Oggi nel cimitero di Potocari verranno sepolti i resti di altre 409 vittime del genocidio di
Srebrenica del 1995, identificate dal luglio dell'anno scorso ad oggi con il
test del Dna.
NON C'E' PACE SENZA GIUSTIZIA
NON C'E' PACE SENZA RICONCILIAZIONE
Hasan
Nuhanović era uno dei tre traduttori bosniaci di supporto al contingente di
caschi blu olandesi a Srebrenica; il 12 luglio 1995 vide la madre, il padre, il
fratello uscire dal campo per essere consegnarti ai macellai serbi. Non li rivide
più.
Otto
anni fa Hasan Nuhanović ha iniziato una causa al tribunale olandese accusando
il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori, in
quanto gli olandesi non potevano non sapere che i serbi avevano dichiarato che
avrebbero passato per le armi ogni uomo di Srebenica.
“Oggi
ho identificato mio fratello grazie alle sue scarpe da ginnastica.
Quest'autunno mi dissero di mia madre. La trovarono, o meglio quello che
rimaneva di lei, in un ruscello nel villaggio di Jarovlje, a due chilometri da
Vlasenica. I serbi che ci vivono hanno continuato a buttare per 14 anni
l'immondizia su di lei. Non era sola. Ne ammazzarono altri 6 nello stesso
posto. Gli avevano dato fuoco.
Dissi:
spero li abbiano arsi da morti.
Ho
letto la dichiarazione di uno dei boia: “Non riuscivo più a premere il
grilletto, avevo l'indice informicolato da quanto avevo sparato. Andavo avanti
ad ammazzarli per ore”. Dichiarò inoltre che qualcuno aveva promesso loro 5
marchi per ogni musulmano ucciso quel giorno. Disse che costrinsero anche gli
autisti a scendere e ammazzare almeno un paio di musulmani, in modo da
assicurarsi il loro silenzio. Capito, poveri autisti!
Nella
primavera del '95 comprai a mio fratello delle scarpe da ginnastica nuove,
Adidas, da uno che viveva all'estero. Le aveva portate da Belgrado ritornando a
Srebrenica dalle vacanze. Non le aveva portate nemmeno due mesi quando
successe. Gli avevo comprato anche un paio di jeans Levi's 501. Li aveva
addosso. Ricordo esattamente quale maglia e quale camicia indossasse.
Il
dottore mi ha mostrato oggi le foto dei vestiti. Non è rimasto molto – disse –
ma abbiamo le scarpe da ginnastica. Mise la foto sul tavolo e vidi le scarpe,
le Adidas di mio fratello, come se le avesse appena tolte. Non erano nemmeno
slacciate.
Allora
il dottore portò un sacco e rovesciò davanti a me sul cartone tutto quello che
rimaneva degli effetti personali di mio fratello, le cose trovate sui suoi
resti. Dopo 15 anni di attesa presi le sue scarpe da ginnastica in mano.
Trovarono la cintura con la grande fibbia metallica e il resto dei jeans.
Avevano anche entrambe le calze. Cercavo la ben nota etichetta Levi's, un
indizio in più per aiutarci a confermare la sua identità. Presi in mano, i
resti dei jeans. I bottoni metallici. Gli interni delle tasche. Le parti in
cotone si erano sgretolate. Non c'erano più. Erano rimaste solo le parti
sintetiche. Un'etichetta diversa, solo leggermente sporca, penzolava intera,
aggrovigliata tra i fili e i resti. Cercando il contrassegno della Levi's
lessi: Made in Portugal.
Tutto
il giorno avevo davanti agli occhi quella scritta. Credo che l'avrò davanti per
tutta la vita. Forse comincerò a odiare tutto quello che è Made in Portugal,
come odio la birra Heineken che i soldati olandesi tracannavano nella base di
Potočari, nemmeno un'ora dopo che avevano cacciato tutti i musulmani – dritti
nelle mani dei cetnici. O forse comincerò ad amare tutto quello che reca la
sigla Made in Portugal, visto che mi ricorderà per tutta la vita il mio
fratello ucciso.
Io,
come tanti altri, ho continuato a pregare Dio per 15 anni di farmi la grazia di
scoprire, una volta che la verità sarebbe venuta a galla, che non avevano
sofferto molto, che non erano morti torturati.
Sono
15 anni che sono morti. Quell'anno nacquero dei bambini. Adesso hanno 15 anni;
anzi alcuni festeggeranno proprio l'11 luglio il loro quindicesimo compleanno.
Non
farò mai e in nessun modo niente che possa mettere a repentaglio il futuro di
questi bambini. Non ci penso nemmeno, anzi confidiamo in Dio che questo non
debba accadere mai più a nessuno. Solo ricordati, Amico, che non c'è amnistia.
Per i boia non ci deve essere amnistia.
Come
accaduto già molte volte, anche ieri i giornalisti mi chiesero quale sarebbe il
mio messaggio per le future generazioni. Io gli avevo raccontato come dopo
Dayton passavo in macchina attraverso la Bosnia orientale cercando le tracce di
persone scomparse, assassinate. Sapevo che vicino a Konjević Polje, Nova
Kasaba, Glogova sulla strada per Srebrenica, ci sono le fosse comuni, che i
prati ne sono pieni. Anche quando attraversavo questi luoghi nei giorni quando
tutto fioriva, quando tutto sbocciava, io non ero in grado di vedere quella
bellezza. Io vedevo solo le fosse che nascondevano quei prati. Sotto i fiori
giacevano i nostri padri, fratelli, figli. Le loro ossa. Viaggiando attraverso
i luoghi abitati dai serbi, li guardavo dalla finestra e pensavo: chi di loro è
un assassino? Chi è un assassino?
Per
anni non pensavo, non vedevo altro. Per anni interi. Poi, un giorno, sul prato
che avevo sentito nascondere una fossa comune, vidi giocare una bambina. Avrà
avuto 5, 6 anni. L'età di mia figlia. Sapevo che lì abitavano i serbi. Lei
correva sul prato. Senti pervadermi un miscuglio di emozioni: tristezza, dolore,
odio.
Poi
un pensiero mi passò per la mente: quali colpe ha questa bambina? Lei non
intuisce nemmeno cosa nasconde il prato, cosa si cela sotto i fiori. Provai
pietà per quella povera bambina così somigliante a mia figlia. Potrebbero
giocare insieme sul prato – pensai. Desiderai che quella bambina e mia figlia
non debbano mai vivere quello che abbiamo vissuto noi. Mai. Loro meritano un
futuro migliore.
Questo
dissi ai giornalisti di Belgrado.”
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