Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

13 gennaio 2016

Loredana Lipperini, 11.1.2015

Da un post su quelli che sono ormai a tutti gli effetti “i fatti di Colonia” chi legge si aspetta due cose. Solo due, probabilmente, e questo è già un sintomo che inquieta. Ovvero. La condanna senza se e senza ma di quello che è avvenuto, in nome del femminismo (quello stesso femminismo sbeffeggiato quando prende la voce per denunciare quanto avviene, con cadenza quasi quotidiana, dalle nostre parti). Oppure la difesa senza se e senza ma del multiculturalismo (che va difeso, lo dico subito, senza quei se e senza quei ma. Ma sapendo che in ogni cultura, e in alcune in modo più evidente, si fatica a considerare le donne persone. E sapendo anche che all’interno di ogni cultura si devono fare infiniti distinguo. Come vedremo).
Troverete altre parole. Perché la preoccupazione per il nuovo tassello di un mosaico che ha un solo titolo, ormai (scontro di civiltà), non può renderci immemori. E l’unico modo per fornire elementi di riflessione è ricostruire cosa è avvenuto all’interno della nostra cultura. La nostra, quella che si autodefinisce civilissima ma che civile non può essere finché rifiuterà di fare i conti con la propria storia.
Partiamo alti. Partiamo da Gabriele D’Annunzio, che nel 1903 compone Maia. Sottotitolo, Laus Vitae. Superomismo, miti nascenti, elogio della guerra. E celebrazione dello stupro etnico:
Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul marmo dei ginecei violati, sbatteremo i pargoli vostri come cuccioli. Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti”.
Ah, ma scomodi D’Annunzio. Troppo facile, si dirà. Era un poeta, D’Annunzio. Non parlava sul serio. Forse no. Forse non qui, almeno, perché i discorsi che incitarono all’interventismo e vagheggiavano inondazioni di sangue erano serissimi.
Ma è giusto. Facciamo parlare i soldati.
Quinto Antonelli ha raccolto lettere, diari e memorie dei soldati al fronte in Storia intima della grande guerra (Donzelli). Sono scritti indirizzati alla famiglia, nella maggior parte dei casi. Un’altra narrazione, rispetto a quella ufficiale (“Capirai a noi qua si divora la rabbia nel sentire che in Italia fanno delle feste per la presa di gorizzia e suonare le campane si dovrebbero vergognare”). In questa narrazione entra quello che non viene detto: l’esaltazione della morte, l’ebbrezza dell’uccisione. E dello stupro, anche.
In una delle lettere viene raccontato un episodio. I soldati italiani circondano una donna. Non parla la nostra lingua, o forse sì, non sappiamo molto di lei. Sappiamo solo che la violentano e che, alla fine, le infilano nella vagina uno di quei tubi di gelatina che si usano per far saltare i reticolati austriaci. Fanno esplodere il tubo. Coperti di sangue e brandelli di carne, ridono.
Il soldato che racconta il fatto ha orrore di sé e dei suoi compagni.
Ma si potrebbe andare indietro, in tempi che precedono D’Annunzio e la sua frenesia. A quell’episodio dimenticato che venne chiamato la ribellione dei Boxer, e che nel secolo nascente portò in Cina un gran numero di forze internazionali (e colonialiste), fra cui un contingente italiano. Le donne vennero stuprate e si suicidarono per non sopravvivere al disonore.
Possiamo ricordare le operazioni di pulizia coloniale italiane di fine Ottocento e inizio Novecento, per esempio. Quelle che è così faticoso ricordare. Quelle che sono classificate, come è giusto che sia, crimini di guerra. E la violenza sulle donne è in primo piano. Vediamolo. Per frammenti.
1891. La commissione reale d’inchiesta che indaga sul comportamento italiano in Eritrea dopo la conquista di Asmara scopre che le cinque mogli del Kantimai Aman erano state sorteggiate, su disposizione del generale Baldissera, per essere violentate dagli ufficiali italiani. Nessuna condanna.
1915-16. Nel suo diario, Ferdinando Martini, scrittore, parlamentare, governatore civile dell’Eritrea dal 1897 al 1907, ministro delle colonie, racconta di ufficiali italiani impegnati “a tirar su bambine a minuzzoli di pane” per adescarle. Più avanti, il medico ungherese Ladislav Sava che si trovava ad Addis Abeba al momento dell’occupazione italiana, raccontò nel 1940 al settimanale londinese New Times & Ethiopia News di aver personalmente assistito alla “deportazione di donne etiopiche in case convertite con la forza dai militari italiani in postriboli”. Nelle interviste raccolte nel 1994 tra i reduci d’Africa uno degli intervistati dichiara: “la colonia era un paradiso per gli uomini anziani che potevano avere rapporti con bambine di dodici anni”.
1931. Durante la conquista italiana di Cufra non solo vengono uccise centinaia di civili libici. Le donne stuprate sono almeno cinquanta. Ad alcune donne incinte viene squartato il ventre. Alle ragazze vengono conficcate candele di sego nella vagina e nel retto.
1940. Durante l’invasione italiana della Grecia vengono invano segnalati stupri di massa.
Non ne potete più, vero? Fa male. Malissimo. Ma non è faccenda che appartenga al passato così lontano. Facciamo un salto in avanti.
Siamo nel 1993. Somalia. Missione Ibis. Johar, a nord di Mogadiscio. E’ una sera di giugno Due blindati con una decina di parà della Folgore si fermano al check point. I militari di guardia hanno circondato Dahira Salad Osman, una ragazza somala di 24 anni. Si divertono. "Andiamo a divertirci anche noi", dicono i parà. Dahira viene palpata dai soldati. Poi viene legata a un blindato. Qualcuno tira fuori una bomba illuminante. Qualcun altro spalma sulla bomba un po’ di marmellata. “Per farla entrare meglio”. Avviene la stessa cosa che straziò la sconosciuta ragazza durante la Grande Guerra. Questa volta, almeno, la bomba non viene fatta esplodere.
Mi fermo.
Cosa voglio dire con questo elenco di orrori? Non che gli italiani siano bestie. Non che i maschi lo siano. Voglio dire, invece, che l’abuso dei corpi delle donne durante i conflitti è una prassi mai svanita. Ma se quanto è avvenuto, sempre in tempi recenti, in Congo, Bosnia, Sierra Leone, Rwanda e Kosovo, suscita un tiepido e infine svanito orrore, molto silenzio avvolge ancora le violenze sessuali compiute dai cosiddetti peacekeepers (si pensi ai soldati Onu in missione in Congo, e non solo).
Il problema che riguarda l’Italia, e proprio l’Italia, è sempre lo stesso: della parte tenebrosa del nostro passato rifiutiamo di parlare. Chiara Volpato, ordinaria di psicologia sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, ne parla in questo articolo, e ricorda come il mito auto-assolutorio di italiani brava-gente abbia ormai costituito la nostra identità collettiva. Ricorda, Chiara Volpato, che il silenzio sulle violenze di genere si debba alle solite strategie: la negazione, l’eufemizzazione, la disumanizzazione, la colpevolizzazione, la psicologizzazione, la naturalizzazione, la distinzione.
Solo riconoscendole riusciremo a capire che parlare di scontro di civiltà non ha senso (e rientra in quelle stesse strategie, peraltro). C’è una questione molto più ampia che riguarda le donne, e attraversa tutte le culture.
Chi, oggi, sollecita le femministe o le persone che si oppongono al razzismo a “venire allo scoperto” lo fa per biechi motivi elettorali. O personali, nel caso ci si senta meglio ad aggredire le femministe (auguri).
Noi non sappiamo cosa sia accaduto a Colonia. Non sappiamo se si sia trattato delle aggressioni del branco o se, come si adombra, sia stata “un’azione di guerra”.

Sappiamo però due cose: che i femminismi non sono un giochino per bacheche di miserandi comici o di egualmente miserandi politici, ma l’unica via per far sì che la violenza di genere venga combattuta. Da qualunque parte venga. E sappiamo che non tutti sono uguali. Non tutti “i musulmani” stuprano. Non tutti gli italiani. Mio padre partecipò alla guerra di Grecia, e non stuprò nessuno. Né lo fece il soldato che nella Grande Guerra che assistette alla bestialità dei suoi compagni. Questa è l’acqua, appunto. Questa è speranza. Teniamolo a mente.

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