Che non rappresenta niente di
nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni
israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di
esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto
israelo-palestinese è stata la pratica dell'apartheid - nei termini
di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle
armi - che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva.
Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen
l'8 luglio, prima dell'invasione di Gaza, Israele pratica l'apartheid
ricorrendo a "due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i
coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi 'fuorilegge'. Del
resto, quando l'esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni
sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell'omicidio dei tre
adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo
a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano
ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è
successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in
base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo
a pochi". E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente,
sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore
risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione
del territorio che controllano, negandolo agli altri".
Come anche lei sottolinea,
tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C'è chi,
come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma
necessaria. Chi la giudica eccessiva e "sproporzionata". Lei che ne
pensa?
"
E come sarebbe una reazione
violenta "proporzionata"? La violenza frena la violenza come la
benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide
l'impegno di non spegnere l'incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è
accecata dalle passioni) ci ricorda: "Chi semina vento raccoglie
tempesta". Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione.
Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le
parti del conflitto fa comodo la violenza dell'avversario per rinvigorire le
proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano,
avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono
che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero
avere entrambi ragione".
Cosa pensa, nello
specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo? Ha commesso
errori?
"Netanyahu e i suoi sodali,
e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare
il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché
temono che l'odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non
sono "errori". I governanti israeliani hanno più paura della pace che
della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l'arte di governare in contesti
pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con
il loro approccio. L'insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio
politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva
sulle paure degli israeliani e sull'odio dei vicini, che hanno fatto di tutto
per irrobustire".
Lei in passato è stato
critico nei confronti del sionismo e dell'uso che Israele fa della tragedia
dell'Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
"Raramente la
vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso,
invece, provoca un'unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele,
nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un'eccezione. Quello a
cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime
nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora
la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni).
Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro".
A questo proposito, cosa
pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso
a Gaza?
"Innanzitutto, non esiste
la "comunità internazionale" di cui parlano americani ed europei. In
gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi
particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il
centenario dell'inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente
che "un'eccessiva" reazione come quella all'omicidio di Francesco
Ferdinando ha portato alla catastrofe "che nessuno voleva o si
aspettava"".
Lei ha scritto in passato che
la società moderna non ha imparato l'agghiacciante lezione dell'Olocausto.
Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
"Le lezioni dell'Olocausto
sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in
considerazione. E ancor meno sono state apprese - per non parlare
di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è:
l'Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad
altri umani in nome dei propri interessi. Un'altra lezione è: non mettere un
freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali.
Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente
multicentrico, ricopre ancora un'importanza universale, applicabile a ogni
antagonismo locale. Ma non c'è una soluzione a breve termine per lo stallo
attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che
dietro alle due categorie di "aggressori" e "vittime" della
violenza c'è un'umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi
esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su
Haaretz, l'ultima ondata di violenza nell'area "ha fatto compiere a
Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere
ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova,
violenta retorica pubblica".
Intervista di ANTONELLO GUERRERA - Repubblica 5 agosto 2014
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