Come donne in nero di Padova desideriamo condividere informazioni e riflessioni intorno alla guerra.

Crediamo che la guerra mostri oggi la sua totale crudeltà e inutilità.

21 settembre 2011

Dalla Colombia

Racconto del XV Encuentro in Bogotà
15-20 agosto 2011

[Questo racconto è stato costruito a partire dagli appunti e ricordi di Sue, WiB di Londra, e di Marianita, Giuliana, Odilla, Giannina, Manuela, Barberina, Mariangela, Anna, Elisabetta, che hanno partecipato all’Encuentro.]

Le partecipanti internazionali sono state accolte all’aeroporto, un’accoglienza incredibilmente calda che ha dato il tono dell’intero evento (e Shima e Erica – le meravigliose organizzatrici della Ruta Pacifica – hanno passato tre giorni all’aeroporto per dare il benvenuto a donne da 15 paesi).

Sono venute circa 300 donne, 200 da 9 regioni della Colombia e circa 100 da: Belgio, Bosnia Erzegovina, Repubblica Popolare del Congo, Ecuador, Honduras, India, Israele, Italia, Palestina, Perù, Serbia, Spagna, UK, Uruguay e USA. Il contingente più grande è arrivato da Italia e Spagna.

Lunedì 15 agosto


Il benvenuto ufficiale per le donne internazionali si è svolto presso l’hotel Augusta, dove siamo alloggiate, lunedì 15, con 4 artiste mime-fate (Las Mima-Hadas) che hanno offerto fiori a ogni donna, ci hanno legato braccialetti neri al polso (eravamo invitate a esprimere un desiderio che si sarebbe avverato alla rottura del braccialetto); all’atto della registrazione ci è stata consegnata una borsa piena di regali (saponette, mappa di Bogotà, il programma, il badge, ecc. – tutto con il bel logo dell’ Encuentro). Così l’accoglienza è stata meravigliosamente calda, e ha superato le barriere linguistiche.

Martedì 16 agosto


Il martedì è iniziato con il benvenuto in tarda mattinata per le donne colombiane presso il loro albergo, l’Hotel Dan; a ciascuna è stato dato un rametto di olivo e regali, una donna per ciascuno dei 9 distretti ha portato un simbolo della propria regione (Bogotà, Bolivar, Antioquia, Santander, Risaralda, Chocò, Cauca, Valle del Cauca, Putumayo).
Pranzo, come anche nei giorni successivi, tutte insieme all’Hotel Dan.
Poi c’è stato l’atto inaugurale nella sede del convegno, il Centro culturale Gabriel Garcia Marquez, con il rituale di benvenuto da parte delle donne colombiane alle Donne in Nero del mondo: sulla pedana del palco ci sono fasci di rose e una rete con origami di fiori e farfalle; una donna per ognuno dei 15 paesi rappresentati ha formato un circolo e ha spento una candela mentre Clara (di Medellin) suonava le campanelle della pace.
Abbiamo assistito alla proiezione del bel video di Sofia Segura di Siviglia sui convegni passati delle DiN, abbiamo ascoltato un “canto di amicizia” e la lettura di un poema di denuncia del militarismo, entrambi della Colombia, donne colombiane hanno dato una rosa gialla a ciascuna delle internazionali: il giallo è il colore della verità – è stato detto – e per le colombiane è importante che si faccia verità sul conflitto armato.

Alla fine Marina Gallego, Coordinatrice Nazionale della Ruta Pacifica in Colombia, ha aperto l’Encuentro con un’introduzione che a nome della Ruta e delle DiN colombiane esprimeva la gioia di vedere presenti – in un paese in cui è in corso un conflitto armato e dopo tanti anni di impegno faticoso per organizzare il convegno – donne da tutto il mondo che si oppongono ai militarismi. Sottolineava poi che il patriarcato, cui il femminismo si oppone, è cultura militarista, logica amico-nemico, autoritarismo, controllo verticale della società; in Colombia il conflitto armato prosegue da circa 50 anni, associato a militarismo e delazione. Vogliamo ribellarci reagendo in modo creativo, con l’empatia, la solidarietà, il femminismo. Il militarismo aumenta il rischio per le donne: le donne quindi devono essere unite per negoziare la fine delle cause strutturali della guerra. Qui esprimeremo le nostre denunce, gli effetti sulla vita, sulla società e specialmente sulle donne. Qui rafforzeremo la resistenza contro le guerre. Rifacendosi all’esperienza non solo delle donne colombiane, ma in generale dell’America Latina, accennava ai temi chiave:
- Ribellione: capacità di reagire anziché disperarsi
- Empatia e solidarietà
- Capacità di agire unite rispetto alle cause strutturali della guerra: discriminazioni, razzismo, xenofobia, capitalismo, patriarcato
- Rafforzamento delle DiN a livello locale, nazionale e internazionale
- Ricerca di soluzioni negoziate al conflitto armato in Colombia col sostegno delle DiN.


Prima di iniziare con le relazioni, Shima Pardo, responsabile degli aspetti organizzativi, dà informazioni e consigli per i prossimi giorni; quindi Clara Inés Mazo, che insieme a Silvia Luna curerà la regia di tutto l’Encuentro, spiega il ruolo delle “Mima-Hadas” (o mimadas) che animeranno tutte le plenarie: “Mimas” perché tutte noi Donne in Nero abbiamo scelto il nero e silenzio perché i nostri corpi e i nostri gesti parlino; “Hadas”, cioè Fate, perché sono donne fantastiche che ci accompagnano nei nostri sogni, che ci proteggono; in Colombia la parola “mima-hada” indica una donna a cui piace molto l’affettuosità, l’amore, essere toccata e coccolata e a noi questo piace molto.

La prima relazione è stata quella di Dareen Khattab, palestinese, su “La situazione dei conflitti armati nel mondo e le alternative globali delle Donne in Nero rispetto ad essi”.
Dareen, a nome delle donne palestinesi e ringraziando per la fiducia che è stata riposta in lei, ha parlato dell’intersezionalità come strumento per favorire l’analisi delle complesse e differenti esperienze delle donne. Il concetto, usato inizialmente negli USA nel 1989 per descrivere le molteplici cause dell’oppressione femminile, aiuta a capire ciò che le donne sperimentano in Palestina in questo momento in cui anche le femministe sono impegnate nella lotta per il riconoscimento all’Onu e a capire come 60 anni di occupazione abbiano frammentato le esperienze delle donne, con pesanti implicazioni per l’identità. Per esempio, ci sono differenze nelle situazioni di oppressione sperimentate da:
- una donna palestinese che vive in un campo di rifugiati libanese, senza diritti, con poche risorse e un’educazione limitata e sogna di ritornare in Palestina
- una donna palestinese che vive in un campo profughi in Giordania, ha certi diritti civili e sogna di ritornare
- una donna che vive a Gaza, oppressa dal governo di Hamas e da Israele
- sua sorella che vive in Cisgiordania
- lei, Dareen, una palestinese che vive a Gerusalemme e ha la cittadinanza israeliana e che ha preso coscienza presto, abitando in un luogo che nel ’48 è stato diviso tra Israele e il governo giordano e in cui il cortile di fronte al suo era il cortile posteriore di un vicino israeliano e non le era permesso giocare fuori
- una donna di Hebron, senza acqua e con familiari in carcere o uccisi, con le strade rotte e con attorno cerchi di separazione.
Tutte hanno realtà totalmente diverse, eppure tutte vivono in una società patriarcale e militarizzata e in cui ogni donna può anche essere vittima di violenza domestica (violenza contro le donne). Se le persone vivono da parti opposte dei checkpoint, non hanno modo di vedersi; l’occupazione ha prodotto una scarsa comunicazione.
Tutto però si unisce nella sfida delle femministe palestinesi: l’Autorità palestinese rivolge pochissima attenzione alle questioni che riguardano le donne, ritiene che le priorità siano altre. Le femministe palestinesi [ong di donne] hanno dovuto adattarsi alle esigenze politiche costruite dagli uomini e non sono ong che proteggano le donne.
L’occupazione ha reso difficili le visioni delle donne sulle prospettive; di recente lei ha partecipato a un incontro in cui c’erano leaders politiche e non donne di aree rurali; la stessa Unione generale delle donne palestinesi si muove sotto l’ombrello di un’agenda politica limitata alla rivendicazione dei due stati. Nell’Olp è carente il riconoscimento del diritto dei rifugiati di tornare nelle loro case, ma soprattutto la politica non può dare risposta alle necessità delle donne palestinesi. Ci sono donne che pensano che siamo libere, che non occorrono idee di uguaglianza; si può accettare o no il concetto di intersezionalità, ma occorre saper gestire le differenze ed essere unite su certi punti.

Piedad Cordoba [avvocata, fino a poco fa senatrice nel Congresso di Colombia]
Ringrazia la Ruta Pacifica per averla invitata, per il suo operato e per aver organizzato questo incontro a Bogotà, ringrazia tutte le partecipanti all’incontro.
“Anche nei tempi più bui abbiamo il diritto di aspettare la luce” (Hannah Arendt).
Il conflitto armato degli ultimi 50 anni si degrada sempre più per l’incapacità di trovare una soluzione negoziata, di porre la politica a servizio della pace; questo conflitto ha costi umani altissimi e molte persone, a causa di esso, si trovano in condizioni di vita indegne.
Il conflitto armato colombiano si basa su profonde ingiustizie e disuguaglianze nella lotta per il controllo del territorio. Ai soggetti armati iniziali (esercito e guerriglia) si sono aggiunti i paramilitari e i narco trafficanti; inoltre la politica antiterrorista sviluppatasi dopo l’11 settembre 2001 ha aumentato la militarizzazione della società e inasprito il conflitto armato con conseguenze sempre peggiori per la popolazione e per le donne colombiane. In questo contesto di guerra si viola il diritto internazionale, si producono sempre più desplazamientos e sempre più si usa la violenza sessuale in varie forme contro le donne.
Che alternative abbiamo noi donne per fermare la guerra?
Oggi ci sono più donne nell’esercito e più che mai le donne sono colpite dalle guerre. Partecipano alle azioni armate o sono desplazadas, rifugiate. Il patriarcato oggi utilizza nuove pratiche per piegare le donne ai suoi fini: le torture del carcere di Abu Ghraib testimoniano di questo nuovo ruolo imposto alle donne dalla guerra, di come la guerra le corrompe.
“Noi donne abbiamo permesso le guerre perché dovevamo vivere con i nostri padri, mariti e fratelli. Ma le donne sono sempre state il bottino di guerra” (Virginia Woolf, Le tre ghinee). C’è però anche l’altra faccia della moneta: la forza delle donne per fare la pace, come donne ne siamo capaci perché conosciamo l’oppressione.
Noi donne dobbiamo fare la pace: nella storia abbiamo anche avuto un ruolo importante nella risoluzione dei conflitti; nel 1914, donne di 14 paesi hanno scritto una dichiarazione per la pace e la prima Conferenza della Women’s International League for Peace and Freedom (Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà, WILPF) si è tenuta nel 1915, esprimendo la protesta contro la pazzia della guerra, l’urgenza di un massaggio di neutralità e di risoluzione pacifica dei conflitti. Questa cultura ha influenzato la costituzione della Lega delle Nazioni e in epoca più recente quella delle Nazioni Unite fino all’esperienza della conferenza ONU di Pechino nel 1995 e all’azione delle Donne in nero contro la guerra in Kossovo: così si è messa in luce la capacità delle donne di sviluppare una cultura di pace.
La presenza delle donne nei governi è scarsa e perciò vi è poco peso per altri modi di fare la pace.
La politica femminista, però, non solo lotta per sradicare l’ingiustizia e l’esclusione, ma per costruire alleanze; per non essere oggetti, ma soggetti di pace, interlocutrici dialoganti con voce propria e perché a questa voce si dia valore; per vivere da un punto di vista femminista, disobbedendo ai mandati patriarcali: liberarsi è un dovere etico. Decostruire le politiche patriarcali della guerra ci obbliga ad essere obiettrici di coscienza. Come femministe dobbiamo lottare contro ogni tipo di oppressione patriarcale, in forma pubblica e privata: con le parole, le azioni, il simbolico stiamo contribuendo a sradicare il sessismo e la violenza e ad aprire il dialogo. Dobbiamo scendere in strada, affrontare il terrore, perché vogliamo un futuro senza violenza. La guerra è immorale, occorre costringere ai negoziati, meritiamo una vita diversa, vi è un sacro diritto alla ribellione.
Dobbiamo propugnare la solidarietà tra donne, superando le barriere etniche. Riconfermiamo il nostro impegno per la pace. Non prenderemo parte al militarismo. Lavoreremo verso soluzioni negoziate per garantire la vita, la giustizia sociale, l’eguaglianza e il rispetto e la protezione delle diversità culturali e dei soggetti finora emarginati, nel pieno rispetto del diritto umanitario.
La guerra assorbe le risorse che dovrebbero essere destinate all’istruzione. C’è molto lavoro da fare, questo è il motivo per cui siamo qui oggi. Di fronte a più di 50.000 sparizioni forzate negli ultimi 10 anni in Colombia, a milioni di desplazadas/os, dobbiamo denunciare coloro che difendono lo status quo. Questa guerra eterna distrugge la vita, l’integrità personale e collettiva, la libertà.
Colombiane e Colombiani per la Pace hanno scritto una lettera alle FARC e all’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) e al Presidente della Repubblica chiedendo una soluzione negoziata al conflitto armato e giustizia sociale con la partecipazione delle donne alla società civile; alle FARC e all’ELN hanno chiesto anche la liberazione dei soldati e dei poliziotti che tengono prigionieri da 13 anni, al Presidente della Repubblica la liberazione dei prigionieri e delle prigioniere politiche e di coscienza. (Piedad legge la lettera alle FARC e all’ELN)

Dal dibattito che è seguito, con le mimadas che portavano il microfono nella sala, mimando varie scene e un balletto:
Domanda a Dareen di Maria Cristina Quinta : Lei è palestinese ma cittadina israeliana: come vive questa situazione in cui lo stato di Israele vuole fare sparire tutto ciò che è palestinese?
Altra domanda: come diamo sostegno alle donne palestinesi che non possono neppure andare alle riunioni? In Colombia le donne sono minacciate; se le accompagniamo a fare una denuncia, dopo debbono tornare a casa, al conflitto armato; è un problema molto delicato e come movimento sociale sente che non siamo preparate.
Una donna in nero di Madrid: è vicina con il cuore alle donne colombiane e fa i suoi auguri per l’iniziativa di aprire una corrispondenza con gli attori armati; il dialogo è importante, ma come ci si può riuscire in questa società?
Una donna dagli Stati Uniti: negli Stati Uniti oggi ci sono donne che non votano, che non sanno che c’è stata chi è morta per ottenere il diritto di voto e non si preoccupano per ciò che succede nel paese; come facciamo a farle sentire partecipi?
Altra domanda, in spagnolo a Piedad, come ci possono aiutare le donne straniere a fare pace in Colombia? Un commento a Dareen: l’intersezionalità è importante per le donne palestinesi che vivono realtà tanto diverse.
Dareen: Circa la prima domanda, per tutta la sua vita ha cercato di reagire al dualismo in cui vive; lei è palestinese per la storia della sua famiglia, ha capito di essere diversa e questo le ha dato la forza di capire cos’è. Non può identificarsi con Israele perché Israele è uno stato ebraico che non riconosce i suoi diritti. Molti palestinesi d’Israele cercano di integrarsi nello stato, ma per lei questo è inconcepibile.
Ha viaggiato, è stata a Tel Aviv, ha tentato di essere una persona non identificabile per il suo passato, cosa facile per il suo aspetto fisico e anche perché parla ebraico, ma quando gli israeliani la identificano come palestinese, fanno un passo indietro, hanno paura. Aveva un’amica israeliana, ma ha rotto con lei quando questa ha approvato la guerra contro Gaza. Ha scelto di escludersi dal gruppo israeliano: forse in futuro riuscirà a superare queste barriere, ma ora è così.
Circa le femministe palestinesi e avere la partecipazione di altre donne, non si può entrare a Gaza perché Israele lo proibisce, bisogna fare videoconferenze quando si è a un’ora e mezzo di strada; tra Fatah e Hamas ci sono realtà politiche diverse, ogni giorno ci sono diverse sfide, a Gaza non è possibile manifestare, ci sono riunioni dissimulate perché ci sono gruppi che non vogliono incontri tra le palestinesi. Le differenze si vedono: se sei associata ad Hamas credi in strumenti diversi che se sei vicina ad un partito pacifista di sinistra, è una frammentazione che genera grandi sfide.
Circa l’agenda unificata, occorre molto dialogo, sapere dove è la frontiera, se si vuole uno stato o due o uno stato binazionale, sono alternative diverse.

Piedad: Proteggere le donne è innanzitutto un dovere dello stato che deve rispettare il diritto internazionale e i diritti umani e applicare le leggi che sono state approvate dal Congresso su quei diritti delle donne. Si fa presto ad approvare le leggi – meno per le donne – ma il cambiamento culturale è molto lento. Quando si discusse la legge sulla violenza contro le donne, presentata su iniziativa della Casa delle donne nel 1994, fu necessario mascherarla: il Congresso non volle parlare di violenza contro le donne, ma di violenza contro la famiglia; molti e purtroppo molte non erano d’accordo a separare l’aggressore dalla vittima; molti congressisti dicevano che picchiare la moglie è normale e altre volgarità. Ancora di recente sono accaduti fatti per cui si vede che la gente non conosce i diritti, le donne non sono riconosciute come esseri umani. Una volta approvata la legge, le donne chiesero rifugi per le donne maltrattate e l’impegno del ministero dell’istruzione a fare campagne educative, perché le donne sono viste come cittadine di seconda categoria. Si chiese anche ai media di cambiare il linguaggio guerresco che usano e l’approccio a questi temi: il solo fatto che siamo contro la guerra ci pone nella categoria dei terroristi. Nulla è cambiato. Le leggi non sono applicate. Hanno fatto corsi con gli operatori, la polizia, i giudici: dicevano che i tribunali erano troppo pieni di denunce.
Sono più numerosi i casi di violenza domestica di quelli prodotti dalla guerra.
Prevale il concetto neoliberale per cui non è importante l’essere umano, la donna, ma il debito. Altra forma di violenza è la femminilizzazione della povertà.
Con l’appoggio della Casa delle donne hanno presentato un progetto di legge per riconoscere il crimine di femminicidio. E’ stata una discussione dura, ma sono riuscite a farlo passare alla Camera e al Senato, è stato importante.
Aumenta la violenza contro le donne come bottino di guerra; una dirigente popolare è stata assassinata a Medellin dalla polizia e ci sono anche altri casi, una bambina di tre mesi stuprata a Tamaco, bambine di dodici anni che hanno subito l’impalamento nella vagina, con i medici o gli infermieri dell’ospedale di Tamaco che non possono fare denuncia, vengono minacciati o uccisi. Sono fatti impressionanti, ma il femminicidio non è soltanto legato alle situazioni di conflitto, è una cultura per cui le donne sono oggetto. Le donne sono stuprate e assassinate se offendono il marito o l’amante. La prostituzione infantile è cresciuta rapidamente, come nei porti di Cartagena o di Buenaventura o con l’offerta di “vagine vergini” in vendita agli stranieri attraverso reti che operano attraverso internet.
Con l’appoggio della Casa delle donne e della Ruta Pacifica abbiamo fatto un incontro a Medellin con i capi della polizia e ora intendiamo andare nelle varie regioni e parlare con i poliziotti. Infatti ora succede che le donne siano stuprate nelle stazioni di polizia quando vanno a denunciare un attacco, o che venga loro detto “questo non è un nostro problema, non ci riguarda, è un fatto privato”. Invece la violenza riguarda il diritto penale.
Piedad accenna poi al caso recentissimo dell­’allenatore della nazionale di calcio che 15 giorni fa ha colpito al volto una donna; se ne sta parlando molto, ci sono iniziative di gruppi di donne, ci si aspetta una risposta anche da parte del Presidente, perché proteggere dalla violenza è un obbligo dello stato.
Continueranno i loro sforzi per porre termine alla guerra e lavoreranno per la pace, anche se essere contro la guerra le fa trattare da terroriste, ma è una classificazione dettata da interessi e non c’è legge che possa fare accettare la guerra. Le Donne in nero partecipanti a questo incontro internazionale, venendo qui, stanno già facendo molto, è importante ascoltare, capire, ma anche aiutare a capire cosa succede nel resto del mondo; sanno che non sono un caso unico, sanno che cosa succede in Pakistan, Libia, Palestina, Somalia. E’ importante l’unità tra chi vive le varie situazioni; fa sentire che la pace è sempre più possibile ogni giorno.

Liliana Salamanca (Risaralda): a Dareen, qual è il tipo di violenza più marcata contro le donne e quali le strategie di resistenza?
Shima (di un piccolo gruppo rurale): fa una domanda a Dareen sulle donne contadine, la sovranità alimentare, la spoliazione dai diritti sulle terre; in Colombia ci sono più di 5 milioni di sfollati che non sono in condizione di vivere. Il nemico ha chiaro come usare il genere e il corpo delle donne, contro il senso del sacro della vita e delle madri; i paramilitari rompono le comunità e le famiglie facendo innamorare di sé le giovani, tolgono il pane di bocca alle donne per distruggere l’organizzazione sociale; sono stati privati dei territori, non hanno modo di produrre in proprio, prevale il modello capitalistico del biocombustibile che riduce la madre-terra a merce. Qual è il modello alternativo? Invita a difendere la nazione come donne.
Una donna che interviene in inglese: chiede a Dareen quali siano per lei i temi più importanti per le donne. Nelle lotte di liberazione spesso si dice che dopo verranno i diritti per le donne; come è possibile invece integrarli nel programma di liberazione?
Corinne Kumar (India): Grazie! “Fate attenzione alla leggerezza della luce, perché la luce è la farfalla nel tunnel” (Mahmoud Darwish). Piedad ci offre un altro modo di fare politica, la lettera che ha letto ci porta fuori dell’immaginario corrente, ci porta in un altro territorio Non solo i nostri corpi ma anche le nostre menti sono state militarizzate, scrivere una lettera è un meraviglioso inizio. A Dareen: che cosa ha portato la primavera araba, dall’Indonesia al Mediterraneo? Che cosa ha significato per la Palestina?
Dareen: Circa la prima domanda sul conflitto palestinese, loro hanno la fortuna di non subire violenza di genere dai militari israeliani, ci sono pochi casi; la violenza è piuttosto verbale oppure procedure umilianti nei centri di identificazione; aumenta il tasso di violenza dai mariti, oppressi come nazione e le donne sono doppiamente oppresse. Non c’è lavoro e aumentano i casi di omicidi o violenze in famiglia; le organizzazioni di donne cercano di intervenire, ma non possono parlare del legame con l’occupazione. Quest’ultima dà molto benefici a Israele, molto denaro, un industria militare enorme, risorse d’acqua in Cisgiordania, la terra più fertile, dove ai palestinesi sono proibiti i pozzi, è proibito raccogliere l’acqua piovana, perché Israele vuole il controllo totale.
Circa la costruzione dello stato in Cisgiordania, al tempo di Arafat erano state costruite infrastrutture ma ora è stato tutto distrutto, ogni nuovo presidente palestinese ricomincia daccapo, come non fosse stato fatto niente, mentre le ong hanno tentato di integrare il sistema della costituzione, tante energie sono state messe in questi progetti.
Quanto alla primavera araba, noi l’abbiamo iniziata! “La primavera araba è nata dall’inverno palestinese”, abbiamo insegnato noi al mondo arabo che cosa significa lottare. Il tema palestinese è fondamentale nell’avere causato quelle rivoluzioni. In Palestina però è impossibile manifestare nelle strade, i risultati di Oslo lo impediscono, c’è accordo tra le autorità palestinesi e israeliane, come si è visto quando i palestinesi hanno cercato di attraversare il confine dalla Siria e glielo hanno impedito.
Sulle strategie: ci sono molte organizzazioni di palestinesi e israeliane/i, come Combattenti per la pace, Alleanza per la pace; si lavora sulla questione del muro, ma partecipano in pochi, ci sono pratiche discriminatorie contro gli attivisti israeliani; vorrebbe ne parlassero le colleghe israeliane; per lei Israele è uno stato fascista, di destra estremista.

Piedad: risponde sull’esperienza dei diritti di cittadinanza delle minoranze, in molte sono afrodiscendenti, oppure ci sono i diritti di uguaglianza degli omosessuali o i diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Cerchiamo di arrivare ad un’agenda femminista di inclusione, di uguaglianza, ma non siamo molto capaci di essere attori politici, è più facile dare un bacio o un abbraccio. Potrebbe fare molti esempi sul ruolo dei mass media, come quando ha lavorato sulle coppie omosessuali e hanno detto che era lesbica oppure nelle chiese è stata trattata come un demonio. Non sa se è per il fatto di essere donna che ha la capacità di non pentirsi mai di quello che ha fatto, come avere incontrato capi militari.

Marina Gallego: ringrazia Dareen per averci illustrato la situazione palestinese e invita per domani alle 7.30 ad una colazione di lavoro all’Hotel Augusta con Piedad; è una donna molto minacciata e come Ruta Pacifica credono necessario darle protezione; vogliono sentire noi e chiedono il nostro appoggio.
Il pomeriggio si conclude con i canti di una donna, che viene presentata come molto vicina alle Donne in nero e capace di coinvolgere; è accompagnata con vari strumenti da due uomini.



Mercoledì 17 agosto

Colazione di lavoro con Piedad Cordoba
Si svolge nell’albergo, alle 7.30, la colazione con Piedad, che è stata illegalmente espulsa dal Congresso per la sua posizione sulla pace.
Piedad: Il conflitto armato in Colombia dura da circa 50 anni. Qualche cifra: 20 milioni di persone vivono in povertà, 7-8 milioni sono indigenti; i rifugiati interni sono 5 milioni, 60.000 le persone scomparse. Le spese per la guerra sono molto più alte di quelle per l'istruzione.
I paramilitari sono forze armate non statali; sono considerati quasi “normali”, ma hanno causato gravi danni, non solo fisici. A causa loro hanno sofferto di più gli “afrodescendientes” (così vengono definiti in Colombia gli abitanti di origine africana) e indigeni, e i contadini, cui hanno sottratto 5 milioni di ettari di terra.
Il processo di militarizzazione della società colombiana e l'avanzamento del sistema neoliberista hanno reso la Colombia un paese di affari. Gli otto anni del governo Uribe sono stati disastrosi, sarà difficile ricuperare un modello di sviluppo sostenibile. In questi anni la persecuzione ha colpito le donne, le persone che difendono i diritti umani, gli studenti. L'economia estrattiva ha creato problemi, generato corruzione e scandali per cui sono inquisite centinaia di persone; la politica tende a centralizzare potere e risorse.
Con Olga Amparo della Casa de la Mujer ho visitato e intervistato leader paramilitari nelle carceri USA dove sono detenuti. Questi paramilitari hanno raccontato fatti orribili: nella regione di Macarena si sono verificati stupri, gravidanze forzate, 2000 morti in fosse comuni. Anche qui le donne sono quelle che hanno sofferto di più. Queste notizie non circolano, forse Amparo ed io siamo le sole, con poche altre persone,a sapere a fondo quello che è successo.
I responsabili di questa situazione sono il Presidente, il governo, la polizia, i militari: ma ancora di più i padroni (l'élite degli affari). Il problema in questo paese è la corruzione, l'arricchimento facile. La guerra è un grosso affare, contribuisce a mantenere il modello e a concentrare il potere della “cupola”. Questa guerra deve finire, per questo ho iniziato il dialogo epistolare con la guerriglia; nelle lettere, inviate in agosto a FARC, ELN e governo, sostengo il bisogno di intavolare negoziati per trovare una via di uscita dal conflitto, e chiedo la liberazione unilaterale dei sequestrati.
La presenza delle Donne in Nero internazionali è importante, come è importante il vostro sostegno per far pressione per una soluzione negoziata del conflitto armato e per far cessare le persecuzioni. Il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è fondamentale per il sistema, non a caso c'è stata poca copertura per l'Encuentro; spesso la voce delle donne è tacitata. Le donne colombiane non ne possono più di questa situazione, non si può accettare un tale livello di dolore. Il loro/nostro ruolo nella lotta è importante ma pericoloso; abbiamo diritto a vivere qui, in Colombia, in pace, con giustizia, dignità, lavoro – e abbiamo bisogno del vostro sostegno, di cui vi ringraziamo.

Marina Gallego e altre:
Si propone di firmare un testo di appoggio al lavoro di Piedad al termine dell'Encuentro, testo da far circolare anche in altri paesi. Ci sono già lettere di sostegno, firmate da nomi importanti, come Rigoberta Menchu, Isabel Allende, le Madres de Plaza de Majo.

[Nei giorni seguenti, a seguito del precipitare della situazione di Piedad, costretta a lasciare il paese in seguito ad accuse e minacce sempre più pesanti, si decide di non prendere subito posizione come internazionali, aspettando dalle donne colombiane, che seguono da vicino gli eventi, suggerimenti sui tempi e modi per farlo.]

Riprendiamo nella sede del Centro Culturale dove si svolge l’Encuentro; all’inizio dei lavori abbiamo visto il film delle WiB di Londra e quello delle Madri del Parco Laaleh a Teheran.

Mariangela Santini ha presentato il suo intervento sulla lotta delle donne italiane contro la base USA a Vicenza (che ha ritardato la costruzione per un anno).

Testimonianze internazionali su situazioni di guerra e post guerra
In apertura appaiono le mima-hadas, che si muovono nella sala suonando vari strumenti. Introducendo le relatrici, Clara precisa che il primo intervento sarà fatto a nome anche delle Donne in nero del Nepal, che non sono potute venire perché avrebbero dovuto essere accompagnate dai mariti.

Celine Sugna, India
Grazie alle Women in Black di Londra che hanno loro permesso di essere qui.
Oltre che in Nepal, ci sono DiN anche nelle Filippine. Le Donne in nero a Bangalore hanno incominciato nel marzo del1993; i partiti di destra avevano fomentato l’odio verso i musulmani, provocando morti e feriti. La rete delle donne ha protestato tenendo vigils ogni giovedì contro la violenza comune, le dispute per l’acqua, per la terra, la brutalità della polizia, le morti per la dote.
La violenza domestica sta aumentando, collegata alla iper-mascolinizzazione della società: stupri, molestie sessuali, infanticidio e feticidio femminile, povertà, Dalit, nucleare. Malgrado le leggi contro la dote, la pratica è stata ripresa e le morti non naturali nel matrimonio continuano ad aumentare (5 alla settimana solo a Bangalore, uccise o portate al suicidio). Accenna poi al Tribunale delle Donne costituito dall’Asian Women’s Human Rights Council e passa la parola a Corinne Kumar, che presenta un video, in cui compaiono due testimoni del Tribunale delle Donne:
- Comfort woman delle FIlippine, catturata dall’esercito giapponese a 14 anni nel 1941, stuprata per giorni e giorni; soltanto da poco queste donne hanno trovato il coraggio di parlare, con il sostegno del Congresso delle donne dell’Asia
- Donna sopravvissuta alla bomba atomica sganciata sulle Isole Marshall nel 1951; la testimonianza è preceduta da uno spezzone militare sul lancio della prima bomba H su Bikini nel 1953. La donna parla del cielo oscurato, della polvere che è ricaduta, della pelle trafitta come da aghi: si è ammalata alla tiroide e ha dato vita a una cosa indescrivibile; molti i casi di aborto e di nascite deformi. Ha dovuto lasciare la sua isola e ora vive alle Haway.

Beatrice, Repubblica Democratica del Congo
[Mentre parla, scorre un video]. Possiamo considerare la Colombia e la Repubblica Democratica del Congo come paesi gemelli. Entrambi soffrono per via della loro collocazione strategica, entrambi hanno una ricca diversità, un grande popolo, molte risorse naturali: entrambi hanno oro, rame e petrolio, sfruttati dalle multinazionali. Tutto ciò che ci ha dato la natura ora appartiene ai grandi poteri, perciò noi viviamo in condizioni di quasi schiavismo. Spero che questo vi aiuti a capire la vita che conducono le donne in Congo – molto lontane da qui, ma vicine per esperienza.
Lo stupro in Congo è un’arma di guerra. Fa parte di una sistematica violazione dei diritti umani. Tutto è cominciato con la cacciata forzata, di massa, di ruandesi nel 1994 e nel 1996 c’è stata la “guerra di liberazione” (il Congo confina con Rwanda, Tanzania, Sudan, Uganda ecc., per lo più paesi molto poveri che vorrebbero avere quello che ha il Congo). La comunità internazionale ha aperto un ‘corridoio umanitario’ (operazione Turchese), i Tutsi (il 20% della popolazione) hanno vinto, e molti Hutu (l’80%) sono venuti in Congo (armati e militarizzati). Questo ha condotto a genocidio, tortura e stupro come armi di guerra.
Perché? Perché le donne si erano organizzate contro le incursioni; le donne furono stuprate di fronte ai propri mariti e figli, i padri furono obbligati a violentare figli e figlie. Usarono bastoni, armi e fuoco nelle vagine delle donne. Le donne che resistevano furono stuprate – 50 alla volta – notte e giorno, nella piazza pubblica, ferite e esibite come trofei, poi uccise e buttate nelle fosse. Tutto questo per traumatizzare e terrorizzare la popolazione.
Ma le donne congolesi hanno resistito, non si sono inginocchiate: “Ci siamo alzate a denunciare e continuiamo a farlo”. Il processo di pace è iniziato nel 2001, all’interno del Congo e con le fazioni armate dei paesi vicini. Tutte le soluzioni imposte dalla comunità internazionale sono fallite. Voi siete fortunate ad avere qui le DiN, in Congo hanno avuto la fortuna di avere lo scorso anno la Marcia mondiale delle donne. La pace sarà costruita dai/dalle colombiani/e, e solo i/le colombiani/e la troveranno.
Da oggi in poi, avete delle sorelle nella Repubblica Democratica del Congo.

Marija Perkovic, Serbia
Ringrazia le DiN colombiane, la Ruta pacifica, le DiN di Spagna, Italia, Svizzera che l’hanno appoggiata.
E’ stata molto contenta di venire qui, l’America Latina ha una grande storia, una grande cultura, grandi donne, le Madres de Plaza de Majo, la Ruta… Vediamo quanto è bella la Colombia, ma all’arrivo ha visto anche quante persone mendicano per la strada, e questo ci fa pensare a casa nostra: ha visto la faccia della sua gente, il volto di tutti i poveri del mondo, il volto del capitalismo, della miseria e allora è diventata triste. Gli esseri umani, quando sono poveri, debbono lottare per il diritto di essere umani. Il secondo giorno, però, ha visto qui donne forti, che lottano per il cambiamento e questo le ha ridato speranza.
Le situazioni qui e nei Balcani sono simili. Con la guerra della ex-Jugoslavia c’è stata una grande povertà, una crisi che ha aumentato le difficoltà delle donne; hanno perso l’accesso all’industria alimentare, lavorano in settori a basso salario o nel mercato nero, senza protezione; la privatizzazione ha completamente distrutto l’industria tessile a partire dagli anni ‘90.
Le DiN partecipano ai memoriali, TPI, (Tribunale Penale Internazionale), seguono I processi ai criminali di guerra, scrivono relazioni ed esprimono solidarietà con le vittime, visitando i luoghi dei crimini commessi in nostro nome. Gruppo di storia alternativa: vedere, conoscere, cambiare.
Vuole mostrare con un video come sono organizzate le DiN in Serbia; è un video sulla giustizia transizionale secondo il loro approccio femminista (Jadranka Milicevic aggiunge che hanno curato un libro con 120 testimonianze di donne dei Balcani). E’ stato fatto un film con la testimonianza di Mejra Davidovic, un’attivista forte e dedita, che ha avuto il figlio e la figlia uccisi in un campo di concentramento serbo-bosniaco; il suo spirito ci darà sostegno nel nostro lavoro.

Clara commenta che è stato un tempo di ascolto duro, che fa male al cuore.

Seguono Cibo per il Pensiero – Provocazione e workshops


Giovedì 18 agosto

Inizia con il video Zombies, del gruppo Granberries, UK, poi il grande video Mujeres de Negro (Colombia); canti e parole; riprese dalle vigils di Medellin, ogni ultimo martedì del mese, con molte manifestazioni su tematiche diverse: protezione dalla violenza, aborto, diritti di bambine e bambini, giovani donne… ; poi scene da Yolombò, piccolo paese nel nord dell’Antioquia e dall’Università di Antioquia, perché sia un luogo di libero pensiero e non un fortino di guerra. Dalla sala si levano canti e slogans, molti di quelli ascoltati nel video.
Clara e Patricia Tough annunciano che Jenny Escobar Iglesias oggi pomeriggio sarà nominata Donna dell’anno dell’Uruguay, come donna in nero e la ringraziano perché ha scelto di essere qui anziché andare a ricevere il premio.
Jenny: ringrazia, da cuore a cuore, le DiN spagnole che le hanno insegnato cammino di pace e le israeliane che sono state le prime. Rende omaggio alle colombiane, che rischiano la vita.
Molte la abbracciano, poi c’è un atto simbolico delle mima-hadas.


Testimonianze
Orly, Israele
E’ molto emozionata per le donne di Israele che Jenny ha nominato e cui porterà il saluto; qui ci sono Dafna Kaminer e Yvonne Deutsch, tra le fondatrici delle DiN.
Ogni venerdì manifestano contro l’occupazione, per la libertà della Palestina, in piedi e in silenzio. I media alternativi in Israele trasmettono film contro l’occupazione. Mostra un video di 4 vigil settimanali: Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv e in un kibbutz, dal 2001 al 2011. Documenta le reazioni dei passanti, dalle automobili e dai mezzi pubblici, sono molto pesanti, chiamano le donne “puttane”, “immondizia”, ecc. (Yair Gil 2011). Conclude dicendo alle palestinesi che non vogliono essere nemiche.

Jadranka Milicevic, Balcani
Ricorda le 8000 persone musulmane uccise a Srebrenica in 2-3 giorni. “Io sono una delle molte donne nei Balcani che sono riuscita a sopravvivere 18 anni solo con il sostegno delle organizzazioni di donne. Le donne erano contro Dayton e non sono mai state ascoltate: non c’era neanche una donna alla tavola dei negoziati”. Ricorda come le donne dal ’93 al ’96 si erano organizzate per sopravvivere, preoccupandosi soprattutto dei bambini, degli anziani, dei feriti, dei malati, dei profughi, cercando di costruire ponti e di mettere in contatto le persone separate dalla guerra. Nel contesto di guerra sono stati organizzati i primi incontri della Rete internazionale delle Donne in Nero, con donne da Italia, Spagna, Svezia: era un tentativo di ricostruire la vita, di creare spazi di libertà per le donne, una speranza nella disperazione. Nel dopoguerra le donne cercano la sicurezza, si sono attivate per una società senza discriminazioni, libera da stereotipi e pregiudizi, con parità di presenza nello spazio pubblico e privato. (Fa vedere un video con testimonianze delle donne di Srebrenica che le Donne in Nero di Belgrado hanno prodotto e hanno fatto proiettare in piazza a Belgrado).

Hogla Teruel Fernandez, Honduras
Interviene per l’America Latina, ringrazia per l’invito, è dall’anno scorso che desiderava essere qui. Non sa se tutte conosciamo quanto succede in Honduras dal giugno 2009, dal 1960 al 1980 c’era stata guerra interna e con i paesi vicini; è un paese che gli Stati Uniti usano come passaggio, per ragioni geopolitiche. Credevano che colpi di stato e dittature fossero superate nell’America Latina del 2000 e invece nel 2009 il presidente dell’Honduras è stato cacciato da uomini di classe alta, i ricchi del paese. Nel giorno stesso del colpo di stato la gente è scesa in strada e contro le aspettative le dimostrazioni sono durate; a novembre ci sono state le elezioni, con frodi incredibili e di nuovo tutti sono andati in strada, contro la menzogna, la dittatura, l’antidemocrazia. E’ il prodotto di anni di lavoro delle organizzazioni delle donne e delle organizzazioni sociali, con appoggi internazionali; c’è stata una sollevazione pacifica per mesi e mesi, fino al 2010. Come femministe resistenti loro uscivano in strada in verde-speranza, protestando contro la violazione dei diritti e le persecuzioni e hanno fatto un video per documentarlo. Ora la situazione non è risolta, come invece si crede.
Mostra un video sulla resistenza popolare al colpo di stato del 2009 contro Zelaya, con riprese di soldati e della repressione, testimonianze su donne picchiate, stuprate, uccise, ma anche con scene di manifestazioni, molte voci e volti di donne, resistenza delle femministe. Poi riprende a parlare: è insieme lotta di classe e lotta femminista, con molti colori, come usano le donne. Dall’esterno si crede che ora stiano bene, ma sono solo state date pennellate di bianco, come con il riconoscimento dell’Onu. Si è formato un fronte popolare, dagli indigeni e dai contadini ai professionisti e agli accademici, è una comunità forte; le elezioni non bastano, il problema è non dimenticare.

C’è un nuovo atto simbolico delle mimadas e si prosegue.

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La sessione si conclude con un breve video della Ruta regionale di Santander: giovani, donne, avvocate hanno lavorato sulla violenza sessuale.
Dopo il pranzo all’Hotel Dan, si riprende nel pomeriggio con un canto di donne del Chocò e un rituale di protezione, un video di Rosario Flórez con la canzone spagnola contro la guerra “No duraría”, un saluto delle mimadas.

Marina Gallego comunica che per questa sera sarà pronta la lettera da firmare a sostegno di Piedad Cordoba e che domani mattina ci sarà una riunione con alcune ambasciate e le Nazioni Unite; parteciperanno 12 donne, 7 internazionali, è importante che ci sia una donna dagli Stati Uniti. Sollecita tutte ad acquistare la maglietta preparata dalle donne del Chocò, da indossare alla manifestazione di domani; alle donne colombiane viene offerta dalla Ruta Pacifica.

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Ritorniamo in plenaria, c’è un canto (Mamuz va alla guerra) poi vengono chiamate le relatrici per i vari blocchi di paesi.

Europa e Balcani: interviene Maria Angeles, DiN di Siviglia,che si dice emozionata e entusiasta dell’Encuentro. Riporta le proposte concordate nel gruppo di lavoro.

Medio Oriente e Asia: Dareen riferisce che oggi c’è stato un attacco a un bus israeliano sul confine egiziano, ci sono stati cinque morti israeliani, sembra che gli attaccanti siano giordani, e il governo israeliano ha iniziato a bombardare Gaza, ci sono già sei morti palestinesi. Propone una dichiarazione perché cessi l’attacco a Gaza (applausi). Vogliamo far finire gli attacchi a Gaza e l’occupazione.
Tamara aggiunge che occorre esigere che Israele si faccia responsabile dei crimini contro i diritti umani che durano da quarant’anni. Israele non ha firmato i trattati internazionali e non rispetta la legislazione internazionale. Non ha firmato la convenzione istitutiva del TPI, perciò non può essere portato davanti al Tribunale Penale Internazionale. Corinne ha proposto di portare Israele in tribunale sul web e ha suggerito di raccogliere testimonianze sulle violazioni dei diritti umani, e opinioni di avvocati ed esperti.

Nord America: siamo state così ispirate da quanto abbiamo visto qui che abbiamo deciso di rivitalizzare come organizzazione nazionale le DiN USA – che adesso sono frammentate – attraverso:
- Ripartenza del servizio di lista e organizzazione di un sito che informi sull’esperienza fatta qui
- Proiettare in un festival i film delle DiN
- Valutare le nostre attività e cercare di attrarre donne più giovani.

America Latina [Colombia, Ecuador, Honduras, Uruguay]
- Resistenza femminista contro la guerra in Colombia
- Fine della violenza contro le donne
- Abbiamo bisogno di una migliore comunicazione internazionale
- Fine della militarizzazione della vita civile
- Lavorare in modo più stretto tra noi in America Latina (ci sarà un incontro a livello americano in Uruguay).

In plenaria sono stati restituiti a tutte i lavori dei gruppi di cui sopra, poi le Mima-Hadas hanno introdotto con un atto simbolico la chiusura del nostro Encuentro.

Clara chiama sul podio Silvia Garcia, che era tra le persone incaricate di raccogliere le idee: molto felici di tante proposte concrete; rafforzarsi e coordinarsi è importante; come organizzatrici dell’Encuentro si impegnano a raccogliere tutto in un documento che riporti la forza vissuta qui. Cercheranno di rendere vive le proposte, di raggiungere i media, perché di qui esca una grande azione sui governi e sui parlamenti. Domani ci lasciamo, ma continueremo ad operare contro guerre e militarismi.

E’ stata letta la dichiarazione finale:

XV ENCUENTRO DELLA RETE INTERNAZIONALE DELLE DONNE IN NERO CONTRO LA GUERRA.
Bogotá (Colombia) 15-20 agosto 2011

Abbiamo percorso un lungo cammino per arrivare fino a qui. Siamo venute più di 300 donne di molti paesi, dall’Africa, l’Asia, l’Europa, il Nord America e l’America latina e da diverse regioni della Colombia, per riaffermare che noi DONNE in NERO del mondo non rinunceremo alla nostra aspirazione a vivere in un mondo libero da guerre, paura e violenza. Le frontiere non impediscono le nostre relazioni, non c’è oceano che possa sommergere la nostra indignazione o cancellare le nostre speranze.
Non rinunciamo a smascherare i crimini commessi contro noi donne e contro le bambine, in tempo di guerra e in tempo di pace, negli spazi pubblici e privati. Non rinunceremo a denunciare l’uso dei nostri corpi come bottino dei militari.

Viviamo in una realtà mondiale, dominata dal militarismo e dall’apologia della guerra. Noi donne stiamo subendo sempre più diverse forme di violenza: in vari paesi del mondo eserciti regolari o irregolari utilizzano lo stupro come strumento di punizione contro comunità ritenute vicine al nemico; anche la resa in schiavitù di donne a fini sessuali è una realtà grave e ad essa si unisce la complicità degli organismi di sicurezza nel traffico di donne e bambine. Per di più stiamo assistendo alla privatizzazione della sicurezza.
Nella logica militarista si ritrovano insieme l’industria militare, le multinazionali e i grandi mezzi di comunicazione; questi ultimi si assumono il compito di giustificare la guerra, abituare la popolazione alle armi e ai loro effetti e a fare propaganda per i regimi e i leader che difendono i loro interessi. Fanno pure passare una visione della vita in cui conta il denaro facile e dominano il maschilismo, l’ostentazione e il disprezzo per la vita umana.

Il militarismo, a diffusione globale, sta penetrando le mentalità e tutti gli spazi di libertà, intimità e privacy. La militarizzazione della vita quotidiana è il fenomeno più pericoloso per la sopravvivenza della specie umana. La natura è già minacciata dall’azione predatrice delle multinazionali, la cui impunità è garantita dalla complicità con militari e regimi corrotti.

Ovunque si rafforzano le mafie, il narcotraffico e altre forme di delinquenza, che rappresentano poteri occulti. Molti militari, legali e illegali, sono in relazione con le grandi mafie del narcotraffico. In tutto il mondo cresce il consumo di droga. Inoltre stanno legittimandosi nuove forme di violenza come fame e malnutrizione.

Denunciamo il coinvolgimento del settore finanziario e delle transnazionali nelle guerre. Denunciamo la crescente vulnerabilità delle donne che difendono i diritti umani in tutto il mondo, specialmente nel sud.

Le DONNE in NERO ritengono i fondamentalismi religiosi, i militarismi e i nazionalismi fenomeni collegati che si comportano in modo simile verso le donne.

Noi donne vogliamo de-costruire la sicurezza militarizzata, e stiamo costruendo proposte per proteggere le donne in situazioni di pericolo. Le nostre analisi indicano che gli Stati per le loro caratteristiche possono contribuire all’aumento dell’insicurezza piuttosto che ridurla. Per le DONNE in NERO, quindi, le questioni relative alla sicurezza devono essere incentrate sulle persone e non sugli interessi degli Stati.

In questo contesto mondiale, noi DONNE in NERO stiamo opponendo resistenza al patriarcato, la cui massima espressione è il militarismo. Ci impegniamo a ribellarci permanentemente ai militarismi globali e a disobbedire ai totalitarismi, gli autoritarismi, le dittature e i nazionalismi. Siamo unite nel ripudio della guerra e della militarizzazione globale che colpisce specialmente le donne e tutte le persone escluse. Diamo tutto il nostro sostegno a soluzioni politiche e negoziate ai conflitti armati e alle guerre.

Desideriamo una società senza militarismi, che garantisca la vita e il pieno sviluppo delle donne, in libertà. E’ innegabile che le guerre ed i conflitti acuiscono le violenze, l’omofobia e la discriminazione contro di noi. Da qui deriva l’imperativo etico di essere contro la guerra e organizzarci e mobilitarci come DONNE in NERO contro la Guerra.

Noi DONNE in NERO esigiamo che non restino impuniti i crimini contro le donne. Ci pronunciamo contro la guerra e la barbarie, ci mobilitiamo affinché la paura e l’impotenza non ci paralizzino.

Riaffermiamo la resistenza civile e la nonviolenza come nostri strumenti e diamo valore ad altre forme per esprimere questa resistenza come le reti sociali, il boicottaggio, la letteratura, l’uso della contra-informazione, l’aver cura di noi stesse.

Ovunque noi DONNE in NERO siamo unite nel dolore che proviamo. Ovunque diamo impulso a principi etici e di solidarietà femminista. Ovunque ci unisce la capacità di reagire: invece di disperarci, stimoliamo l’azione creativa, la disobbedienza, l’empatia, la solidarietà, la resistenza e la ribellione. Tessiamo voci e silenzi, accompagnamento e solidarietà, con altre diverse donne. Cerchiamo una nuova comprensione a partire dalla compassione, dall’attenzione alla sofferenza.

Vogliamo che ci siano sempre più DONNE in NERO impegnate nella nostra resistenza pacifica. Vogliamo sfidare i poteri con la verità. Vogliamo trovare parole per parlare alla coscienza del mondo. Vogliamo decolonizzare le nostre menti e la nostra immaginazione al di fuori del modello patriarcale.

Continueremo vestite di nero per tutte le vittime conosciute e anonime di tutti i conflitti, per manifestare creativamente la nostra indignazione, per sanare le nostre ferite fisiche e psichiche e per gridare: Vogliamo un mondo senza guerre, paura e violenzA.

DONNE in NERO (e non solo) di BELGIO, BOSNIA-ERZEGOVINA, ECUADOR, GRAN BRETAGNA, HONDURAS, INDIA, ISRAELE, ITALIA, MESSICO, PALESTINA, PERÚ, REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO, SERBIA, SPAGNA, STATI UNITI, TUNISIA, URUGYAY E COLOMBIA.


Ci sono molti applausi, slogans, una standing ovation. Le donne di Santander girano per la sala e danno a tutte le internazionali una bambolina di lana, simbolo della resistenza pacifica delle donne .

Clara chiama Patricia, a nome della commissione che ha preparato la dichiarazione finale, perché riferisca che cosa è stato detto sul prossimo incontro internazionale: India, già indicata a Valencia, oppure Uruguay; hanno pensato anche agli Stati Uniti, dove però le DiN non si sentono pronte. Corinne interviene per proporre l’Uruguay, ricordando il gesto eccellente con cui lo scorso anno si è messo da parte; Jenny risponde che lì hanno una struttura e molto sostegno, ma è bene andare in India, così tocchiamo tutti i continenti.
C’è stata un po’ di discussione e alla fine si è deciso per l’Uruguay.

E’ quindi iniziato il rituale di chiusura e protezione delle donne, ci sono stati gli Alabaos (canti tradizionali) delle Donne del Chocò, Colombia. A ognuna di noi è stata consegnata una girandola colorata, e – da parte delle donne del Cauca – un pacchettino contenente i principali semi della sovranità alimentare colombiana, da portare il giorno successivo nella manifestazione conclusiva.
Una donna del Cauca parla della resistenza pacifica di tante contadine della regione, che difendono la loro autonomia nel coltivare rispetto all’oppressione dei soldati.
Una donna del Putumayo – da cui sono state portate le lettere che ci vengono date – parla dei testi scritti da donne vittime di sofferenze e dolore: sono lacci di solidarietà.
Dal Chocò sono stati portati i canestri, dalla Valle del Cauca le farfalle-girandole che ripetono un rituale cui partecipano bambine/i di tutte le classi sociali.
Dopo i ringraziamenti conclusivi di Marina Gallego Paula Rios ha cantato “Mujeres de Negro” e la sala la ha obbligata al bis.

Alla sera abbiamo danzato con musica latinoamericana live eseguita da un gruppo di donne, “Grupo de mujeres AguaSalà” fino alle 2.00.


Venerdì 19 agosto


Manifestazione! Circa 300 donne con striscioni e cartelli in molte lingue e farfalle e fischietti, con il viso dipinto come nel manifesto dell’Encuentro e indossando le magliette dell’Encuentro, si sono incamminate dal nostro hotel fino alla piazza davanti alla chiesa di S. Francesco, poi si sono allineate deponendo un enorme quilt [un enorme striscione composto da tanti quadrati diversi] e altri striscioni e simboli, anche croci e bare che rappresentavano le donne che sono morte. Una donna vestita da farfalla – che simboleggia la speranza – danzava una rappresentazione di strada. Hanno parlato donne di ogni parte della Colombia, e intorno si affollavano persone per vedere e sentire.

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