nelle riunioni successive. C’è stata chi –
non potendo andare a Paestum – ha segnalato ad altre, che invece andavano, la
mancanza totale nel documento preparatorio di qualsiasi accenno al tema della
guerra; c’è stata chi è andata e avrebbe voluto introdurlo, almeno nei lavori
di gruppo, e non ne ha trovato lo spazio; ma ci sono anche stati casi in cui
nelle discussioni preparatorie siamo state sollecitate ad occuparcene noi,
quasi si trattasse di una competenza specialistica e ce ne venisse affidata la
delega.
Ci
sono parse difficoltà inquietanti e abbiamo provato il desiderio di chiarire –
prima di tutto tra di noi, ma anche nelle relazioni con altre – che cosa
significhi per noi il rapporto tra femminismo e antimilitarismo. Negli scambi
al nostro interno si è sviluppato un confronto complesso, che ha indotto ad
approfondimenti significativi attorno a nodi su cui si era magari data per
condivisa una certa posizione e si scopriva invece che le sensibilità e gli
orientamenti differivano, sin dalla individuazione di quale sia l’aspetto che
ciascuna sente più incalzante rispetto a pace e guerra e sin dalla scelta delle
parole per esprimere i diversi sguardi: antimilitarismo femminista? femminismo
e guerra? donne e guerra? le donne soldato ci riguardano? e ci riguardano le
violenze maschili da cui tanto spesso sono colpite?
Per
mesi ci siamo scambiate messaggi, a Roma ne abbiamo ragionato insieme per
alcune ore e abbiamo concordato di scrivervi, per proporre un confronto che
riteniamo possa interessare il dibattito del “dopo Paestum”. Ci è anzi
difficile rivolgerci a “voi” come se foste altre da “noi”, perché l’orizzonte
dei femminismi ci accomuna; desideriamo piuttosto accennarvi le ragioni che a
nostro parere rendono irrinunciabile – e necessario per tutte, proprio in
quanto femministe – misurarci con guerre, armi, militarismi e soprattutto
culture che hanno interiorizzato e continuano a riproporre tutto ciò come una
dimensione immutabile dell’esistente.
Quindi,
grazie per avere promosso e condotto l’iniziativa di Paestum, che ha ridato a
tutte una grande vitalità, nell’incontro tra donne differenti per età, storia
di vita, interessi; e grazie per mantenere aperti gli scambi virtuali e reali,
nei confronti che avvengono in rete e nelle riunioni organizzate in varie
città. Questo che vi proponiamo è appunto un contributo, attorno a una
questione che riteniamo ci riguardi tutte e su cui perciò vorremmo che altre si
esprimessero.
“Pace/guerra
da un punto di vista femminista”
Dalla
relazione che è stata fatta sull’incontro di Roma, riportiamo la parte relativa
alla discussione su questo tema; costruita per punti, fornisce una sintesi che
attraversa i vari interventi.
Femminismo pacifista: tema
delegato a noi DIN?
L'incontro di Paestum ha coinvolto parecchie di noi: negli
incontri preparatori in diverse città, nella partecipazione, negli incontri
successivi.
A Torino, avendo notato l'assenza assordante del tema della
guerra siamo state sollecitate a occuparcene noi, DIN: una sorta di delega alle
addette ai lavori che ci ha fatto pensare. Abbiamo quindi proposto alle altre
donne della Casa delle Donne, in cui si erano svolte le discussioni su Paestum,
di parlarne insieme. Ecco alcuni spunti dagli interventi delle nostre amiche:
elaborare su questo tema ci provoca dolore; è una cosa troppo grossa, non ce la
faccio; mi sento estranea...
Anche diverse donne che partecipano con noi alle uscite si
sentono di supporto; condividere è un'altra cosa, quando la pratica e le parole
crescono insieme.
Eppure ci sembra che la decostruzione del patriarcato sia
radice del femminismo; come non sentire come fondante la questione della
guerra? La cultura patriarcale così diffusa pervade anche molte donne? Ci si
rassegna all'esistente? Cosa è cambiato?
Cosa è cambiato?
Partiamo da noi, come sempre. Dalla nostra storia, dalle
pratiche di relazione, dai nostri desideri, dai nostri percorsi di libertà
femminile intrecciati alle pratiche di relazione, sostegno, denuncia,
controinformazione; dai valori di pace come bene comune, dignità, decostruzione
del nemico, nonviolenza; con lo scopo di attivarci permanentemente per elementi
di pace, nella tutela dell'ambiente come nella denuncia delle spese militari,
nella ricerca della nostra specificità nella politica come nel contrasto del
femminicidio; nel nostro paese in crisi e sofferente, diventato ormai un “luogo
difficile”.
Parliamo anche delle nostre difficoltà: siamo stanche,
stiamo invecchiando, i nostri gruppi si assottigliano e non c'è ricambio di
donne giovani; certo, siamo riconosciute e apprezzate nei nostri ambiti, ma
come icone.
I molti femminismi, ancora attivi, non mettono in relazione
la guerra con la violenza contro le donne, di cui molte si occupano; le giovani
hanno modalità e ambiti di attivismo diversi e spesso misti; la partecipazione
alle nostre iniziative sulle guerre rimane sporadica, a volte scarsa, spesso
sentiamo come non incisive le nostre attività.
Cultura di guerra
Ci guardiamo intorno, nel nostro paese e non solo, per
riconoscere le forme / le maschere che patriarcato e militarismo hanno assunto,
avvolgendoci in una pervasiva cultura di violenza e di guerra, diventata ovvia
e quasi invisibile.
- I conflitti si risolvono con la forza; la guerra è il
punto massimo dei conflitti; la legge del più forte è quella vincente; chi
vince ha sempre ragione.
- La militarizzazione e le forme militari sono presenti
in ogni ambito: legale (pensiamo alla militarizzazione del territorio de
l'Aquila, e alle discariche nel napoletano, e alla Valle di Susa...) o
illegale, come la struttura della camorra; non si tratta solo
dell'esercito.
- L'uso della forza e della violenza è tollerato dalle
istituzioni: dalla violenza domestica, che ben poco viene contrastata, a
quella delle forze dell'ordine, spesso impunita. La cultura dominante è
una cultura di guerra.
- La degenerazione dei rapporti di convivenza è
tangibile: siamo un paese in guerra, ma alla guerra si danno nomi che la
negano - “missioni di pace”, “interventi umanitari”. E tutto si giustifica
in nome della “sicurezza”.
- La denuncia dei costi degli F35 e dei vari sprechi
militari ci riesce utile per stabilire una relazione più immediata con chi
ci incontra, ma noi non ce ne sentiamo soddisfatte, la sentiamo come una
riduzione un po' strumentale.
- Le conseguenze della guerra sono taciute o negate,
dall'inquinamento del territorio ai morti per uranio impoverito, fino alla
mostruosa quantità di soldi sprecati.
- La crisi è a sua volta conseguenza e forma della
guerra: guerra economica, contro i/le deboli, gestita con la violenza dei
dictat economici e della repressione del dissenso, come in Grecia.
Noi che non fummo a Paestum – e noi che ci fummo
Se alcune tra noi hanno partecipato al convegno dello
scorso ottobre e molte no, tutte ci riconosciamo nel partire da sé come
femministe che ne è stata l’anima, nell’affermazione che l’esperienza personale
“è già politica” (come è stato scritto dalle promotrici dell’incontro), nel
vivere quella femminista come una “rivoluzione necessaria”. In questo senso il
nostro desiderio di essere partecipi di una simile “sfida” non dipende
dall’essere state a Paestum oppure no, ma dalla tensione a fare sì che anche
attorno al nodo che ci appare cruciale – confrontarci da femministe con
l’intreccio tra militarismo e patriarcato – venga investita quell’attenzione e
quella volontà di esercitare “una spinta trasformativa” che sono state
dichiarate come “voglia di esserci e di contare” per produrre una “modificazione
visibile del lavoro, dell’economia, e più in generale del patto sociale”.
Come femministe nonviolente e pacifiste, riteniamo che
alla base del “patto sociale” ci sia innanzi tutto la costruzione storica dei
modi di essere donne e uomini che, pur se in forme diverse nello spazio e nel
tempo, si impernia ovunque sulla gerarchizzazione delle une come subordinate
agli altri, sulla affermazione di una virilità aggressiva che legittima
socialmente la violenza contro le donne, che trasforma l’altra/o in nemico, che
porta a praticare e percepire come necessario e giusto l’ordine materiale e
mentale della guerra. Ѐ questo il ‘retaggio del dominio’ che alimenta tuttora
le ingiustizie nei rapporti di lavoro come in quelli economici e cui si rifà
chi ne detiene il potere per decidere come affrontare l’attuale crisi del
sistema a livello mondiale, con quali priorità e a vantaggio di chi.
Riconoscersi come fondate sulla relazione con l’altra/o è invece il punto di
origine del femminismo e in questa prospettiva uscire dalla legge del più forte
significa guardare alla nonviolenza come a un processo da mettere in atto per
smarcarci dal patriarcato.
Una delle formulazioni che meglio hanno espresso quale
sia il punto di partenza e l’orizzonte delle Donne in Nero è “smilitarizzare le
menti”, frase coniata a Belgrado e largamente ripresa a livello internazionale.
Saperlo pensare e praticare nel pieno delle guerre balcaniche è stato tanto
coraggioso quanto fondamentale per resistere alla pressione divisiva dei
nazionalismi – densi di fascismo nella rivendicazione della patria e dell’onore
guerresco e proprio perciò sorretti dalle più abbiette pulsioni ad umiliare il
nemico nel corpo delle ‘sue donne’, ma anche ad aggredire come traditrici le
‘proprie donne’ se non si immedesimavano in quella esaltazione bellicosa.
Nell’incontro di Roma c’è chi ha parlato di come la
crisi – o meglio, il modo in cui viene presentata e gestita negli attuali
rapporti di potere di questo paese – restringa i nostri spazi di agibilità
politica, sotto la cappa del TINA (There is no alternative), da un lato e della
rassegnazione ad esso, dall’altro. Ma è anche stata evocata la positività del
filo di intelligenza che i femminismi hanno variamente sviluppato lungo decenni
di sovvertimento delle culture e delle strutture. Vediamo l’orrore delle guerre
che continuano a devastare vite e territori, però sappiamo che ha senso portare
il nostro granello, per quanto piccolo, a incepparne i meccanismi e ci pare che
ciascuna possa contribuire alla smilitarizzazione delle menti nella sua vita
quotidiana e nelle sue relazioni personali così come nello spazio pubblico.
Su tutto questo, e su tanto altro, vorremmo che
sentissero il desiderio di confrontarsi con noi altre che a Paestum e nel dopo
Paestum hanno privilegiato priorità differenti dalla nostra. Ci sentiamo
comprese nella prospettiva delineata come “Primum vivere”; la proposta che
facciamo è di intrecciarla con la citazione da Christa Wolf: “Tra uccidere e
morire c’è una terza via, vivere”, in cui tante femministe hanno riconosciuto
le radici del loro rifiuto delle guerre e delle logiche di guerra, perché – con
Cassandra – lì stanno le basi della violenza del patriarcato.
Maggio 2013
La rete nazionale delle Donne in Nero
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