Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

21 settembre 2011

Ancora dalla Colombia: provocazioni e workshop

PROVOCAZIONI

Mercoledì 17 agosto 2011

Prospettive femministe su conflitti e guerre attuali - Mireya Forel, Spagna
Ci sono guerre segrete, interventi sotterranei, guerre economiche, ecologiche, mediatiche – non solo con fucili e missili. Condividiamo il sentimento di impotenza sul fatto che anche la sinistra sa molto poco di ciò, come sulla Libia, Costa d’Avorio, ecc. Poi è arrivata la Primavera in Tunisia, seguita dall’Egitto… avevamo questa immagine che le donne nei paesi musulmani erano sottomesse, poi abbiamo capito che sia le donne sia gli uomini erano capaci di organizzare democrazia diretta, qualcosa che noi stesse non siamo state capaci di fare. Le donne col velo avevano la voce.
I governi dell’occidente sono implicati nel mantenimento delle dittature. C’è maggiore fiducia nel sud che nel nord, ci sono movimenti per una “democrazia reale subito” in Portogallo, Spagna, Grecia, mentre l’Italia ancora non si è mossa. La Grecia è un esempio interessante di resistenza, c’è un forte movimento contro il debito esterno, mentre l’Europa si sta costruendo creando zone nord/sud: se prima la contrapposizione era est/ovest, adesso c’è un sud dell’est e dell’ovest; in Grecia c’è un linguaggio da terzomondisti, hanno raccolto l’esempio della resistenza dell’Ecuador contro il pagamento del debito, non hanno trovato esempi in Europa. Invece l’occidente biasima i greci per il debito, dice loro di smetterla di essere pigri. Il paradigma patriarcale – indebolire per creare dipendenza è una trappola e il capitalismo l’ha sfruttata con il colonialismo.
Dobbiamo decolonizzare le nostre stesse menti tenendo presente la capacità che ha il sistema di assimilare le rivendicazioni.
Siamo Donne in nero e di sinistra, va spazzato via il modo di vedere la storia, va rivendicata l’opportunità di parlare del sud; i movimenti femministi in Europa e negli Stati Uniti o il movimento ecologista hanno avuto lo slancio per farlo soltanto con le lotte di liberazione dal colonialismo in passato e ora con la mobilitazione della Tunisia o del Marocco. La Francia nelle colonie ha fatto massacri peggiori del nazismo e soltanto negli ultimi dieci anni c’è stato finalmente anticolonialismo nella sinistra, io però sono della generazione del radicalismo. Nel workshop del pomeriggio parleremo anche delle trappole legate all’Occidente e all‘uso della dichiarazione universale dei diritti umani.


Opporsi alla militarizzazione delle agende della sicurezza nazionale e internazionale; gli effetti dell’arruolamento nelle forze armate sull’identità delle giovani donne - Yvonne Deutsch, Israele
Nell’esperienza collettiva del benvenuto abbiamo sentito nostalgia per la voglia di interconnetterci in solidarietà e amore e in molte avevamo le lacrime agli occhi per l’accoglienza fattaci dalla Ruta Pacifica.
Ringrazio le Donne in nero colombiane e le svizzere che mi hanno permesso di venire qui. Da Israele siamo in cinque ebree, io e Tamara Traubmann siamo della Coalition of Women for Peace ma io mi considero Donna in Nero, sono stata tra le fondatrici, come Dafna, che è qui con Tamar; vado alle vigil con le altre a Haifa e Gerusalemme contro l’occupazione. Ci andiamo non come madri ma come cittadine.
Nella società israeliana l’esercito (l’IDF) ha un ruolo centrale per la costruzione di un modello maschile contrapposto all’immagine di impotenza degli ebrei nell’olocausto: molti si sentono vittime ma nel comportamento personale e nazionale sono oppressori.
Israele è diventato un paese fornitore di armi a tutto il mondo; fare il servizio militare per tre anni dà diritto di cittadinanza e accesso al lavoro; l’élite economica e politica maschile proviene in gran parte dall’esercito.
Si pensa che le donne capiscano poco le questioni di pace e guerra; quando è stata formata Peace Now (era un movimento sionista per la pace con l’Egitto, di ex ufficiali) c’era solo una donna, che faceva parte del Parlamento e cui fu impedito di firmare la lettera di fondazione, benché avesse fatto il servizio militare, perché non aveva preso parte ai combattimenti. Le DiN reclamano uno spazio pubblico antimilitare, fanno proteste contro l’occupazione e hanno aperto spazi in Italia e in Europa, come in Israele, per l’attivismo delle donne in solidarietà con le/i palestinesi e contro il militarismo. Le donne nell’IDF svolgevano per lo più ruoli di servizio (fare il tè,…). Poi alcune, le femministe liberali, hanno chiesto che venissero dati loro impegni e responsabilità uguali agli uomini: e questo non lo capisco, non capisco come si possa rivendicare il diritto di intervenire a Gaza o di esercitare un ruolo da oppressori. Dal 1995 le donne sono integrate in tutte le attività dell’esercito, nel ruolo di pilota, come operatrici di missili: ragazze di diciotto anni sono addestrate all’uso delle armi, combattono, ma sono ancora escluse dalle posizioni elevate nell’IDF.
Negli scambi di cooperazione con donne italiane e palestinesi si è detto a lungo che la ragion d’essere degli eserciti è proteggere donne, bambini, la popolazione, ma che questa è una scusa per il potere. Sono interessata a discutere come l’esercito incide sull’identità delle giovani donne, perché, sebbene io sia un’attivista per la pace femminista e antimilitarista e mio figlio abbia deciso di non andare nell’esercito (come fanno molti, sia facendosi riconoscere una malattia mentale sia come obiettori di coscienza), mia figlia ha deciso di andare per cercare di diventare paramedica, per curare, non per uccidere. Dopo un anno nell’esercito, sta avendo una vera crisi, vedremo come evolve.
Come l’esercito influenza l’identità delle donne giovani? Da un lato dà loro un’alta immagine di se stesse, si sentono forti, competenti, ma dall’altro si trovano di fronte alla mancanza di rispetto per le donne e la interiorizzano. Vedono la mascolinità dominante come preferibile, si addestrano a parlare a voce bassa, emozionate per il lavoro con le armi e trascurano la loro funzione. L’esercito è basato su una cultura di molestia sessuale, le giovani donne la banalizzano e la negano. In realtà la presenza delle donne contribuisce alla “normalizzazione” dell’esercito, mentre la militarizzazione ha un grave impatto sulla vita personale.
Come ha toccato la nostra vita il militarismo? Come DiN siamo uscite per protestare contro l’occupazione, ma qual è il rapporto con l’antimilitarismo? Io faccio parte di un piccolo gruppo di donne che discutono come madri di soldati e quando mia figlia si è arruolata, ho voluto che andasse in un luogo dove poteva sperimentare quello che provava e ora voglio trasformare il mio rapporto con lei perché non abbia paura che le dica: ‘Vedi, te l’avevo detto’. Come madri antimilitariste ci siamo riunite in un rifugio contro i bombardamenti, andando sottoterra per parlare di questa pena; era un approccio artistico, molto radicale.


Il lavoro delle donne israeliane con i mezzi di comunicazione e le campagne nei media contro le persecuzioni politiche - Tamara Traubmann, Israele

Sono entusiasta di essere a Bogotà e ringrazio le donne della Ruta per l’invito e le donne italiane per avere reso possibile il viaggio. In questi giorni ho imparato molto. Sono nata in Cile, rifugiata in Israele a tre anni, all’inizio della dittatura di Pinochet; sono una giornalista. Ho fatto obiezione di coscienza al servizio militare; faccio parte della Coalition of Women for Peace (www.coalitionofwomen.org) che raccoglie diverse organizzazioni di donne antimilitariste come DiN, New Profile, Checkpoint watch, Tandy (donne comuniste) e altre organizzazioni; tutte queste organizzazioni lottano contro il razzismo, il militarismo, il capitalismo e condividono una visione comune di una società giusta senza discriminazioni sul piano etnico, dell’orientamento sessuale, ecc. Dalla seconda guerra del Libano e dagli attacchi a Gaza la coalizione lotta perché Israele sia processato per offese sessuali e ora è stato fatto un ricorso alla Corte suprema ma il caso verrà perso. Lottiamo contro l’occupazione e la demolizione delle case, ad esempio in un piccolo centro beduino nel sud del paese; chiediamo la punizione dei responsabili di crimini di guerra.
Israele è una società in guerra dal 1948, e da quarant’anni non c’è cambiamento della situazione se non in peggio. Cerchiamo mezzi alternativi per lottare contro il militarismo nella nostra stessa società.
Nel workshop si parlerà di attivismo economico. Le organizzazioni palestinesi hanno emesso un appello congiunto per il boicottaggio. Noi abbiamo iniziato il nostro progetto Who profits from the Occupation? (www.whoprofits.org) che è una voce dall’interno, una inchiesta che individua i privilegi che abbiamo come israeliani. Nella nostra base dati ci sono ormai 14.000 aziende, israeliane e internazionali, che guadagnano dall’occupazione e abbiamo messo 500 di queste nel nostro sito web. L’occupazione è stata ed è un peso per l’economia israeliana, il budget per la sicurezza è uno dei più alti del mondo, 9 miliardi di dollari USA, le spese sono enormi rispetto al PIL, e ne approfittano solo coloro che sono vicini al potere; molte ditte approfittano del muro, ditte che producono cemento o apparati elettronici. I motivi economici per mantenere l’occupazione sono molto forti, non ci sono solo motivi economici o di sicurezza.
C’è un processo di riforma neoliberale, aumentano le differenze sociali, aumentano le privatizzazioni (ad es. anche i checkpoint sono privatizzati); così ci sono più interessi che motivano il governo, più ditte interessate all’occupazione ed è difficile distinguere tra economia israeliana ed economia degli insediamenti, che pure rappresentano soltanto il 10% dei territori di Israele e meno del 10% della popolazione. L’economia israeliana è fortemente centralizzata: 20 gruppi d’affari appartenenti a famiglie controllano oltre il 50% del mercato azionario israeliano, i 10 più grandi controllano il 30%. Il governo israeliano dà molti incentivi: riduzione delle tasse, terreno a basso prezzo, regole permissive sul lavoro e sull’ambiente, nessun obbligo. Vi sono tre principali aree di interesse:
Controllo della popolazione: ditte per la sicurezza, gas lacrimogeni, bastoni elettrici ecc., venduti sul mercato internazionale, nelle fiere sulla sicurezza di tutto il mondo: gli agenti delle ditte li presentano come prodotti sperimentati sui palestinesi e questo aiuta a vendere; Group 4 Security (G4S), uno dei maggiori fornitori al mondo per la sicurezza privata, offre strutture di imprigionamento ricavate dal controllo sui palestinesi.
Industrie delle colonie: cemento, costruzioni, fabbriche come Soda Stream che vende in 30.000 negozi in 39 paesi prodotti provenienti da una fabbrica in una colonia illegale, con un’etichetta che rinvia all’aeroporto di Tel Aviv, ma lì ci sono i negozi, non la fabbrica (lo fanno molte ditte attraverso l’immagazzinamento in Israele). La scorsa settimana la Coalition ha dato informazioni su questi prodotti, che sono molto venduti, in particolare in Svezia; in passato dopo che era stata fatta una campagna la ditta produttrice ha costruito un’altra fabbrica in Israele.
Sfruttamento economico di forza lavoro e risorse palestinesi, come ad es. Veolia, una ditta francese contro cui c’è stata una campagna enorme in Europa e la ditta ha perso più di 5 milioni di euro, per cui Veolia ha comunicato che si ritira dal progetto di una linea ferroviaria che passa su territorio palestinese. Nel contratto questo non appariva e la ditta non si è preoccupata di verificare quali fossero i territori coinvolti: rendere invisibile l’occupazione cancellando la Linea Verde facilita le omissioni in Israele.
Israele è protetto dal veto USA alle Nazioni Unite, ma le aziende commerciali sono esposte: la Coalition lancia e partecipa a campagne di boicottaggio internazionali per far pressioni su queste aziende.
WORKSHOPS 17 agosto 2011


Prospettive femministe su conflitti e guerre attuali - Mireya Forel, Spagna/Siviglia

Mireya: richiama alcuni punti che ha proposto nella sua “pro-vocazione” in plenaria; in Europa e in Occidente le donne riproducono inconsciamente, anche come femministe, valori patriarcali; le Donne in nero cercano di disintossicare, però è un mondo molto neocolonialista. Invita a dire perché siamo in questo ws ma vorrebbe anche parlare del perché si è sviluppata questa cultura.

Donna dall’Uruguay: le interessano strategie pratiche e di successo perché contano i risultati, grandi o piccoli. Occorre sganciarsi dal machismo, nel suo paese c’è un grande problema di violenza domestica e di genere ma ora le donne denunciano e c’è sforzo per arrivare a una legge.

Un’economista: il patriarcato si rinnova continuamente; c’è un legame tra povertà, vita delle donne, violenza domestica.

Elisa (italiana di Udine che lavora a Bogotà): in Italia c‘è una grande trappola, a livello di legge c’è molto di buono, divorzio, aborto ma c’è una dittatura totale, non c’è democrazia, Berlusconi fa una politica di merito estetico, le donne debbono essere belle, si vendono agli uomini per avere successo economico o politico.

Sonia (Ruta Pacifica): gli impegni delle conferenze mondiali, parallele a quelle istituzionali, sono diventati trappole; la Colombia li ha firmati ma non li ha applicati.

Donna da Santander: è qui per dire alle donne che non sono potute venire di che cosa si è parlato. C’è molto machismo, in politica ci sono più uomini che donne, adesso c’è un’iniziativa per una quota del 30% di donne ma non è una richiesta delle donne.

Donna da Antiochia: circa la relazione tra donne e patriarcato, nelle organizzazioni di donne c’è la trappola sia di chi è più femminista sia delle giovani che credono di avere tutti i diritti e che non sia necessario lottare.

Donna da Bogotà (Ruta Pacifica): diritti umani, azioni positive, responsabilità del governo precedente, necessità che ci siano più giovani.

Mireya: vorrebbe trasmettere una riflessione sulle trappole del machismo. In plenaria ha parlato della lotta anticoloniale, del diritto all’autodeterminazione per il riconoscimento di un popolo, dell’impatto che c’è stato sulla società civile occidentale, quella dei colonizzatori. Gli stati-nazione moderni si sono sempre costituiti sulla dualità tra valori universali e politica coloniale o imperialista, usando i grandi principi, come quelli della rivoluzione francese, per cui tutti erano cittadini, al di là della religione, ma erano eliminate – già in linea di principio – le donne, i poveri, i popoli su cui l’Occidente ha costruito la sua ricchezza. Con la fine del colonialismo si sono costruite nuove frontiere, non rispettando i valori dei popoli indigeni ed escludendoli, come gli afroamericani. In Francia, stato centralista, sono state negate tutte le differenze; così in Spagna, si è negata la differenza Andalusa.
La modernità si è presentata come capacità di adattarsi alle politiche di accumulazione di ricchezza; negli anni ’60 ci sono stati i movimenti anticoloniali e gli impulsi del nazionalismo, poi si è cominciato a scoprire che il mondo occidentale – che dieci anni prima giustificava il colonialismo – non riconosceva le donne. In Svizzera non hanno avuto il diritto di voto fino agli anni ’70, del resto a inizio ‘900 il patriarcato e il colonialismo reprimevano le donne che chiedevano il diritto di voto e c’è voluta la II guerra mondiale perché esse lo ottenessero in vari paesi. E’ una questione di doppia morale.
Negli anni ’70 sono state dedicate molte energie a confrontarsi e a lottare per la differenza, l’affermazione del diritto sul proprio corpo viene dalla lotta anticoloniale, in Italia ci sono state lotte straordinarie. La ministra della Difesa in Spagna giustifica la guerra in Afghanistan in nome dei diritti delle donne: è anche questa una trappola, così come nel caso delle politiche verso Hamas. Viene denunciata la mancanza del rispetto dei diritti di uguaglianza, però viene fatto il discorso delle donne come natura, sin dai filosofi greci e dalle teorie sull’inferiorità delle donne.
Le femministe cercano di decostruire questo discorso e la politica che se ne serve. Primo, siamo donne non biologicamente ma culturalmente. Secondo, si è creata una dualità tra donne e uomini e tra natura e ragione ma non se ne sono analizzate le cause; svalutando la classe contadina, noi femministe occidentali ci siamo identificate con il progresso nella sua versione ufficiale, patrimonialista, per la conquista del denaro e negli anni ’80 non si è accolto l’ecofemminsimo.
La politica sistematica dell’uguaglianza è una trappola, è una forma di colonialismo machista che insulta le donne, ne disprezza le culture, le violenta, le rinchiude, con il potere patriarcale che si esercita nell’ambiente e nella casa. E’ tempo per le femministe di porre questioni fondamentali, di comprensione di altre culture, non di fare la politica delle ong per “salvare” le donne contadine. Inoltre, la politica dell’uguaglianza diventa competizione per il potere in stile maschile; non è per creare settarismo, ma le “patrimonialiste” hanno considerato le donne come appendici degli uomini mentre le ecofemministe hanno subito la propria rimozione e la dominanza di uomini nell’ecologia.
Un altro tema è quello della violenza nella pubblicità e nei media con l’uso di immagini macho. L’abbiamo denunciata ma nel femminismo classico non si è fatta la connessione con il militarismo, tranne un preciso momento in cui le donne, ma anche gli uomini, si sono dichiarati per la pace, però quel pacifismo è di nuovo una trappola, si usano armi e bombe per risolvere i conflitti.
Lo stato-nazione nasce sulla violenza, sulla colonizzazione, sulla globalizzazione; si è dimenticato di trattare del militarismo, del fascismo eppure sono un grosso problema per il femminismo, così come il patriarcato e il razzismo. […] Accenna al concetto di femminismo dei diritti in Italia e alle lotte contro le discriminazioni: sono trappole in cui cadiamo nelle critiche ai nostri governi.
C’è poi il problema della chiesa cattolica e dei principi dei diritti universali creati per gli uomini; se in Europa predomina la cristianità, come possiamo dare lezioni alle donne egiziane? Dobbiamo dare loro sostegno, non però “portando la verità” perché noi abbiamo i principi universali, bensì rispettando la loro autonomia.
Siamo differenti, disarticoliamo lo spirito patriarcale del potere, produciamo rivendicazioni e pensieri femministi che non vedano soltanto il sessismo; ce lo insegnano le donne del Sud, donne dell’India, dell’africa, dell’America Latina: il patriarcato distrugge la terra, divide le culture, è capace di adattarsi e si appropria delle nostre rivendicazioni strumentalizzandole per invadere paesi.

C’è fretta di lasciare la sala al ws successivo, ci sono alcuni rapidi interventi di una donna della regione del Bolivar; una di Buenaventura; una della Ruta Pacifica (sul diritto alla salute e il programma del governo); una di Antiochia (sulla trappola del processo partecipativo, con gli attori paramilitari e i progetti fatti in loro nome); una seconda donna della regione del Bolivar (sul linguaggio esclusivo del patriarcato e sulla violenza che rende violenti).


Prospettive di protezione delle donne attiviste della rete DiN e della Ruta Pacifica -Alejandra Miller, Cauca Colombia

Alejandra fa una breve introduzione in cui spiega cos’è la protezione per la Ruta e come hanno lavorato su questo tema.
La protezione “sororal” [non esiste un termine equivalente in italiano] è affidamento, riconoscimento dell’autorità e del sapere di altre donne, quindi protezione come autoprotezione di se stesse e tra donne. La proteccion esta en mi y en la otra: la protezione sta in me e nell’altra

Gli elementi chiave per la resistenza nonviolenta e per proteggere noi stesse sono:
. “autocuidado” = cura di sé, prendere misure di autoprotezione e cura, ascoltare il proprio corpo, seguire l’intuizione di fronte al pericolo;
- analisi del contesto, prevedere rischi e pericoli;
- alleanze con alter organizzazioni di donne e miste accomunate dal credere nella nonviolenza;
- costruzione simbolica: i simboli ci proteggono; dobbiamo decostruire i simboli della guerra per spiazzare la logica delle armi e del patriarcato; parlare ai paramilitari li disarma;
- creare fiducia tra noi: la responsabilità collettiva inizia dalla responsabilità personale di ciascuna di noi; in situazioni di pericolo ogni donna deve sapere cosa fare;
- resistenza nonviolenta basata sul consenso

I principi fondamentali sono:
- il rispetto pr la vita e il rifiuto di ogni forma di violenza;
- la partecipazione, le decisioni collettive, il pluralismo;
- la concertazione;
- la coscienza etica del nostro ruolo.
Per la Ruta la protezione ha successo perché parte dalla consapevolezza di ognuna. In effetti nessun attore armato ha mai attaccato le carovane della Ruta. La Ruta vuole proteggere le attiviste e le donne che vivono in situazioni di conflitto. La presenza solidale, le denunce fanno diminuire le aggressioni.
Differenza tra sicurezza (imposta, militare) e protezione. La sicurezza private spesso è composta dalle stesse persone della sicurezza militare. La buona comunicazione è la chiave della protezione.

Alejandra pone quindi a tutte due domande:
1. La Ruta, tra sicurezza e protezione, preferisce parlare di protezione. E’ lo stesso per le DiN parlare di sicurezza o di protezione?
2. Che proposta di protezione e autoprotezione non armata fanno le DiN? Quali strategie di protezione adottano?

- Sicurezza è qualcosa che sento dentro, mentre la protezione è quella che mi danno gli altri (Dareen, Palestina).
- Parla della sua esperienza di relazione con donne che sono leader, difensore dei diritti umani e, nello stesso tempo, vittime; alla sua domanda su che misure prendevano per proteggersi, loro rispondevano che avevano fatto denunce alle autorità, ma senza risultati. Secondo lei ci sono 2 alternative. O tenere un profilo basso, rendersi invisibili, o pubblicizzare al massimo qule che si fa e le reazioni dei soggetti armati (Juliana, Colombia).
- Proteggere significa creare legami, una rete che protegge, mentre la sicurezza a livello globale ha assunto un significato diverso, negativo (Sandra,Colombia).
- Sicurezza è mantenere alta l’autostima.
- Per 8 anni il presidente Uribe ha fatto una politica di “sicurezza democratica” che ha significato guerra, armi, violazioni dei diritti umani… I difensori della sicurezza uccidevano e violentavano. Sicurezza vuol dire guerra e conflitto (donna del Cauca).
- Sentirmi sicura ogni giorno dove vivo, avere un lavoro, questo è sicurezza. Ma il governo parla di sicurezza in senso militare. Protezione invece vuol dire prendermi cura di me e delle mie compagne (Noris, Colombia).
- Uno degli strumenti di protezione può essere il sistema di comunicazione che ci dà visibilità e forza (donna del Cauca, “comunicasora social”).
- In inglese c’è un’altra parola “safety”, che significa tranquillità, esprime un significato femminile della sicurezza, benessere, star bene (Yvonne, Israele).
- Bisogna costruire sicurezza nelle donne per essere più forti e quindi in grado di proteggersi.
- Molte donne sono minacciate e subiscono violenze e spesso devono abbandonare i luoghi dove vivono; proteggerle significa anche creare un fondo a cui attingere per portarle in luoghi sicuri.



Come stiamo come donne mentre lottiamo contro il militarismo per i diritti sociali e per il cambiamento - Yvonne Deutsch, Israele

Yvonne: A parte quello che facciamo come DiN contro l'occupazione, sono interessata a come costruiamo le nostre relazioni, al processo di empowerment reciproco, a cosa stiamo facendo per noi stesse.
Dopo undici anni di attivismo ero totalmente esaurita (burn out). Ho potuto studiare l'equilibrio/squilibrio tra corpo e mente, tra stress e benessere. È un privilegio poterlo fare, sarebbe un diritto di tutte anche se non a tutte è possibile farlo.
Vorrei scambiare le nostre esperienze e proporvi una pratica semplice ed efficace per controllare o sbloccare diversi stati emotivi.

Corpo e mente sono connessi, stress, conflitti e traumi ci squilibrano. Dobbiamo ascoltare con attenzione i nostri sentimenti e individuare quelli che ci disturbano. Ogni stato emozionale corrisponde a un dito; per scioglierlo possiamo tener stretto con l'altra mano il dito corrispondente per tre minuti, respirando profondamente.

Pollice: per sciogliere il pianto, il lutto, il dolore emotivo
Indice: per sciogliere la paura e il panico
Medio: per sciogliere la rabbia e il risentimento
Anulare: per sciogliere l'ansia e la preoccupazione
Mignolo: per dissipare la mancanza di autostima.

Questa pratica si può fare su noi stesse o su un'altra persona, ad es. un bambino; è una pratica semplice, che come molte altre mette in evidenza la saggezza del corpo di cui non siamo consapevoli.
Di solito le donne occidentali pongono l'accento sulla mente, separandosi dalle loro emozioni. Abbiamo molto da imparare dalle donne colombiane e dal loro uso di fiori, canti, colori.


Nonviolenza come un modo di rispondere ai conflitti - Dareen Khattab, Palestina

Dareen: non vuole fare lezione e spera che in aula ci sia Corinne, esperta di nonviolenza; si sente legata a Gandhi e a Martin Luther King.
Nel conflitto israelo-palestinese la nonviolenza è stata utilizzata come modo diverso di contribuire alla lotta contro l’occupazione. La prima Intifada non è stata totalmente nonviolenta, ma è nota per l’uso delle pietre – non di armi – come forma di resistenza popolare, tutte/i erano in strada, bambini, anziani… le madri a difendere le case, donne e uomini erano tutte/i coinvolte/i e la situazione apparve chiara, nei media venne data un’immagine positiva.
Invece, purtroppo, con gli attentatori suicidi si è perso l’appoggio del mondo e soltanto di recente hanno recuperato consenso e credibilità, con una lotta nonviolenta per scopi precisi: manifestazioni di palestinesi, israeliani, internazionali ogni venerdì davanti al muro, seguite dai media internazionali e ci sono stati villaggi che hanno avuto successo per ottenere di spostare il tracciato; allo stesso modo contro l’evacuazione dalle case. C’è persistenza e l’esercito e la polizia di Israele cercano di opporsi creando nuove misure, ad esempio l’ordine di non partecipare a manifestazioni per sei settimane. (Si inserisce Tamar: non è una misura di polizia, è decisa dai giudici, dopo aver portato il caso in tribunale).
Oggi è difficile fare manifestazioni di massa come nella prima Intifada, ci sono tanti check-points e tanta attività dei coloni, perciò si cerca di superare la difficoltà mandando messaggi in internet, come per le iniziative nella Città vecchia di Gerusalemme. E’ un modo di utilizzare mezzi di comunicazione alternativi per azioni nonviolente, è una forma di resistenza per cui si fanno campagne nei negozi per prodotti alternativi a quelli israeliani.

Elisabetta Donini: ricorda le esperienze fatte alla fine degli anni ’80 come donne italiane, palestinesi e israeliane e chiede a Dareen un commento sugli aspetti di genere della nonviolenza.

Dareen: non ha citato le Donne in nero, ci sono altri esempi di resistenza nonviolenta, come la catena umana attorno alle mura di Gerusalemme all’inizio del 1990, lei se ne ricorda anche se era una bambina, però è mancata la persistenza, se ne è perso il ricordo.

Dalla sala vengono chiesti altri esempi.

Dareen: non ne sa abbastanza sul lato israeliano; lei è palestinese e chiede alle donne israeliane presenti [Dafna Kaminer e Tamar] se vogliono intervenire. Ogni 15 del mese, per tre mesi, c’è stata una dimostrazione per chiedere un accordo politico [tra Fatah e Hamas], fino agli accordi del Cairo, che però non hanno risolto il problema e ancora adesso ci sono piccole manifestazioni per la riconciliazione. Dalla prima Intifada fino al 2005-2006 non c’è stato in Palestina un buon attivismo nonviolento.

Judith Berlowitz: domanda qual è la reazione palestinese a ciò che sta succedendo in Israele con le manifestazioni di protesta sociale.

Dareen: non può dare una risposta ufficiale, c’è stata informazione e attenzione, le questioni socio-economiche e l’occupazione sono connesse, però lei vorrebbe che nelle manifestazioni questa coesione non venisse fatta, perché così la pressione in Israele è maggiore.

Una donna che parla spagnolo: parla del legame tra nonviolenza e il simbolico e si rifà al workshop di Mireya: pacifismo e femminismo non sono la stessa cosa. Contro il popolo palestinese c’è molta violenza e in queste condizioni non c’è uguaglianza; si chiede se sia possibile una nonviolenza puramente simbolica.

Dareen: non pensa che si tratti di nonviolenza simbolica, perciò parlava di resistenza popolare. Ognuna/o può partecipare, attorno c’è il sostegno della gente, sono manifestazioni aperte e la partecipazione cresce, cresce la diversità. Non ha toccato il punto del’uguaglianza.

Donna del Cauca: in Colombia si fa resistenza nonviolenta attraverso il cibo, non comprando prodotti di marca e spingendo le donne a consumare ciò che è prodotto da contadini e contadine. Si vogliono indurre le donne ad appoggiare l’economia contadina attraverso l’educazione ambientale nelle scuole sul cibo, sulla produzione biologica; è iniziata una campagna perché la zona del massiccio diventi “sugar free”, perché gli abitanti consumino ciò che loro stessi producono; si spiega anche il legame con la salute. Soltanto il mercato è “certificato” e loro fanno resistenza promuovendo una campagna per diventare il proprio stesso mercato.

Altra donna che parla spagnolo: è interessante l’intersezionalità di cui ha parlato ieri Dareen, permette di analizzare le differenze che ci sono tra di noi come donne. C’è discussione politica sui metodi violenti e non; immagina che in Palestina ci siano dibattiti importanti e vorrebbe sapere quale discussione ci sia tra le donne per lottare contro Golia con metodi nonviolenti oppure no.

Dareen: tra le donne ci sono differenze su violenza o no. Sappiamo che nell’agenda politica di Hamas c’è strategia violenta, di lotta armata; le donne di Hamas non accettano lo stigma di generare figli perché siamo martiri, ma ci sono donne che per la loro affiliazione adottano del tutto l’agenda politica, non dicono se sono d’accordo sul lancio di missili o sugli attentati suicidi, non specificano quale violenza sostengono. Se sei madre di un figlio che fa atti violenti è facile cadere nella trappola e dare appoggio alla violenza.

Una donna colombiana: in Colombia molte donne sono contro la violenza e il militarismo, ma vengono trattate come se fossero ai margini della legge, a favore della guerriglia. Che cosa succede in Palestina? Come viene accolta una donna che sostiene la nonviolenza?

Dareen: in Palestina è diverso, non c’è esercito, ci sono forze
Mireya: non è che organizzare una resistenza nonviolenta implichi che non ci possa essere violenza. Come ci possiamo preparare a iniziative nonviolente? Sono forme di resistenza importanti a livello sociale ed economico ma anche per disintossicare l’informazione; a questo proposito ricorda ciò che ha detto Piedad Cordoba sull’informazione. Un esempio è quello di una campagna simbolica che denunci le implicazioni delle banche con la guerra.

Jimena, Ruta Pacifica del Cauca: il Cauca, in sintesi, è fatto di belle montagne, dei maggiori fiumi della Colombia – il Rio Magdalena e il Rio Cauca – di ricchezza di miniere, di flora e di fauna; ma nonostante la bellezza e la diversità è uno dei dipartimenti con il maggior tasso di violenza di tutti gli attori armati e del governo. Ha una storia segnata dal conflitto armato, le azioni nonviolente non sono bastate a fermarlo, ci si confronta sempre con la violenza.

Dareen: è una domanda difficile, vorrebbe saperne di più, lei intendeva limitarsi a segnalare problemi, si potrà parlarne con altre donne del Cauca.

Jimena: risponde che c’è soltanto lei.

Amity, Ruta Pacifica: le Donne in nero in Palestina sono un esempio cui rifarsi.

Dareen: non c’è un ramo palestinese delle Donne in nero, ci sono donne palestinesi di Israele che partecipano alle Donne in nero. Devono parlarne le israeliane [dà il microfono a Tamar e Dafna].

Tamar: la loro questione centrale, quando stanno in strada per un’ora, ogni venerdì, è “Basta con l’occupazione”: non ci sono altre scritte, a parte “Fermare l’assedio a Gaza”. Non è un’ingenuità, sanno che l’occupazione è alla base di molto di ciò che succede, che essere occupanti distrugge le loro radici, oltre agli aspetti socio-economici, ma molte/i in Israele hanno paura, sono convinte/i che è per la sicurezza di Israele che si occupano i Territori e con chi pensa alla sicurezza non c’è spazio per discutere.



Riflessione sulla militarizzazione della vita in Colombia – Dunia Leòn, Cartagena, Colombia

Introduzione
La militarizzazione coinvolge molte persone e molti aspetti della vita civile con effetti sulla vita sociale collettiva. In Colombia sono presenti molti soggetti armati che hanno sconvolto la vita civile.
Il governo precedente negava l’esistenza del conflitto armato che, invece, si è degradato colpendo sempre più la popolazione civile (sequestri di persona, violazione dei diritti umani, reclutamento forzato, deportazioni, stupri, schiavitù sessuale). Qualche cifra: 70.000 morti negli ultimi 20 anni, 4 milioni di desplazados, molti carcerati, molti desaparecidos.
I militari inoltre invadono aree civili, costruiscono scuole, strade ecc. con il concorso delle comunità locali. In questo modo il militarismo passa dai militari ai civili che li sostengono.
Siamo consapevoli che il militarismo è frutto del sistema patriarcale ed oggi la violenza contro le donne aumenta: la militarizzazione costituisce uno dei maggiori pericoli nella vita delle donne (uccisioni e proliferazione di molte altre forme di violenza.
Molte donne denunciano, raccolgono informazioni, rendono visibile con il linguaggio simbolico la realtà.

Come possiamo contribuire alla smilitarizzazione della società?

La militarizzazione è imposta alla popolazione civile (donna di Bolivar, Colombia).
Qui comandano le forze armate, ma la situazione viene considerata normale. L’esercito e i paramilitari sono la stessa cosa (donna di Tolima, Colombia).
Come coinvolgere gli uomini? C’è prostituzione infantile, gravidanze imposte: perché gli uomini s’impegnano per la difesa dell’ambiente, per le risorse e non per i diritti delle donne?
Non c’è protezione per la popolazione del Putumayo: le fumigazioni hanno creato un deserto, non ci sono scuole superiori, i nostri figli sono costretti ad entrare nell’esercito; i contadini sono in povertà e si spende tutto per le armi; crescono i soggetti armati e cresce la violenza (donna della Ruta del Putumayo, Colombia).
Si sta normalizzando la militarizzazione, che fare? Bisogna comunicare, coinvolgere la popolazione, recuperare la coscienza di cos’è civile, di cosa spetta alle forze armate e cosa spetta alla società civile; fare dei “plantones” per ribadire questo.
Bisogna coscientizzare le donne perché educhino diversamente i figli fin da piccoli, dobbiamo cambiare il ruolo delle donne nella famiglia. Come DiN dobbiamo essere più visibili (Donna di Santander, Colombia, rappresentante delle famiglie dei detenuti).
I contadini si stanno sempre più impoverendo: come lottare contro i latifondisti e il governo? (donna di Boliva, Colombia).
C’è molta presenza armata, i latifondisti si stanno impadronendo di tutta la terra come caimani che stanno divorando tutto. I militari vengono e dicono che si curano della popolazione. Ma di chi? Dobbiamo far sapere a tutti quel che facciamo, manifestare di più (donna della Ruta, Colombia).

In sintesi:
Bisogna puntare sui media utilizzandoli per disattivare il militarismo: vogliamo una sicurezza non militarizzata.
Non possiamo agire anche per gli uomini: che si muovano e si diano da fare anche loro, noi stiamo costruendo il nostro cammino, costruiscano anch’essi il loro.
Bisogna puntare sull’educazione dei figli, sulla formazione delle donne, sulla costruzione di simboli.
(Gli uomini spesso ricorrono alla violenza perché non hanno altri argomenti).



Confini, narcotraffico e salute ambientale - Amanda Camino, Colombia

La relazione è stata svolta da Amanda e da ragazze del Putumayo, che ci hanno illustrato come a causa della presenza di multinazionali del petrolio e minerarie la popolazione sia costretta ad andarsene emigrando in Ecuador legalmente o illegalmente. Le condizioni di vita di questi emigrati sono disumane. Il territorio del Putumayo è ricco e presenta una notevole biodiversità che gli interessi di sfruttamento tendono a ridurre, impoverendo di fatto la popolazione. E' presente anche il narcotraffico che ha l'obiettivo, per la gestione dei suoi affari, di controllare il territorio, appoggiando le multinazionali e attuando così una convergenza di interessi a danno delle popolazioni native.



Resistenza nonviolenta e strumenti per affrontare i conflitti armati - Tamara Traubmann, Israele
[http://www.coalitionofwomen.org]

Introduzione di Tamara, che conduce insieme con Orly Nathan delle Din di Haifa

E’ un ws per imparare a vicenda come creare strumenti alternativi.

La Coallition of Women for Peace è una organizzazione radicale che comprende diverse associazioni; il nostro obiettivo è di trasmettere il nostro messaggio a un pubblico più ampio.

Di solito i media ci ignorano – vogliono occuparsi delle nostre storie solo quando c’è violenza/sesso (per es. le campagne contro la pubblicità sessista ottiene copertura, perché in quel contesto noi donne siamo nel nostro ruolo tradizionale di vittime; la demolizione delle case invece non ha alcuna copertura). Molti giornali stanno chiudendo, o licenziano giornalisti esperti, sostituendoli con nuovi a basso salario. I giornali ora sono la voce delle persone con soldi e si rivolgono a giovani in carriera che hanno potere d’acquisto. Così abbiamo deciso di costituire i nostri mezzi di comunicazione alternativi, media indipendenti e giornalismo civile. Pensiamo che le persone più adatte a parlare di una lotta siano quelle che vi sono coinvolte. La legge della giungla della comunicazione è ‘definisci o sarai definito’ (ad esempio un gruppo di donne in Chiapas, Messico, ha preso il controllo di una stazione radio e ha invitato le donne a raccontare le loro storie… alla fine questo ha prodotto la sostituzione del Governatore Federale con una delle donne).

Alcuni esempi delle nostre attività:
1- Quest’anno è stata approvata una nuova legge alla Knesset – la Legge Anti-Boycott. Le donne israeliane hanno sempre sostenuto la lotta contro l’occupazione, ma oggi possono essere accusate per questo. Ora è proibito fare appelli per il boicottaggio contro l’occupazione, e si limita l'azione politica, criminalizzando le informazioni sull’occupazione. Abbiamo quindi iniziato una campagna contro la legge con lo slogan ‘continueremo a resistere’, abbiamo il diritto di resistere. E’ stata una campagna sul diritto di resistere – perché la gente si rendesse conto di avere questo diritto – e sul deterioramento della democrazia e la fascistizzazione di Israele. Però ci siamo rese conto che la gente aveva paura e che occorreva un messaggio di empowerment, di resistenza civile: qualsiasi legge fosse passata, noi avremmo continuato a resistere all’occupazione. La legge è passata, ma in forma più leggera; la nostra vittoria è stata la trasformazione dell’opinione pubblica. Prima della campagna, il boicottaggio era un argomento tabù. Ora il boicottaggio è percepito come una forma legittima di protesta – e un diritto fondamentale. Anche professori di diritto ed ex giudici si sono espressi contro la legge, e alcuni hanno fatto una dichiarazione per dire che se la legge fosse passata si sarebbero uniti al boicottaggio degli insediamenti.
Abbiamo diffuso il messaggio con video e cortometraggi, usando tutti i social network; via Face Book la nostra ambizione era di avere 1000 click su You Tube – ne abbiamo avuti 3000 nel primo giorno e ora sono 15.000, moltissimi per Israele. Il messaggio era potente, con attivisti maschi e femmine, tutte/i di sinistra, anche persone famose – ma, cosa più importante di tutte, abbiamo usato l’umorismo. Molti/e israeliani/e hanno timore della ‘sinistra’, perché, commenta Orly, gli/le ebrei/e si sentono vittime, sentono gli/le attivisti/e di sinistra come nemici, hanno paura che i/le palestinesi entrino in massa in Israele e invece, quando ridono, non possono avere paura.


2- Interviene Orly, commentando che di grande importanza è stato anche il “passaparola” via e-mail tra conoscenti, proprio perché il video era diverso dal solito; potete vederlo sul sito web della Coalition.
Le nostre vigil, in nero e in silenzio, di solito non sono attraenti per i mezzi di comunicazione. Inoltre per anni le reazioni dei passanti sono state negative e dopo l'attacco a Gaza anche aggressive; in particolare fa l‘esempio di Haifa, dove ci sono stati gesti aggressivi anche da autisti dei mezzi pubblici, cui però non è permesso di fare atti politici durante il lavoro, allora – dice – abbiamo filmato tutte queste reazioni e abbiamo messo video e foto sul web: la nostra visibilità è aumentata, e gli insulti diminuiti dopo che abbiamo consegnato le registrazioni anche alla polizia e abbiamo mandato il video alla compagnia dei trasporti.

Gli interventi di alcune donne presenti hanno sottolineato i seguenti punti:
Non tutte le persone usano o hanno accesso a internet; è importante sapere quali strumenti usare in ogni contesto per non escludere dall'informazione.
Importante anche la formazione, fatta prima di tutto a noi stesse, sull'uso di strumenti e mezzi alternativi; ma anche sul simbolico e sull'uso dei gesti: il corpo parla, così come possono parlare i muri, dice una donna dell'Honduras, che accenna ai graffiti con cui donne e uomini del Fronte popolare di resistenza hanno reagito al blocco dei media, costringendo giovani dell'oligarchia a ridipingere in continuazione le pareti che loro dipingono.
Le azioni fatte in luoghi affollati, come stazioni, discoteche, centri commerciali, hanno maggiore visibilità; vanno registrate e diffuse; a Cali, per esempio, hanno fatto una maratona di baci, dopo che in una discoteca due lesbiche sono state buttate fuori perché si baciavano.
Nel Cauca la Ruta Pacifica ha un riconoscimento che è il risultato del lavoro di collegamento con amiche/i alleate/i tra i giornalisti.
Anche se poche donne lo sanno, esiste un sito web internazionale delle DiN; ci sono anche liste email (in spagnolo, italiano, francese, inglese, olandese). Il sito web (www.womeninblack.org) è stato messo in funzione dopo l’ultimo incontro internazionale, con fondi provenienti dalle DiN di Belgio, Inghilterra e Olanda – ma i fondi finiranno entro la fine dell’anno. Come potremo finanziarlo in futuro? Del sito web e delle liste si è fatto carico finora un piccolo gruppo (in realtà 3 donne), alcune delle quali ora sono molto stanche. Dovrebbe esserci una rappresentante per la comunicazione di ogni paese? Come andare avanti?


Pratiche di trasformazione delle donne vittime di violenza sessuale o politica, di fronte alle azioni del governo Fujimori in Perù - Gladis Canales Martinez, Coordinatrice di CONAMUCAI (Coordinamento Nacional de Mujeres Afectadas por el Conflicto Armado Interno), Lima - Perù

Il 20 ottobre 1983 sono stata arrestata con l'accusa di essere una terrorista di Sendero Luminoso, ero sposata e avevo 2 bambine. Nel carcere del Callao, per una settimana, mi hanno denudata, bendata, con le mani legate e torturata. Mi volevano violentare, ho detto di essere malata ma lo hanno fatto lo stesso con vari strumenti. Se avessi confessato mi avrebbereo rilasciata e mandata in un altro paese.
Mi hanno portata in un carcere di massima sicurezza, il penale di Puno, in cui ero rinchiusa per 23 ore al giorno, ero coperta di funghi sulla pelle, non potevo leggere.... la polizia entrava il mattino presto per cercare documenti nella vagina. Vivevamo in condizioni subumane, cercavo solo di sopravvivere. Quando venivano a trovarmi i bambini non li potevo toccare, non potevamo avere contatti fisici, volevano che le famiglie ci dimenticassero. Avevamo sempre fame e solo dopo la visita delle famiglie che ci portavano del cibo, potevamo sfamarci.
Io ho resistito per raccontare al mondo quello che è successo a me e a tante persone innocenti. Molte donne si prostituivano per avere un po’ di libertà. Ci mettevano in fila per cinque, nude per una settimana, anziane e giovani e ci torturavano con una barra elettrica nella vagina.
Avrei dovuto rimanere in carcere per 20 anni ma sono stata indultata e sono uscita dopo otto anni, nel 2001. Essere indultata ha voluto dire non poter entrare in alcuni paesi come il Canada, perché considerata ancora terrorista.
La cosa più importante per me è stata recuperare la mia famiglia, le mie figlie, con un aiuto psicologico. Abbiamo, insieme ad altre donne, fondato una Casa di Accoglienza per aiutare le donne violate, gli orfani di desaparecidas, ex prigioniere per difendere i loro diritti. Abbiamo avanzato delle proposte di riparazione per le donne perché il Governo riconosca non solo chi ha subito ingiustamente il carcere per terrorismo, ma anche chi ha subito violenza (più di 1000 donne) da parte di agenti di Stato.
Noi dobbiamo lottare ogni giorno per la Giustizia. Ho deciso di venire qui a portare la mia testimonianza perché è necessario che le Donne in Nero contro la guerra ci siano anche in Perù .

Alla fine di questa emozionante e dura testimonianza di Gladis noi donne ci siamo alzate e ci siamo strette intorno a lei in un lungo, commovente abbraccio per testimoniare la nostra solidarietà e il nostro affetto.


Laboratorio di letteratura e poesia come azione di trasformazione delle donne di fronte ai conflitti armati - Lola Robles, Spagna

Lola Robles parla dei suoi laboratori di letteratura fantastica illustrando le fasi:
selezione dei testi, sempre scritti da donne o da uomini che analizzano come si costruisce il maschilismo;
lettura individuale a casa;
piccola presentazione dell’autrice/ore e/o del testo scelto;
commenti: le donne si esprimono in libertà perché nessuna deve imporre le proprie opinioni alle altre, essendo valide tutte le opinioni che si integrano fra loro.
Questi laboratori sono uno spazio di educazione femminista, pacifista, antimilitarista, contro il razzismo e l’omofobia attraverso la scelta dei testi. Difatti la letteratura fantastica, scritta nell’ultimo secolo da molte donne perché veniva considerata meno pericolosa, attraverso la finzione consente di parlare di un mondo senza guerra, senza violenza, di affrontare la comunicazione con il diverso, di conoscere la situazione delle donne nei vari paesi, di trasmettere i nostri pensieri e i nostri valori.
Lola indica poi i nomi di alcune autrici: Ursula K Le Guin, Angela Carter, Pilar Pedraza, Ana Maria Matute, Octavia Butler, Margaret Elphinstone, Angelica Gorodice, Gloria Fuertes.
Vengono lette alcune poesie di Gloria Fuertes, poetessa spagnola, nota per le sue opere rivolte ai bambini, ma il cui valore emerge sempre più; ella si è sempre espressa molto chiaramente contro la guerra.

Seguono vari interventi dai quali si desume la forza della poesia per denunciare e per plasmare il proprio dolore.


La tragedia degli scomparsi
Questo workshop non è riportato nel programma perché è stato aggiunto all’ultimo momento. Non ha un titolo esatto ma il tema riguarda la tragedia degli scomparsi.
Al workshop erano presenti soprattutto donne colombiane da ogni regione ed è stata una esperienza molto intensa in quanto sono state proposte molte testimonianze dirette (scomparse di figlie, figli, mariti, sorelle ecc.); poi è stato proiettato un video sui riti eseguiti nei pueblos per affrontare la scomparsa di un caro, e alla fine ci siamo unite in un abbraccio collettivo per unire le energie.

Il primo intervento ha fatto una veloce analisi della situazione:
La militarizzazione è un processo che controlla la vita civile e quotidiana delle persone e produce innumerevoli effetti sui cittadini.
Molti sono gli “Attori armati” che agiscono indisturbati in Colombia incidendo negativamente nella vita dei Colombiani. Attraverso il controllo del territorio, delle attività economiche (private e pubbliche), e interferendo nella cultura dei popoli, cambiano la vita e la cultura dei popoli. Anche la stampa è sottoposta al controllo, infatti con l’uso della propaganda si fanno passare azioni ignobili e criminali come “normali”.
Questi sono i metodi usati dagli “Attori Armati” per creare uno stato di paura e di incertezza nella popolazione, e quindi di ricattabilità e di facile sfruttamento:
violazione dei Diritti Umani dei bambini, delle donne, degli uomini giovani e vecchi,
abusi sessuali nei confronti dei bambini/e, delle donne giovani e meno giovani,
intimidazioni e aggressioni, contro chiunque esprima un minimo dissenso e contro la sua famiglia,
sparizioni,
morti fuori combattimento accade spesso che nei conflitti armati qualche civile sia coinvolto casualmente,
lavoro sotto pagato o addirittura licenziamenti.
L’indifferenza dello Stato favorisce questo stato di cose.
A Medellin nel 2011 sono scomparse 341 persone, a Cartagena spariscono 7 persone al giorno.
Le comunità invece si organizzano per affrontare queste situazioni.
Nel caso specifico delle sparizioni sono nati molti gruppi che nei “Pueblos” si incontrano e lottano per fare riconoscere lo “Stato di vittima” e che sia riconosciuta anche una forma di indennizzo ai familiari. Ogni volta che sparisce un componente della famiglia viene organizzato un rito per condividere il dolore ma soprattutto per riconoscere la responsabilità collettiva della violenza subita. Si riuniscono di sera attorno ad un fuoco e ogni componente legge una lettera di addio allo scomparso. Questa lettera viene accesa con il fuoco e buttata dentro una pentola vuota, una sorta di saluto collettivo per aiutare tutti a saper affrontare la quotidianità. Durante il rito sono usati molti simboli di fratellanza, (fiori, farfalle, nastri colorati) le persone si abbracciano e piangono insieme con le foto degli scomparsi, in questo modo si “proteggono” dal dolore e dalla violenza.
Le testimonianze sono state terribili, potete immaginare la difficoltà di raccontare che un giorno improvvisamente un appartenente alla famiglia non torna più e non saprete mai che fine ha fatto, anche se vi recate dalla Polizia e fate numerose ricerche non saprete mai la verità. Questo è un altro punto che le amiche Colombiane hanno affrontato, “la verità” è un valore immenso che non viene garantito. I gruppi chiedono “la verità” sui propri scomparsi.
Poi hanno presentato il lavoro che fa l’Associazione CONTRAVIA (ONG). I parenti dei “desaparecidos”producono delle bamboline che riproducono lo scomparso, e attraverso la ONG le vendono. In questo modo coinvolgono gli acquirenti nella tragedia ed estendono l’informazione creando un nuovo veicolo informativo per dare risonanza alle scomparse. Il progetto sta avendo molto successo. www.contravia.tv – face book.com/contravia.

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