Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

02 giugno 2011

Per una conoscenza della realtà delle donne colombiane ( dalla rivista DEP)

© DEP ISSN 1824 - 4483
Ruta Pacifica: le donne colombiane
contro la violenza.
Intervista a Alejandra Miller Restepo*
a cura di
Andrew Garcés Willis
In Colombia da oltre quarant’anni anni è in atto un conflitto armato di cui quasi
nessuno parla, un conflitto che vede, da una parte, l’esercito governativo e i gruppi
paramilitari, dall’altra, le formazioni guerrigliere, FARC e ELN. Di questa
situazione di violenza diffusa che pare essere l’unico modo per affrontare qualsiasi
problema, economico, territoriale, politico, sociale è sempre più vittima la
popolazione civile e in particolare quella femminile a tal punto, afferma Natalia
Suarez1, che la persecuzione delle donne risulta costitutiva del conflitto e
contribuisce a definirne il carattere2.
Oltre ad aver prodotto circa 4 milioni di profughi interni, di cui il 70% è
costituito da donne, bambini, anziani, costretti a spostarsi dalle zone devastate dalle
fumigaciones, ossia dalle irrorazioni effettuate con gli aerei di sostanze tossiche che
dovrebbero distruggere i campi di coca, ma in realtà rendono incoltivabile l’intero
territorio, il conflitto ha messo in atto una repressione cruenta delle organizzazioni
civili, ma anche dei singoli accusati di spalleggiare questa o quell’altra parte, e ha
creato un livello di indigenza assoluta della stragrande maggioranza della
popolazione che è priva di servizi pubblici per la salute, l’istruzione, ecc. I diritti
umani sono sistematicamente violati e la violenza sessuale contro le donne, il cui
corpo è considerato come “obiettivo militare” e “bottino di guerra”, è pratica
generalizzata3. Nell’ultimo anno gli stupri – secondo un comunicato ufficiale del
* Si ringrazia Andrew Willis Garcés e Cyril Mychalejko per averci autorizzato
alla traduzione e alla pubblicazione.
1 N. Suarez, Le travail de résistance des femmes persécutées dans la situations de guerre: le cas de la
Colombie, in Persécutions des femmes. Savoirs, mobilitations et protections, Éditions du Croquant,
Broissieux 2007, p. 273.
2 Su questo si veda anche A. Callamard, Enquêter sur les violations des droits des femmes dans les
conflits armés, Amnesty International/Association Droits e démocratie, Montréal 2001.
3 Si veda a questo proposito l’ultimo documento di Oxfam International (una confederazione di 13
organizzazioni non governative che lavorano con 3.000 partners in più di 100 paesi con le comunità
locali per uno sviluppo sostenibile, anche in condizioni di emergenza, e per promuovere campagne di
sensibilizzazione in tutto il mondo), La violencia sexual en Colombia. Un arma de guerra, in
http://www.oxfam.org/es/policy/violencia-sexual-colombia.
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26 novembre 2009 della senatrice Gloria Inés Ramirez Rios – sono stati 13.910,
mentre il numero delle donne che hanno subito maltrattamenti da parte dei
famigliari ammonta a 48.707. Le morti negli ultimi cinque anni sono state 70.000,
di cui 28.000 tra desaparecidos e persone uccise dalla polizia di stato o dalle bande
paramilitari. Si tenga presente inoltre che esiste un traffico di esseri umani che
coinvolge per l’80% bambini e adolescenti.
Proprio perché il conflitto interno alla Colombia coinvolge più attori e la posta
in gioco è il monopolio del potere e il controllo delle risorse economiche, il nemico
può essere chiunque e ovunque4, gli esecutori della violenza sono pertanto diversi,
ma anche le forme di resistenza sviluppate dalle donne sono diverse. Accusate non
di atti di violenza, ma di causare con i loro comportamenti l’arresto, la detenzione,
la morte o il discredito (ad esempio dello Stato denunciando la sparizioni dei loro
figli) di membri dell’una o dell’altra parte in guerra, dando così sostegno a una
forza piuttosto che all’altra, le donne sono diventate via via oggetto di persecuzione
in tutti i luoghi in cui operano, da quello di lavoro alla casa. Le forme di
persecuzione tese – scrive Suarez – a punire, a impedire le denunce, a dissuadere
da qualsiasi rapporto con le forze nemiche, a tracciare una precisa linea di
demarcazione tra di esse, a ribadire che per le loro azioni le donne non possono
contare sull’impunità, vanno dalla minaccia di morte, alla molestia sessuale, alla
violenza fisica, all’obbligo ad abbandonare la loro terra; sono annunciate, così da
terrorizzare la vittima, attraverso lettere anonime, pitture di morte sui muri della
sua casa (a volte è l’intera comunità radunata nella piazza che viene minacciata di
dover abbandonare le proprie abitazioni o di morte se non obbedisce alle leggi
imposte dalla forza che occupa quella zona, a volte sono le associazioni delle
donne che lottano per ritrovare i loro figli scomparsi) e sono messe in atto da
anonimi o conosciuti rappresentanti delle forze in conflitto, con le quali le donne
possono essere in una qualche relazione, militante, professionale o amicale,
singolarmente o in gruppo, su iniziativa propria o per conto dell’organizzazione cui
appartengono. Questo significa che la violenza sulle donne diventa una prova di
forza tra le parti in lotta, così che esse diventano il bersaglio delle violenze
destinate al nemico.
In questo contesto opporre resistenza risulta difficile, eppure ci sono casi di
opposizione individuale, in cui spesso è a rischio la propria vita, e di opposizione
sostenuta da membri della collettività di appartenenza che hanno così imparato ad
associarsi e a mobilitarsi per una causa comune non solo per la difesa della singola
persona. In questo modo sono nate diverse realtà che praticano forme di resistenza
nonviolenta, rifiutando di allinearsi con qualsiasi “actor armado”, denunciando
ogni violazione dei diritti umani e pagando per questo un prezzo elevato in termini
di repressione. Sono decine di comunità di contadini che stanno costruendo
un’alternativa pacifista alla guerra e un’economia solidale alternativa alla ricerca
individuale del profitto; sono associazioni indigene che riescono a riscattare le terre
dei loro avi; sono reti di giovani che cercano di offrire ai loro coetanei
un’alternativa alla scelta di unirsi a organizzazioni criminali o ai gruppi armati;
sono associazioni di attivisti pacifisti.
4 Si veda D. Pécaut, Guerra contra la sociedad, Espasa Hoy, Bogota 2001.
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In altri casi, quando ad essere prese di mira sono le associazioni delle donne –
come l’ASFADE perseguitata dallo Stato con messaggi di morte, tramite
sorveglianza dei posti di lavoro e delle abitazioni delle aderenti, con minacce
anonime oltre alle violenze fisiche – le donne sono riuscite a sviluppare una
resistenza aperta ricorrendo alla polizia, alle organizzazioni per la difesa dei diritti
umani, ai tribunali locali e internazionali. Le marce per le vie principali della
capitale, i sit-in nei luoghi uffici pubblici, gli stands delle associazioni in occasione
della giornata della pace, la partecipazione a conferenze internazionali sui diritti
umani hanno inoltre lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale e
internazionale e di far sì che i singoli casi siano presi in considerazione, ad esempio
dalle autorità ecclesiastiche o denunciati dai giornali e dai partiti politici
diventando così una questione generale di violazione dei diritti umani.
Il 25 novembre scorso, in occasione della giornata internazionale contro la
violenza alle donne, più di 80.000 donne hanno sfilato per le vie delle città
indossando camicette bianche o nere e chiedendo che si apra nel paese un processo
di pace.
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Ruta Pacifica de las Mujeres è una delle organizzazioni di resistenza più
strutturate e attive. Le associazioni di donne che essa riunisce danno sostegno e
voce alle compagne che subiscono violenze e soprusi, rivendicando verità e
giustizia, chiedendo che la società e la giustizia non accettino la violenza come
pratica normale, inevitabile, ma cessi finalmente l’impunità, nella convinzione che
non c’è futuro possibile, non ci sarà pace senza memoria dei crimini commessi.
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Andrew Garcés Willis5 in questa intervista con la coordinatrice regionale di
Ruta Pacifica ci offre un quadro delle attività, degli obiettivi e delle pratiche di
questa organizzazione, dei risultati ottenuti in anni di impegno e delle mete per cui
continua a lottare. L’intervista è comparsa in lingua inglese sul sito
http://upsidedownworld.org (Covering activism and politics in Latin America).
La traduzione italiana è di Marianita De Ambrogio, Donna in nero di Padova. Per
una trattazione specifica del tema della violenza alle donne in Colombia, si veda il
saggio di Stefania Gallini in questo stesso numero della rivista, sezione ricerche.
Alejandra Miller Restrepo, Cauca, coordinatrice regionale della Ruta Pacifica
de las Mujeres, parla di questo movimento di donne colombiane contro la violenza
che esiste da 13 anni. Il gruppo è conosciuto per le sue azioni dirette rivoluzionarie
che uniscono donne contadine, nere, indigene e donne delle città in mobilitazioni di
massa o rutas che si svolgono spesso in località controllate da gruppi armati che
prendono le donne come loro bersaglio.
Ho parlato con Miller Restrepo a dicembre del 2008, un mese dopo la
mobilitazione più recente, nel momento in cui lo scandalo colombiano delle “false
azioni positive” dell’esercito, che uccide civili e vuol far credere che si tratta di
guerriglieri, continua a tenere banco sulla stampa assieme ad una speculazione
molto diffusa su futuri cambiamenti favoriti dalla nuova amministrazione Obama. I
suoi commenti su come la Ruta abbia aperto uno spazio per le donne nella società
colombiana hanno accresciuto la mia preoccupazione: troppi militanti negli USA e
in Colombia sottovalutano quel che sanno intuitivamente sullo spazio di
cambiamento che viene dal basso, a partire dal lavoro sostenuto da movimenti
come la Ruta che possono profittare di momenti come questo per spingere il
governo verso sinistra, solo costruendo per anni l’organizzazione dalla base.
La Ruta ha proseguito questo lavoro sostenuto con manifestazioni nazionali l’1
febbraio 2009 in città di tutto il paese, per sostenere la presenza di donne militanti
in Colombiani per la pace che negoziano la liberazione degli ostaggi detenuti dalla
FARC e reclamano una fine negoziata del conflitto armato, a cui il governo si
oppone, rifiutando anche di riconoscere l’esistenza di gruppi armati legittimati.
Quando e come è stata coinvolta nella Ruta?
Ho sentito parlare della “Ruta” quando sono arrivata a Popayan per andare
all’Università di Cauca nel 1999, e da quel momento mi sono impegnata. Dal 2002
sono coordinatrice regionale.
Come descriverebbe la Ruta?
Siamo un movimento di donne contro la guerra, fondato nel 1996. Siamo
femministe, pacifiste ed antimilitariste. Abbiamo due obiettivi fondamentali: 1.
Rendere visibili gli effetti della guerra sul corpo delle donne. Sul nostro corpo
perché i corpi delle donne sono luoghi di conflitto nella guerra, e da sempre è un
5 Andrew Garcés Willis risiede a Washington DC; attualmente è impegnato in attività di
accompagnamento dei movimenti dei diritti umani in Colombia; tiene il blog:
http://todossomosgeckos.wordpress.com/
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tipo di violenza grave. E noi dobbiamo denunciare la violenza della guerra. 2.
Insistere su una soluzione negoziata della guerra. La militarizzazione dei territori
crea più guerra e più sofferenza, l’unico modo di porre fine a tutto ciò è la
negoziazione politica.
Come è stato formato il gruppo e come è strutturato a livello nazionale?
Siamo presenti in 9 regioni come movimento nazionale, Putumayo, Cauca,
Valle del Cauca, Chocó, Risaralda, Antioquia, Bolívar, Bogotá, Santander. Oggi ci
sono 350 organizzazioni di base, come organizzazioni di quartiere, gruppi che si
occupano di lavoro produttivo per le donne, tutte aderenti alla nostra piattaforma.
La Ruta è stata fondata nel 1996. Nel corso di un incontro nazionale di
organizzazioni di donne, sono venuti dei religiosi e ci hanno parlato della
condizione femminile in Mutatá, dove erano arrivati i paramilitari e avevano
occupato la città e violentato il 90% delle donne e delle ragazze. Avevano messo in
atto il reclutamento forzato e ridotto le donne a serve, essenzialmente schiave
sessuali. Quando le attiviste presenti lo seppero, decisero una mobilitazione
nazionale – un viaggio, una ruta – in quel luogo per dire a quegli uomini di
rispettare i corpi delle donne e far sapere alle donne che non erano sole. Molte
organizzazioni nazionali sottoscrissero la proposta. Più di 2.000 donne vi si
recarono. Scegliemmo il 25 novembre come Giornata internazionale contro la
violenza sulle donne per quell’occasione e per tutte le successive
mobilitazioni/rutas. Diciamo a tutti gli attori armati – paramilitari, esercito,
guerriglia – di rispettare i diritti delle donne. Abbiamo organizzato due rutas in
Barrancabermerja in collaborazione con la Organización Feminina Popular (OFP),
più mobilitazioni in Choco, Putumayo, Nariño, Cauca e Bogotà. L’anno scorso, ad
esempio, siamo andate a Nariño alla frontiera con l’Ecuador per esprimere
solidarietà alle donne lì rifugiate. Le Rutas sono fondamentali per il nostro lavoro.
Nel 2002, ad esempio, 2.000 donne hanno viaggiato nel paese, da Puerto Asis a
Putumayo, mentre era completamente militarizzato dai paramilitari e dall’esercito.
Abbiamo attraversato montagne, un terreno inospitale. Ciò ha avuto un impatto
simbolico molto importante: i paramilitari avevano proibito ogni movimento dopo
le 18. Noi abbiamo detto: “Ebbene dovrete sparare su 100 bus o fermarci tutte”,
abbiamo continuato a passare per dichiarare apertamente che le donne sanno
vivere. Ruta e OFP fanno parte della rete internazionale delle Donne in nero. Il
nero significa che siamo in lutto a causa della guerra.
Avete inviato delegazioni negli USA. Siete in contatto con qualche gruppo femminista?
Sì, abbiamo incontrato CODEPINK.
L’educazione politica è chiaramente una parte importante del vostro lavoro – noi ci incontriamo
qui nella vostra sede, i muri sono coperti di disegni e di manifesti creati da partecipanti ai laboratori.
Può descrivere il lavoro educativo e anche gli altri programmi?
Sì, noi organizziamo dei seminari di educazione politica. Proprio ora abbiamo
una scuola di educazione politica sui femminismi, il pacifismo, la soluzione dei
conflitti. Attualmente 40 donne frequentano la scuola qui a Cauca, si incontrano
ogni 15 giorni per 3 o 4 mesi. Anche l’intervento politico e i patrocini sono una
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parte importante del nostro lavoro. Voglio dire, cioè, che interveniamo nei processi
politici locali/regionali, interloquendo con autorità governative, per trattare su
quanto preoccupa le donne nel conflitto armato. Facciamo anche ricerca e
pubblichiamo report. La violenza sessuale è un tema importante per noi, di cui
praticamente nessuno parla. Non ci accontentiamo semplicemente di raccogliere
denunce, facciamo ricerche, produciamo rapporti e altri documenti sulla realtà della
violenza sessuale a partire da racconti e statistiche. Per esempio, abbiamo
pubblicato un libro sull’effetto negativo delle fumigazioni aeree sulle donne a
Putumayo – sulla loro pelle, sulla salute dei loro figli. Le nostre inchieste si
focalizzano anche sull’uso delle donne e del loro corpo come strategia di guerra da
parte degli attori armati: servono innanzitutto a provare che siamo interlocutrici
valide perché siamo rigorose nella nostra documentazione. Mostrano anche che il
corpo delle donne è un territorio conteso nel conflitto.
La Ruta è una coalizione di organizzazioni, molte delle quali sono formate da uomini e donne.
Può descrivere il ruolo degli uomini in relazione con la Ruta, nella coalizione e nei movimenti dei
diritti umani, in generale?
È dura con gli uomini perché essi pensano che la violenza sia un tema e non un
problema in sé, e che sia subordinato ad altri problemi. La relazione con loro non è
una lotta, ma essi spesso negano e sottovalutano la violenza contro le donne. È
difficile inserirla nel programma nazionale. Per esempio, nell’Organizzazione degli
Stati Americani c’è una commissione che segue il processo di smobilitazione
paramilitare. Noi abbiamo pubblicato un libro sugli effetti di questo processo sulle
donne, come vengono danneggiate, e forse nel rapporto ufficiale sono state
introdotte delle frasi su questo tema. Alcuni uomini dicono che noi li escludiamo.
No, si tratta semplicemente del nostro spazio. E d’altra parte pochissimi uomini
hanno espresso interesse a partecipare e a sostenerci. Detto ciò, la politica di
empowerment che pratichiamo ha incoraggiato delle donne a convincere i mariti ad
assumersi più responsabilità nella cura dei figli e nel lavoro domestico per
permettere loro di essere presenti più facilmente.
Guardando come utilizzate l’arte visiva nelle vostre manifestazioni, e il linguaggio e le foto delle
vostre pubblicazioni, come donne che si dipingono il corpo, vedo un grande uso simbolico del corpo
come una metafora e un linguaggio politico molto esplicito. E’ esatto?
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Si tratta di un linguaggio politicamente simbolico: riflettiamo su come sono
costruiti i simboli di guerra, su come sono inseriti nella società e su come eliminarli
e sostituirli con simboli di vita. Il corpo, ad esempio, è fondamentale perché noi
siamo femministe. I nostri corpi sono i primi territori di autonomia, e sono
espropriati, esiliati, picchiati, violentati… è stato cruciale esprimere la resistenza,
come dopo il Massacro di Bojaga del 2004, una municipalità del Choco. Il solo
accesso per recarvisi è il fiume Atrato e in quel momento i paramilitari lo
controllavano. Durante uno scontro con la FARC, nel centro della città, molti sono
fuggiti nella chiesa dove 119 persone sono state uccise da una bomba lanciata
all’interno. Nessuno poteva entrare nella città a causa dei paramilitari che
controllavano il fiume. Allora 10-15 donne del comitato della Ruta a Quibdo, là
vicino, vestite con abiti colorati, hanno preso i loro tamburi e sono scese per il
fiume su un piccolo battello, cantando alabados, canti afro-colombiani tradizionali.
I paramilitari non sapevano che fare, le hanno lasciate passare: sono state le prime
persone che hanno raggiunto i sopravvissuti.
Negli Stati Uniti, un’organizzazione nazionale che ha anche sezioni locali, “INCITE! Le donne di
colore contro la violenza”, ha richiamato l’attenzione sull’impatto particolare della violenza sulle
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donne di colore e sulle comunità di colore negli USA. La vostra organizzazione distingue come la
violenza colpisce diversamente le donne?
Assolutamente, infatti c’è partecipazione di indigene, donne afro, contadine.
Nel Choco, per esempio, abbiamo soprattutto donne afro, e qui a Cauca, soprattutto
indigene. La violenza colpisce in particolare le donne giovani in un modo diverso.
E’ una violenza sessuale molto più aggressiva. Sono le vittime preferite del
reclutamento forzato, i loro corpi sono usati come armi di guerra, trattate come
prede. La polizia, per esempio, infiltra giovani donne nella guerriglia, cosa che si
conclude sempre con il loro assassinio. Qui, a Jambalo, dodici donne tra i 12 e i 17
anni hanno ricevuto minacce di morte dalla FARC perché sarebbero legate
sentimentalmente a dei poliziotti. La Commissione statale per la famiglia a
Putumayo ha spesso segnalato che donne incinte legate a membri delle forze
armate erano sottoalimentate. Abbiamo organizzato delle manifestazioni contro
checkpoint e campi dell’esercito, che pianta – anche nei parchi per bambini –
grandi tende dove attirano spesso delle ragazze. Anche donne contadine che vivono
in regioni di narcotraffico sono gravemente colpite dalla carcerazione. Più del 90%
dei prigionieri arrestati per traffico presunto di droga a Putumayo sono donne.
Sono condannate a 9 anni per aver trasportato un sacchetto di cocaina, la stessa
condanna viene inflitta a paramilitari per aver partecipato a massacri, mentre
enormi camion pieni di roba viaggiavano liberamente.
Donne della Ruta sono state prese di mira dalla violenza politica?
Quest’anno, la nostra coordinatrice nazionale, Marina Gallego, è stata
minacciata dopo una mobilitazione nazionale a cui abbiamo partecipato con
MOVICE, il 6 marzo contro i gruppi armati, reclamando la fine della violenza. Una
dirigente del gruppo della Ruta di Medellin è stata assassinata in ottobre. Un’altra
nostra dirigente in un gruppo LGBT, le Pola Rosa, è stata minacciata e costretta a
trasferirsi in dicembre.
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L’organizzazione è unica tra i movimenti sociali colombiani, perché si è dichiarata pacifista.
Come gioca questa posizione nelle vostre relazioni con altri gruppi?
Una cosa è prendere le distanze dai gruppi armati e un’altra è qualificarsi
totalmente pacifiste. Alcune persone dicono: “OK, usare le armi è uno strumento,
non è il mio, ed è davvero un problema tra i guerriglieri e il governo”, ma io credo
che molte persone non sono d’accordo con la legittimazione di alcuni gruppi
armati. Come pacifiste, pensiamo che ogni guerra è ingiusta. Arrivare a questa
decisione è stata per l’organizzazione una lotta. È un dibattito ovunque. Ma noi non
condividiamo la lotta armata, non la legittimeremo in nessuna forma. Noi diciamo
che tutti i gruppi armati dovrebbero andarsene. E al nostro interno è un processo
continuo. Come è un processo per ogni organizzazione, per ogni donna, imparare a
riflettere sul femminismo: si potrebbe dire che molte organizzazioni non hanno
terminato la loro lotta interna con il femminismo. Lo stesso è con il pacifismo. Ed è
per questo che teniamo dei seminari di educazione politica.

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