Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

11 luglio 2013

11 luglio 1995 - 11 luglio 2013 : 18 anni dal genocidio di Srebrenica


Oggi nel cimitero di Potocari verranno sepolti i resti di altre 409 vittime del genocidio di Srebrenica del 1995, identificate dal luglio dell'anno scorso ad oggi con il test del Dna.
NON C'E' PACE SENZA GIUSTIZIA
NON C'E' PACE SENZA RICONCILIAZIONE



Hasan Nuhanović era uno dei tre traduttori bosniaci di supporto al contingente di caschi blu olandesi a Srebrenica; il 12 luglio 1995 vide la madre, il padre, il fratello uscire dal campo per essere consegnarti ai macellai serbi. Non li rivide più.
Otto anni fa Hasan Nuhanović ha iniziato una causa al tribunale olandese accusando il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori, in quanto gli olandesi non potevano non sapere che i serbi avevano dichiarato che avrebbero passato per le armi ogni uomo di Srebenica.

“Oggi ho identificato mio fratello grazie alle sue scarpe da ginnastica. Quest'autunno mi dissero di mia madre. La trovarono, o meglio quello che rimaneva di lei, in un ruscello nel villaggio di Jarovlje, a due chilometri da Vlasenica. I serbi che ci vivono hanno continuato a buttare per 14 anni l'immondizia su di lei. Non era sola. Ne ammazzarono altri 6 nello stesso posto. Gli avevano dato fuoco.
Dissi: spero li abbiano arsi da morti.
Ho letto la dichiarazione di uno dei boia: “Non riuscivo più a premere il grilletto, avevo l'indice informicolato da quanto avevo sparato. Andavo avanti ad ammazzarli per ore”. Dichiarò inoltre che qualcuno aveva promesso loro 5 marchi per ogni musulmano ucciso quel giorno. Disse che costrinsero anche gli autisti a scendere e ammazzare almeno un paio di musulmani, in modo da assicurarsi il loro silenzio. Capito, poveri autisti!

Nella primavera del '95 comprai a mio fratello delle scarpe da ginnastica nuove, Adidas, da uno che viveva all'estero. Le aveva portate da Belgrado ritornando a Srebrenica dalle vacanze. Non le aveva portate nemmeno due mesi quando successe. Gli avevo comprato anche un paio di jeans Levi's 501. Li aveva addosso. Ricordo esattamente quale maglia e quale camicia indossasse.
Il dottore mi ha mostrato oggi le foto dei vestiti. Non è rimasto molto – disse – ma abbiamo le scarpe da ginnastica. Mise la foto sul tavolo e vidi le scarpe, le Adidas di mio fratello, come se le avesse appena tolte. Non erano nemmeno slacciate.
Allora il dottore portò un sacco e rovesciò davanti a me sul cartone tutto quello che rimaneva degli effetti personali di mio fratello, le cose trovate sui suoi resti. Dopo 15 anni di attesa presi le sue scarpe da ginnastica in mano. Trovarono la cintura con la grande fibbia metallica e il resto dei jeans. Avevano anche entrambe le calze. Cercavo la ben nota etichetta Levi's, un indizio in più per aiutarci a confermare la sua identità. Presi in mano, i resti dei jeans. I bottoni metallici. Gli interni delle tasche. Le parti in cotone si erano sgretolate. Non c'erano più. Erano rimaste solo le parti sintetiche. Un'etichetta diversa, solo leggermente sporca, penzolava intera, aggrovigliata tra i fili e i resti. Cercando il contrassegno della Levi's lessi: Made in Portugal.
Tutto il giorno avevo davanti agli occhi quella scritta. Credo che l'avrò davanti per tutta la vita. Forse comincerò a odiare tutto quello che è Made in Portugal, come odio la birra Heineken che i soldati olandesi tracannavano nella base di Potočari, nemmeno un'ora dopo che avevano cacciato tutti i musulmani – dritti nelle mani dei cetnici. O forse comincerò ad amare tutto quello che reca la sigla Made in Portugal, visto che mi ricorderà per tutta la vita il mio fratello ucciso.

Io, come tanti altri, ho continuato a pregare Dio per 15 anni di farmi la grazia di scoprire, una volta che la verità sarebbe venuta a galla, che non avevano sofferto molto, che non erano morti torturati.
Sono 15 anni che sono morti. Quell'anno nacquero dei bambini. Adesso hanno 15 anni; anzi alcuni festeggeranno proprio l'11 luglio il loro quindicesimo compleanno.
Non farò mai e in nessun modo niente che possa mettere a repentaglio il futuro di questi bambini. Non ci penso nemmeno, anzi confidiamo in Dio che questo non debba accadere mai più a nessuno. Solo ricordati, Amico, che non c'è amnistia. Per i boia non ci deve essere amnistia.

Come accaduto già molte volte, anche ieri i giornalisti mi chiesero quale sarebbe il mio messaggio per le future generazioni. Io gli avevo raccontato come dopo Dayton passavo in macchina attraverso la Bosnia orientale cercando le tracce di persone scomparse, assassinate. Sapevo che vicino a Konjević Polje, Nova Kasaba, Glogova sulla strada per Srebrenica, ci sono le fosse comuni, che i prati ne sono pieni. Anche quando attraversavo questi luoghi nei giorni quando tutto fioriva, quando tutto sbocciava, io non ero in grado di vedere quella bellezza. Io vedevo solo le fosse che nascondevano quei prati. Sotto i fiori giacevano i nostri padri, fratelli, figli. Le loro ossa. Viaggiando attraverso i luoghi abitati dai serbi, li guardavo dalla finestra e pensavo: chi di loro è un assassino? Chi è un assassino?
Per anni non pensavo, non vedevo altro. Per anni interi. Poi, un giorno, sul prato che avevo sentito nascondere una fossa comune, vidi giocare una bambina. Avrà avuto 5, 6 anni. L'età di mia figlia. Sapevo che lì abitavano i serbi. Lei correva sul prato. Senti pervadermi un miscuglio di emozioni: tristezza, dolore, odio.
Poi un pensiero mi passò per la mente: quali colpe ha questa bambina? Lei non intuisce nemmeno cosa nasconde il prato, cosa si cela sotto i fiori. Provai pietà per quella povera bambina così somigliante a mia figlia. Potrebbero giocare insieme sul prato – pensai. Desiderai che quella bambina e mia figlia non debbano mai vivere quello che abbiamo vissuto noi. Mai. Loro meritano un futuro migliore.
Questo dissi ai giornalisti di Belgrado.”

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